Milano-Los Angeles: sul filo del telefono scorre la voce paciosa di Andy Summers (58 anni) che, messi definitivamente da parte gli abiti da rockstar – almeno sinché a Sting non verrà in mente di riunire i Police – è sempre più coinvolto in intelligenti operazioni di restyling delle composizioni dei maestri del jazz.
Così, senza accantonare la passione per la fotografia e quella per il tennis, Andy (borghese, bianco e inglese) suona sempre più e sempre meglio la musica che ha rappresentato, per una trentina d’anni almeno, la quintessenza dell’arte e della cultura dei neri d’America.
In genere Mingus viene considerato dai musicisti jazz un osso duro. La sua musica ritmicamente complessa, armonicamente sofisticata e melodicamente imprevedibile, spesso è vista come una sfida impegnativa. Come hai deciso di affrontarla?
Non ho certo voluto cimentarmi in questa impresa solo per dimostrare di potercela fare. In realtà, per me la musica di Mingus non è così difficile. Piuttosto, ho cercato di calarmi il più possibile all’interno dell’arte di Mingus per carpirne i significati più profondi ed essenziali. Sono sempre stato attratto da Mingus proprio per la sua originalità compositiva, per le sue intuizioni inusuali e, se vogliamo, per il fatto che fosse così poco convenzionale per il mondo del jazz. Così ho iniziato la mia ricerca, recuperando gli spartiti originali, ascoltando le registrazioni con grande attenzione e iniziando ad individuare i brani più interessanti.
Ho infatti deciso di non effettuare scelte troppo ovvie cercando, al contempo, di non fare a tutti i costi quello con la puzza sotto il naso. Per me, la cosa più importante, direi anzi la vera sfida, è stata quella di affrontare con umiltà e rispetto il repertorio di questo genio del Novecento cercando di dimostrare attraverso la mia chitarra e i miei arrangiamenti quanto la sua musica sia, ancora oggi, moderna ed attuale. Un po’ come ho fatto con Green Chimneys, il mio album-tributo a Thelonious Monk.
Quando hai realizzato l’album con le musiche di Monk hai spiegato la tua difficoltà nel riarrangiare i brani dal punto di vista ritmico. Anche con le composizioni di Mingus hai avuto gli stessi problemi?
Sì, anche se con Mingus la difficoltà maggiore è stata quella di comprendere il carattere del personaggio, scontroso e ribelle ma anche dotato di una forza formidabile, che trapela nettamente dalla sua musica. E, soprattutto, di far sì che nelle mie interpretazioni non si perdesse questa caratteristica, questa dirompente energia che io considero fondamentale. A me sembra che la figura di Mingus sia presente nel mio disco e questo mi fa pensare di aver fatto un buon lavoro. Pur di non perdere ciò, considerando anche il mio approccio chitarristico, sono stato costretto a riscrivere il ritmo di alcuni brani. Certamente, anche in questo caso, ho lavorato molto di più sui ritmi che non sulle melodie che, nella maggior parte dei casi, ho lasciato inalterate.
Ricordo che all’epoca avevi sottolineato come Monk avesse avuto un’influenza decisiva sulle tue scelte musicali. Addirittura sostenevi che un album di Monk ti avesse in qualche modo cambiato la vita. Mingus ha avuto lo stesso impatto su di te?
Non proprio. La sua musica mi ha sempre incuriosito anche se, da ragazzino quando ero letteralmente affascinato dal jazz di Monk, la trovavo un po’ difficile. Inoltre, all’epoca la maggior parte dei jazzisti stava alla larga da Mingus per cui anche nell’ambiente dei jazz club inglesi non era facile entrare in diretto contatto con le composizioni di Mingus. Forse la sola Goodbye Pork Pie Hat veniva suonata: il resto del repertorio, proprio in considerazione delle difficoltà nel rendere in musica la formidabile personalità del suo autore, veniva accuratamente evitato.
Come è nata l’idea di combinare i versi di una poesia di Mingus con la musica di Goodbye Pork Pie Hat?
Quasi per caso. O meglio: un evento fortuito che però è stato perseguito. Mi spiego. Uno degli obiettivi principali del progetto è sempre stato quello di realizzare un album moderno, attuale. E quindi, l’idea di utilizzare un rapper venne quasi subito.
All’inizio si era pensato di utilizzare alcune frasi dell’autobiografia di Mingus e di recitarle su una base blues. Nel frattempo, avevo ascoltato i dischi di A Tribe Called Quest e questo Q Tip mi piaceva, ma non riuscivo a mettermi in contatto con lui. Poi, un giorno, ho ricevuto una telefonata da New York e scoprii che Q Tip stava registrando in uno studio lì vicino. Sempre per caso, sono venuto a sapere che è un appassionato di Mingus. Il resto è stato piuttosto naturale: io gli ho proposto quel blues che avevo già inciso e lui mi ha ribattuto dicendomi che Goodbye Pork Pie Hat era il suo pezzo preferito. È lì che abbiamo avuto insieme l’intuizione di usare le parole di quel poema sulla musica del brano. Alla fine, siamo rimasti entrambi molto soddisfatti. È un pezzo estremamente emozionante.
Com’è andata invece con Debbie Harry?
Io e Debbie ci conosciamo da tempo. E, così come avevo fatto nel disco precedente quando Sting ha cantato ‘Round Midnight, cercavo un cantante non-jazz ma con sensibilità jazz che potesse dare il tipo di interpretazione che cercavo. In entrambi i casi, mi sembra che i risultati siano assai soddisfacenti.
L’ultimo pezzo del disco è un duetto con il Kronos Quartet…
La collaborazione con il quartetto d’archi di Seattle mi era già venuta in mente per il disco-tributo a Monk. Il Kronos infatti incise qualche anno fa, insieme a Ron Carter, Monk Suite, un disco straordinario dedicato a Thelonious. Ma per vari motivi ho potuto realizzare l’impresa con il progetto su Mingus: il che, a pensarci bene, è ancora più inte-ressante poiché quest’album è stilisticamente più vario del precedente e il pezzo insieme al Kronos rappresenta la chiusura ideale del disco.
Pensi di aver saputo catturare con questo lavoro lo spirito di Charlie Mingus?
È una domanda impegnativa che riguarda un argomento spinoso. Penso sia un poco presuntuoso pensare di entrare così profondamente nell’animo di un grande artista credendo, inoltre, di poterlo rappresentare al 100% seppur a proprio modo.
Io mi auguro di aver fatto un’operazione credibile e piacevole con la quale emozionare il pubblico e magari farlo interessare alle versioni originali. Sapere che anche una sola persona, dopo aver ascoltato il mio disco, si potesse incuriosire al punto di andare a comperare uno degli album originali di Mingus mi riempirebbe di orgoglio.
Come giudichi altri album-tributo a Mingus come, ad esempio, quello realizzato anni fa da Joni Mitchell? Pensi che ci sia qualche connessione con il tuo lavoro?
Assolutamente no. Non vedo nessuna similitudine tra il disco della Mitchell e il mio. Tra l’altro, l’album Mingus di Joni non mi è mai piaciuto e l’ho sempre considerato più un album di Jaco Pastorious che non uno della Mitchell.
Quale pensi potrebbe essere il giudizio di Mingus se avesse la possibilità di ascoltare questo disco?
Sinceramente mi piacerebbe sentirgli dire che ha apprezzato il fatto che alcune delle mie versioni lo hanno sorpreso. Mingus, infatti, era solito cambiare in continuazione la struttura dei suoi brani e sperimentare sempre intorno ai propri pezzi. Ecco, se lui ad esempio mi dicesse che gli è piaciuto il mio arrangiamento di Peggy’s Blue Skylight e che lui non ha mai eseguito quel pezzo neanche una volta in quel modo, sarei davvero soddisfatto.
(e.g.)
…E NEL MEZZO CI FU MINGUS
“Sei un nero. Non ce la farai mai nella musica classica. per quanto bravo tu sia. Se vuoi suonare devi suonare uno strumento ‘da negro’. Non puoi sbattere un violoncello, perciò ti tocca imparare a sbattere il basso, Charlie!”
Il consiglio del sassofonista Buddy Collette al giovane Mingus innamorato di Debussy e Stravinsky era una presa di coscienza chiara e spietata di un’America dove erano ancora forti tutte quelle imposizioni sociali e razziali infarcite da direttive pseudo puristico–perbenistiche che toccavano ogni forma d’arte non-bianca.
Così iniziò la storia di Charles Mingus, compositore, pianista ed ovviamente contrabbassista, una delle presenze fondamentali in tutta la storia del jazz. Figura scomoda e sgradita, mai troppo amata in vita, Mingus è stato il trait d’union tra due rivoluzioni eclatanti come il be bop degli anni Quaranta e il free jazz dei Sessanta, anticipandone le loro risorse formali.
Mingus il bastardo, Mingus il maledetto che narra i paradisi e gli inferni più riposti dell’anima, Mingus l’erede di un contesto espressivo che ha attraversato 50 anni di storia musicale. Mingus l’attore che interpreta in gioventù due film cult come Higher And Higher e The Road To Zanzibar.
E poi Mingus l’eroe suo malgrado, il predestinato che ha dentro di se l’eroismo di chi non ha niente da perdere, di chi non ha bisogno di coraggio e di prove. La vita e l’attività artistica di Mingus sono un po’ la parabola dell’individuo sempre preso nella tensione utopica alla ricerca delle sue radici, di un uomo nuovo per un mondo nuovo. Tutto questo dovuto, principalmente, alla sua condizione di mezzosangue, lui che portava uno cognome africano ma nelle cui vene scorreva sangue misto era un ibrido mal sopportato da tutti. Era nato nel ’22 in un campo militare di Nogales in Arizona, ma si trasferì subito a Los Angeles e nel suo libro autobiografico Peggio di un bastardo si descriveva in terza persona con queste parole: “Ogni volta che quel negro si guardava allo specchio e si domandava ‘Chi sono io?’ gli sembrava di vedere un’infinità di discendenze: indiana, africana, messicana, asiatica con una certa quantità di bianco da una fonte della quale si era vantato suo padre. Voleva essere una cosa o l’altra, e invece era un po’ di tutto, senza essere nulla di completo, senza razza, paese, bandiera, amici”.
Tutto questo portò, negli anni a venire, ad estremizzare sempre la sua vita artistica e personale in una ricerca continua della propria identità che, a differenza di gente come Archie Sheep o Art Blakey, cercava la sua dimensione di non-bianco nel sud del Mississippi, nelle città di frontiera con il Messico e non nell’Africa occidentale come la maggior parte degli artisti afro-americani.
La sua immensa personalità, la sua voglia di crescere senza curarsi delle posizioni acquisite, senza ‘affezionarsi’ troppo ad uno stile, ad un suono, trasformarono il suo jazz in una finestra aperta sul mondo, un esperanto che parte dai primi laboratori musicali dei Jazz Composers Workshop insieme a Kay Winding, Roland Kirk, Thad Jones, Kenny Clarke, J.J. Johnson e Dannie Richmon, passa alle anticipazioni free di Pithencathropus Erectus e alle complesse intelaiature compositive di The Black Saint And The Sinner Lady. Mingus amava troppo la musica per potersi preoccupare di formule, sapeva che la musica non è una cosa statica e che il jazz non si poteva limitare alla regola, alla partitura, ma deve seguire una scelta prevalentemente emotiva. Nei suoi lavori, infatti, c’è sempre l’uomo che vuole fare musica e raccontarsi, senza partiture scritte ma organizzando il suono, tracciandone gli ambiti tecnici degli strumenti e gli spazi emotivi entro i quali muoversi.
“Io scrivo delle composizioni ma soltanto su un foglio di carta mentale; poi spiego la composizione, pezzo per pezzo, ai musicisti. Al piano delineo il disegno generale del brano così che essi familiarizzano con la mia interpretazione, col sentimento che voglio dare ad essa e con le scale e la struttura armonica del pezzo…”
Attraverso l’amore per Duke Ellington e Charlie Parker, Mingus costruisce questa ‘dinastia’, questa linea genetica che con capolavori assoluti e apparentemente diversi come le atmosfere messicane di Tijuana Moods, le ricerche timbriche di Mingus Ah Um, il blues e la church music di Oh Yeah riesce a ricomporli in un discorso consequenziale e unitario, adattandolo ad una decifrazione compatibile con quelle che erano nel tempo le nuove dimensioni percettive: basti pensare all’intuizione del free jazz con Eric Dolphy. Sono le strade che partono dai boppers e dal loro verbo e che spingono la sua ricerca espressiva verso canali e tracciati nuovi, segno di una vitalità senza fine, potenziale rigenerativo per il jazz stesso come quando uscì Charles Mingus Presents Charles Mingus e si gridò al miracolo. Nella sua Self Portrait In Three Colors venne fuori un ritratto dolce-amaro di grande sincerità e sensibilità.
“Io sono tre. Il primo sta sempre nel mezzo, senza preoccupazioni, senza emozioni; osserva ed aspetta l’occasione di esprimere quello che vedono gli altri due. Il secondo è come un animale spaventato, che attacca per paura di essere attaccato. E poi c’è una persona piena d’amore e di gentilezza che permette agli altri di penetrare nella cella più sacra del tempio del suo essere, si fa insultare, si fida di tutti, firma contratti senza leggerli, si lascia convincere a lavorare sotto costo o gratis ma quando si accorge di quello che gli hanno fatto gli viene voglia di uccidere e distruggere tutto quello che gli sta intorno, compreso se stesso per punirsi di essere stato tanto stupido. Ma non ce l’ha fa; e così si rinchiude in se stesso…”
Charles Mingus fu uno anche dei primi ad avvalersi per le sue musiche della liturgia multimediale (jazz, danza, recitazione) come sintesi d’eccezione tra profondità di ritmi ancestrali e grida di ribellione spirituale. Una specie di ‘ruota’ per inglobare melodie, sonorità, entrare diritto nel cuore e nel cervello senza ingabbiarsi in alcun tempo tecnico predeterminato.
Ci fu una crisi creativa verso la metà degli anni Sessanta e poi la rinascita con una nuova band di sue scoperte tra cui spiccano i nomi di George Adams e Don Pullen. All’improvviso arrivò quella grave forma di sclerosi che lo costrinse su una sedie a rotelle.
Nella prima metà degli anni Settanta il pubblico del rock, che in quel periodo si stava avvicinando alla musica afro-americana, scoprì la figura di Mingus e ne rimase affascinato perché egli incarnava lo stregone sensuale e maledetto, il maestoso bassista dal solismo quasi melodico sempre teso ad una comunicazione di ribellione. E l’ultimo atto creativo fu proprio con un’artista rock come Joni Mitchell. Con lei, entrò in studio di registrazione senza suonare, ma consigliando, indicando soluzioni sonore per una lavoro che non avrebbe mai ascoltato. Un giorno disse: “La musica è, o è stata un linguaggio di emozioni. Se qualcosa è sfuggito alla realtà non credo possa essere la mia musica. Essa vive e porta alla vita e alla morte, nel bene e nel male. È collera, ma è reale perché sa essere collera…”.
Morì il 5 gennaio 1979 a Cuernavaca in Messico a 56 anni: lo stesso giorno, su una spiaggia messicana 56 balene si arenarono.
(m.r.)