01/05/2024

Musica e censura secondo Maurizio Targa

Arcana pubblica il libro del giornalista Il cuore è un sinti itinerante. Tutto quello che non si poteva e non si può più dire nelle canzoni

 

Dalla maglietta fina al finale della Carmen. Dalle acrobazie linguistiche dei giornalisti dei primi TG ai “demoniaci” Maneskin. Maurizio Targa è un indiscusso esperto in quella insidiosa – ma tanto affascinante… – materia della censura musicale. E se si pensa che la mannaia dell’istituzione si sia abbattuta solo su Dio è morto e pochi altri esempi, si sbaglia: il fenomeno è stato abbondante, e ancora oggi sopravvive in forme e modi diversi, probabilmente anche più subdoli, quelli del politicamente corretto e della cancel culture, per i quali la parola “zingaro” è da cassare. Molto meglio “sinti itinerante”…

Così Arcana ha pubblicato Il cuore è un sinti itinerante. Tutto quello che non si poteva e non si può più dire nelle canzoni: ne parliamo con l’autore.

 

Nel 2011 pubblicasti L’importante è proibire, uno dei testi di riferimento per la censura in Italia. Un decennio dopo torni con Il cuore è un sinti itinerante. La censura musicale è ancora in corso?

È esattamente questa la domanda che mi ha spinto a scrivere Il cuore è un sinti itinerante. Dopo essermela posta e aver riscontrato che la risposta è assolutamente affermativa, il passo immediatamente successivo è stato cercare di capire e – mi auguro di esserci riuscito – far capire, come e in quali forme. È chiaro che il censore ha cambiato giacca e obiettivi, ma i cerotti li mette ancora, eccome! Se una volta cercava il diavolo laddove il peccato probabilmente era solo nella sua testa (pensa che fantasia malata doveva avere chi metteva in discussione Tu nella mia vita di Wess e Dori Ghezzi immaginando la vita come “zona inguinale” e non come lasso di tempo che passiamo su questa terra!), oggi il censore ha ben chiari i suoi obiettivi, che sono altro rispetto al semplice riferimento sessuale.

 

Mentre ai tempi di De André, Battisti, Dario Fo e Mina gli interventi censori erano “semplici”, visibili benchè occulti, oggi la cultura del politicamente corretto sembra muoversi con maggiore violenza in una dimensione ovattata. È una corretta percezione?

Hai centrato il concetto. Questa è la riflessione di fondo. Considera il testo di Caravan petrol, il successone di Carosone, coi versi “Allah Allah Allah, ma chi tt’a fatto fa’”. Nel ’56 si cantano allegramente, negli anni duemila il nome della divinità islamica viene modificato in “Pascià”, per non offendere nessuno. O a Carlo Conti, che nel 2023 presentando I Watussi di Edoardo Vianello, nella trasmissione «I migliori anni», sente il bisogno di evidenziare che “I termini utilizzati nel brano sono da ritenersi contestuali all’epoca della scrittura del suo testo, e alla relativa sensibilità”. Come dire: “noi, con gli altissimi negri, non c’entriamo nulla”.

Altro esempio, i talent per i bambini. Paradossale come Amor mio di Mina, nella trasmissione del 2015 di piccoli cantanti «Ti lascio una canzone», vide il passaggio “stretto al mio seno freddo non avrai” cambiato in “stretto al mio petto freddo non avrai”. Ora, a prescindere che “seno” è una parola contenuta persino in una delle preghiere più importanti della cristianità, l’Ave Maria, si ha l’impressione che la toppa, mettendo il verso sulla bocca di una bambina di undici anni, sia stata peggiore del buco. Ma così è andata. E il tutto – a prescindere da quale sia l’opinione personale – merita senz’altro una riflessione.

 

Facciamo un salto indietro a canzoni come Tua, Dio è morto, Bocca di rosa e Dio mio no. Quali erano i principali argomenti che allarmavano i censori?

I nodi erano due: siamo inequivocabilmente un Paese a forte matrice cattolica, quindi il sesso e i riferimenti religiosi erano quelli che facevano rizzare le antenne al censore. Ovviamente alla religione cattolica: abbiamo appena ricordato che Allah era nominato con disinvoltura; c’è anche un pezzo dei Matia Bazar del ’77 che lo cita quasi in forma canzonatoria. Siamo però anche il Paese in cui, per non sbagliare, si chiude, o in questo caso si censura. Spiego meglio: Tua e Bocca di rosa ovviamente vengono oscurate perché considerate oscene (Tua nemmeno per il testo, assolutamente innocuo, ma per una interpretazione televisiva di Jula De Palma considerata troppo… arrapante per i mariti italiani!); i due brani in cui era nominato Dio, invece, per presunta blasfemia. Senza considerare che Dio è morto, ad esempio, era trasmessa regolarmente da Radio Vaticana, con un fan d’eccezione, nientemeno che Papa Paolo VI, il quale definì il testo di Guccini, letteralmente, “un lodevole esempio di esortazione alla pace e al ritorno a giusti e sani principi morali”. Così come tanti brani di De André (Spiritual, Si chiamava Gesù, Preghiera in gennaio) dalle frequenze di San Pietro si ascoltavano tranquillamente. In Rai, nel dubbio, si censurava.

 

Abbiamo avuto anche brani censurati per motivi prettamente musicali come Satisfaction, roba da più realisti del re… cosa temeva la famigerata commissione d’ascolto da brani stranieri rivolti a un pubblico che allora conosceva poco l’inglese?

La “soddisfazione” era sempre connaturata al sesso, sempre quello il motivo. Fa sorridere un aspetto: se da noi i bersagli erano le pruderie pseudo pornografiche, negli USA o nel Regno Unito la censura colpiva principalmente per altri motivi, uno su tutti l’incoraggiamento (o presunto tale) all’uso delle sostanze stupefacenti, che fece vittime illustri, dai Beatles agli stessi Stones, gli Who e così via. Da noi i pezzi censurati oltralpe passavano tranquillamente proprio perché “tanto, in Italia, l’inglese chi lo capisce?!?”. Ma anche in America la censura non scherza: una importante catena radiofonica promulgò una lista di canzoni da non trasmettere all’indomani degli attentati dell’undici settembre 2001. Nelle centinaia elencate, le “pericolosissime” What a Wonderful World di Louis Armstrong e Ob-La-Di Ob-La-Da, dei Beatles. Il perché, vi invito a scoprirlo nel libro…

 

La riforma Rai del 1975 mise fine alla censura o questa sopravvisse in altre forme?

Diciamo che abbandonò la forma “ingenua”, quella che portava a epurare Modugno in Resta cu mme perché cantava “nun me mporta ‘e chi t’avuto” sottintendendo che la ragazza non fosse più vergine, e passa a forme più sottili, come abbiamo già ricordato. I “politici da fiera” nella Dedicato (1979) di Loredana Bertè, ad esempio, non potevano passare in Rai: venne fatta cambiare nella “faccia che ho stasera”. Oppure Rino Gaetano dovette togliere un riferimento a Fanfani in Nuntereggaepiù. Francesco Baccini trovò chiuse le porte di Domenica In quando voleva cantare Giulio Andreotti tratto dal suo LP del 1992, Nomi e cognomi. Ma, anche in questo caso, non fu il leader DC a porre il veto, il quale anzi fece sapere all’artista genovese di essersi divertito molto ad ascoltare il pezzo. Il suo entourage, per non sbagliare, comunicò però in Rai che era meglio soprassedere. E così fu.

 

Un caso fuori tempo massimo, probabilmente ricordato troppo poco, fu Io se fossi Dio di Gaber, che fu ripiegò su un singolo con una indie-label, ostracizzato da tutti i media. Forse più che censura si trattò di una vera e propria battaglia culturale…

Io penso che Gaber fosse più che cosciente che il pezzo non sarebbe mai andato, un po’ come Guccini con L’Avvelenata. Se quello del “maestrone” era un brano zeppo di ‘cazzi’,’ froci’, ‘coglioni’, con l’apologia della masturbazione e del bere e così via, Io se fossi Dio andava rassegnatamente al patibolo per motivi politici. Nel 1980, col cadavere di Aldo Moro metaforicamente ancora caldo, Gaber non poteva ipotizzare che versi come: “… io, se fossi Dio, avrei ancora il coraggio di dire / che Aldo Moro, insieme a tutta la Democrazia Cristiana / è il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana!”. Ne aveva per tutti: “compagni socialisti, insinuanti astuti e tondi / con le vostre spensierate alleanze, di destra, di sinistra, di centro”. Per gli “untuosi democristiani” o i “grigi compagni del PCI”. Per i radicali: “La parola compagno non so chi te l’ha data / ma in fondo ti sta bene, tanto ormai è squalificata”, invitati a prepararci un altro referendum “questa volta per sapere / dov’è che i cani devono pisciare”. E i giornalisti? “Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti / e si direbbe proprio compiaciuti! / Voi vi buttate sul disastro umano / col gusto della lacrima in primo piano”. Una vera bomba atomica. Un manifesto per Gaber, ma con nessuna possibilità commerciale o di audience, quale effettivamente non ebbe mai.

 

Sia i Pooh che Achille Lauro sono stati invitati a modificare alcuni versi accusati di pubblicità occulta: un tema, questo, forse meno eclatante ma altrettanto sensibile.

Certo, la pubblicità più o meno occulta è un altro tema molto attuale. Anch’esso mutato: se una volta Edoardo Bennato (in Sono solo canzonette) doveva mutare in “Giornale della Sera” il nome del “Corriere”, oggi il fenomeno è in netta riduzione. Pensa al brano di Shakira, Bzrp Music Sessions vol. 53, la “revenge song” dove la bella colombiana si scaglia contro il suo ex, il calciatore Piqué. Lì addirittura vengono screditate delle marche: “Hai scambiato una Ferrari con una Twingo / Hai scambiato un Rolex con un Casio”, con un evidente denigrazione verso la vettura Renault e l’orologio giapponese. Ebbene, ora vige il “purché se ne parli”: la menzione ha prodotto un aumento esponenziale per la visibilità e l’interesse di entrambi i brand di orologi, con Casio che ha superato Rolex, stando a quanto riporta il magazine «Women’sWear Daily». Secondo i dati di Launchmetrics, una società di software e data insights che si occupa di moda, bellezza e lusso, il valore della citazione ha fatto guadagnare a Casio 70 milioni di dollari in Media Impact Value. Malgrado la citazione in negativo. Ovviamente Casio, che ha cavalcato la tigre con l’esilarante e geniale spot “I Casio durano più di certi matrimoni”, si è ben guardata da denunciare la show girl. In generale, la prassi oggi è che se nei testi si cita un prodotto, senza farne l’oggetto principale del brano, il passaggio è tollerato. Un discorso a parte i videoclip. Ma ti toglierei troppo spazio. La roccaforte per la pubblicità è Sanremo: lì non si può nominare nulla. Infatti Achille Lauro ha dovuto cantare “Vestito bene via del Corso” anziché “Vestito bene Michael Kors” nel suo brano al Festival 2019 Rolls Royce, e i Pooh, come giustamente ricordavi, hanno mutato come Bennato il Corriere nel Giornale della Sera, nel brano vincitore dell’edizione 1990, Uomini soli.

 

E oggi? In tempi di secolarizzazione estrema, di pubblico sempre più smaliziato e “fai da te” nell’educazione, che tipo di interventi censori ci sono sulla musica e soprattutto da parte di chi?

Oggi su sesso, droga e parolacce le barriere sono cadute o quasi. Il vulnus è sul politicamente corretto e le sue esasperazioni. Il titolo del libro me lo ha ispirato un passaggio di Mario Giordano nel suo libro Tromboni, dove scherza abbondantemente sulle correzioni dei testi musicali. Consentimi di citarlo: “Tutto era cominciato con l’eliminazione della parola “zingaro”, per la disperazione dei piano bar, lì son cominciati i guai: come si fa a cantare Il mio cuore è un nomade rom oppure Prendi questa mano, sinti camminante di origine indo-persiana?».

Un’iperbole, ovviamente, quella del giornalista alessandrino, ma la realtà è andata molto vicina alle sue provocazioni. È accaduto che il compositore Vince Tempera, nel 2016, abbia avuto dei problemi per una canzonetta che nel 1952, sessantaquattro anni prima, tutti canticchiavano allegramente. «Qualche anno fa – ha raccontato Tempera nel 2021– ero in Parlamento per una esibizione. Tra i titoli in scaletta inserisco anche El negro Zumbón. Venne la presidente della Camera dei deputati di allora, Laura Boldrini… mi disse: Maestro, non si può dire… El negro Zumbón! E io: mi scusi ma è il titolo registrato alla Siae, cosa vuole che dica?». Ognuno avrà ovviamente la sua opinione in proposito. A me fa molto ridere.

Maurizio Targa - Libro

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