07/02/2024

Dall’inchiostro al web: Musica di carta!

Maurizio Inchingoli racconta mezzo secolo di giornalismo rock in Italia

 

La storia della musica non è solo studi e palchi. Anche le redazioni sono stati luoghi privilegiati per costruire un’identità musicale nazionale, soprattutto in un mercato periferico ma importante come quello italiano. Maurizio Inchingoli si è assunto l’arduo compito di ricostruire mezzo secolo di giornalismo e di informazione musicale in Italia nel suo ultimo libro per Arcana. Lo ha fatto partendo dai primi settimanali dedicati ai giovani degli anni ’60 arrivando alla crisi dell’editoria contemporanea. A lui la parola.

 

Partiamo evitando la cronologia dei fatti, caro Maurizio, e tuffiamoci esattamente a trent’anni fa. Febbraio 1994. Facci immaginare cosa poteva vedere un appassionato di rock entrando in edicola e dirigendosi al reparto riviste musicali…

Vado a memoria: Rumore, Il Mucchio Selvaggio, Rockerilla, Buscadero, Dynamo!, Aelle, Rockstar, Metal Shock, Tutto-Musica e Spettacolo, Tutti Frutti, etc. Tutte iniziative editoriali anche piuttosto diverse tra loro, per fortuna, ma utili a muoversi tra i generi. Per me era motivo di enorme curiosità.

 

Musica di carta parte da lontano, dall’ingenuità delle prime pubblicazioni degli anni ’60, che avevano lettori diversi – molto meno smaliziati – rispetto a quelli delle riviste prima menzionate. Che tipo di informazione emergeva dalle testate di epoca beat?

Le riviste di quell’epoca, mi riferisco a Qui Giovani, Ciao Amici, Big, Ciao Big, Best, etc., strizzavano l’occhio anche alla musica leggera e col senno di poi risultavano piuttosto semplici e ingenue, ma anche genuine e scritte spesso con un linguaggio ammiccante e diretto. Era logico fosse così perché il lettore giovane, una categoria direi nuova della società contemporanea, si approcciava forse per la prima volta a forme musicali pop così diverse tra loro e che iniziavano a prendere il loro spazio tra le riviste più generaliste, tipo Radiocorriere TV e TV Sorrisi e Canzoni.

Per intenderci: la cosiddetta “critica musicale pop-rock” era ancora in una sua versione piuttosto embrionale e logicamente pionieristica, naturalmente si leggevano le prime avvisaglie di quello che sarebbe avvenuto poi nei Settanta, ad esempio nell’ottimo Discoteca Alta Fedeltà, quando un certo “impegno” caratterizzerà poi numerose imprese editoriali legate alla musica.

 

All’epoca erano già attive da tempo due gloriose testate, Musica Jazz e Musica e dischi. Quali erano le peculiarità di queste riviste?

Erano, e lo sono state per molto tempo, dei veri e propri capisaldi dei generi musicali dei quali erano diretta espressione. Entrambe nascono nel 1945, a Seconda Guerra Mondiale appena terminata. Musica Jazz opera tutt’ora, tanto da risultare come la rivista più longeva dell’editoria musicale di casa nostra. Musica e Dischi era invece un vero e proprio bollettino per addetti ai lavori, con dati di vendita, case discografiche, elenchi di artisti e musicisti, che poteva ricordare quelle classiche riviste di settore; mi piace paragonarla a quelle per la caccia e pesca o a quelle mediche. Questo per dire di quanto la musica pop era importante e diffusa ai tempi. Inutile dire che lo è ancora oggi, ma non abbiamo più bisogno di bollettini, per quello c’è Wikipedia.

 

Negli anni ’70 l’informazione musicale comincia a diventare una cosa seria. È il decennio della militanza: quanto influenza la pubblicistica del periodo?

Basta avere tra le mani un numero qualsiasi di Muzak o Gong, ma in fondo anche di Super Sound, Nuovo Sound e Pop Records e il lettore di oggi si accorgerà di quanto erano vicini i mondi della musica pop-rock e quelli della contestazione, persino di area extra-parlamentare, in fondo tante recensioni a un certo punto potevano diventare dei piccoli trattati critici che comunque godevano, nel bene e nel male, di un taglio politico-culturale molto in voga ai tempi.

 

Rispetto al decennio precedente, negli anni ‘70 c’era uno scambio maggiore con l’estero, più frequenti i viaggi a Londra degli appassionati ma anche i concerti dei big stranieri da noi. Questi contatti riuscirono a svecchiare la stampa italiana?

…concerti che a un certo punto finiscono, basti pensare al celebre e convulso live dei Led Zeppelin al Velodromo Vigorelli di Milano nel luglio del 1971. Per fortuna, dopo un lungo “embargo” si riprende ad organizzare molti eventi che danno respiro al giornalismo e di conseguenza agli stessi lettori, che incominciano appunto anche a viaggiare e ad apprezzare penne più libere e meno paludate. Insomma, si passa dalla velina/articoletto/pettegolezzo a vera e propria disamina. Aggiungo, per fortuna…

 

All’epoca la rivista per eccellenza, una delle più emblematiche nel mezzo secolo narrato in Musica di carta, fu Ciao 2001 (da poco tornata in edicola). Quanto è stata importante per la maturazione non solo dei lettori, ma anche di una nuova classe giornalistica?

Sempre da un punto di vista di chi non ha vissuto quei tempi e armato del consueto senno del poi, Ciao 2001 fa la figura della rivista dal taglio generalista che comunque accoglie artisti e band molto diversi tra loro. Dario Salvatori ad esempio, diceva che era certamente bello scrivere di, chessò, Miles Davis ma per vendere il giornale poi in copertina ci dovevi mettere i Pooh. Tutto era utile pur di potere pubblicare e mantenere alta l’attenzione su di una rivista molto eterogenea e al passo coi tempi, come lo era appunto Ciao 2001. So bene che è tornata in edicola e che rispetta tutti i crismi dell’operazione nostalgia; naturalmente non c’è niente di male a farlo, potrebbe diventare un modo per farla conoscere ai più giovani, ma dubito riuscirà a far breccia su di loro, purtroppo.

 

A proposito di giornalisti, quali erano i loro punti di riferimento esteri in un periodo così complesso? Avevamo il nostro Greil Marcus, o il nostro Lester Bangs?

Difficile dirlo, e anche un po’ presuntuoso forse… Certamente i nomi di Amanda Petrusich, Robert Christgau, Simon Reynolds, Richard Meltzer, Paul Morley, Ian Penman, Nick Kent, John Savage, compreso Julian Cope hanno lasciato il segno, sia nella critica su carta che quella più recente sul web. Per l’Italia le firme ormai storiche che mi vengono subito in mente sono quelle di Riccardo Bertoncelli e Federico Guglielmi. Non sono certo l’unico a pensare che loro siano stati forse tra i primi a dare un profondo significato agli articoli musicali, scritti bene e con quell’acume che pochi hanno avuto. Fare poi i paragoni con firme come quelle di Greil Marcus e di Lester Bangs è tanto affascinante quanto sterile: quello anglosassone e quello di casa nostra sono due mondi completamente diversi, anche proprio come dimensioni e come correnti musicali, artisti e conseguente bacino di lettori.

 

Negli anni ’80 assistiamo alla fioritura di testate, ma anche alla maturità: cosa succede?

Accade che il mercato è in massima espansione, che gli editori (più o meno i piccoli, perché i grossi si defilano presto, avendo subito capito che c’era poca trippa per gatti…) possono approfittare di una larga diffusione dei periodici, del traino di radio e televisione e della voglia di allargare sempre di più il campo d’azione a livello di proposte culturali. Gli Ottanta per certi versi sono la perfetta sintesi tra le prime esperienze tra pop rock e musica leggera di Ciao 2001 e l’impegno critico di Muzak e Gong. E infatti nascono riviste sfaccettate come Popster, Rockstar, Fare Musica, Auditorium, Il Giornale della Musica, i periodici metal, Urlo, fino a quella meteora stampata in migliaia di copie che era Musica 80. Un giornale come quello ora non potrebbe quasi esistere…

 

Benché nato nel 1977, Il Mucchio segnerà fortemente gli anni ’80 e ‘90 connotandosi come imprescindibile punto di riferimento per la cultura rock. Qual è stata la chiave di volta di questa lunga e appassionante esperienza?

Bisognerebbe chiederlo a Max Stefani e Federico Guglielmi, le vere anime di quella lunga esperienza editoriale così amata, tormentata, e radicata nel territorio. Secondo me, Mucchio e Rockerilla (questo in particolare, secondo me) sono l’epitome degli anni Ottanta; lo accennavo prima, quello resta un decennio molto peculiare, vivo, sprecone e allo stesso tempo artistico e in espansione. Coi Novanta il Mucchio ha certamente consolidato la sua posizione, arrivando addirittura a uscire ogni settimana, ma forse ha fatto il passo più lungo della gamba, perciò ha poi dovuto rivedere la sua tiratura; per fortuna non la sua proposta che, anzi, si è diversificata e consolidata col Mucchio Extra, esperienza anticipatrice di tanta editoria musicale di oggi.

 

Il discreto stato di salute dell’editoria faceva sì che arrivassero in edicola anche testate specialistiche: ad esempio metal e punk trovarono uno spazio considerevole.

C’erano davvero testate tutte molto diverse tra loro. In un’edicola-tipo potevi trovare tranquillamente Blast, Dynamo!, Rock Sound, Bassa Fedeltà, Raro, Aelle, Thunder, Rock Hard, Metal Shock, Punk, Feedback-Dentro il rock’n’roll, e altre ancora. Il mercato aveva individuato tutti i target possibili, quindi nessun genere era tralasciato o quasi. La fetta legata al metal è stata secondo me, tra gli Ottanta passando per tutti i Novanta e una parte dei Duemila, una bella fetta, i lettori erano tanti ed agguerriti, compravano le riviste quasi a scatola chiusa e animavano festival e negozi di dischi. Certe situazioni ci sono ancora, sia chiaro, ma ho la sensazione che il metal si sia giocoforza rinchiuso in un recinto piuttosto circoscritto. Devo però ammettere che anche io ho lasciato per strada questo genere così peculiare, magari mi sto perdendo qualcosa di epocale e non ne sono a conoscenza.

 

Visto che siamo negli spazi online di una rivista storica, vorrei che tu ricordassi anche l’esperienza di Jam, nata nel 1994 e terminata quasi un ventennio dopo.

Ricordo che trovavo Jam nell’edicola del mio piccolo paese, ma non sempre purtroppo. L’ho frequentata poco… Quando poi l’ho studiata un po’ per scrivere Musica di carta mi sono accorto che a suo modo era una sorta di esperimento molto legato ai grandi nomi ed ai miti del rock, che ho trovato quasi anticipatore rispetto a riviste dedicate a questo enorme genere che escono ancora oggi. Paradossalmente, Jam sembrava essere espressione di un’idea di racconto musicale che poi avrebbe trovato maggior spazio anni dopo.

 

Internet ha davvero ucciso la musica di carta o ci sono state più cause?

Domanda da un milione di dollari… Direi che Internet è un linguaggio tecnologico che ha prima affiancato e poi provato a soppiantare, non del tutto per fortuna, la carta. Ci sono ancora oggi ottimi esempi di riviste musicali ma le edicole sono sempre meno, chiudono quasi ogni giorno ormai. Diciamo che il web ha dato una forte spallata all’editoria su carta e che questa è rimasta piuttosto tramortita. Il processo di smantellamento è lento e inesorabile, soprattutto va ad incidere sulle nuove generazioni che, deve andare bene, troveranno le riviste musicali come un qualcosa da sfogliare per eventuali studi e poco più. In tanti gettano nel cestino le riviste, qualcuno più coraggioso le conserva o qualche altro le dona alle biblioteche. Le riviste probabilmente non spariranno, di sicuro usciranno in tirature sempre più limitate e magari faranno capolino in qualche museo, in fondo anche questo è un processo storico e culturale piuttosto logico.

Maurizio Inchingoli - Musica di carta

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