22/05/2024

Musica e parole: il nuovo libro di Paolo Talanca

Una storia della canzone d’autore italiana per Carocci Editore

 

L’approfondimento e la divulgazione della canzone d’autore italiana devono molto a Paolo Talanca, che da anni è attivo sia sul fronte della ricostruzione storico/critica (pensiamo ai testi su Ivan Graziani e Francesco Guccini), sia su quello più analitico (dai “cantautori novissimi” al canone della canzone). Quello che probabilmente mancava alla sua opera era un compendio, che esce con Carocci nella collana “Biblioteca di testi e studi” accanto a saggi di geopolitica, linguistica, diritto ed economia. Musica e parole: breve storia della canzone d’autore in Italia è il titolo, ne parliamo con lui.

 

Partiamo proprio dalla collocazione nella collana di un editore come Carocci. La canzone d’autore è degna di comparire accanto a argomenti ampiamente approfonditi, dalla Costituzione italiana all’intelligenza artificiale. Un bel traguardo, direi…

Hai colto un punto centrale di questo progetto editoriale. Pubblicare in quella collana significa proprio voler assegnare alla canzone un ruolo di primo piano tra le discipline artistiche. Nel corso del Novecento credo che assieme alla canzone anche il fumetto abbia avuto il triste ruolo di arte “minore”, e non è un caso che l’illustrazione che fa da copertina al mio libro sia un’opera di Sergio Staino, gentilmente donatomi dalla famiglia, perché Sergio è uno dei paladini dell’arte del fumetto, che non ha niente da invidiare alle altre arti visive. Anzi, ha qualcosa in più. Il mio libro ha l’ambizione di voler inoltre divulgare – con un linguaggio accessibile e non accademico – la storia della canzone fatta con fini artistici e non prettamente commerciali. Su quella bisogna concentrarsi.

 

Musica e parole è un titolo breve, secco, indicativo dei due ingredienti di cui ti occupi. Ma non c’è solo quello nella canzone d’autore, bensì un mondo sonoro che parte dal classico napoletano e arriva alla trap. Non è strano che nello stesso libro si parli, tanto per fare due nomi, di Carosone e Madame?

No, perché io ricostruisco la storia dei protagonisti e delle opere della disciplina, ma anche della nascita dell’espressione che si riferiva a un oggetto preciso. Quando vuoi ricostruire una cosa del genere devi andare a scandagliare ciò che c’era prima, nel territorio arcaico della canzone napoletana, dei café-chantant, fino a Carosone e Buscaglione, e poi – una volta nata l’espressione “canzone d’autore” – seguire gli sviluppi che l’unione queste parole per definirla e il suo significato reale hanno avuto nel tempo. Il cuore, la stagione aurea è stata quella degli anni Settanta. Oggi “canzone d’autore” riguarda tutte quelle espressioni che riescono a salvaguardare l’autenticità artistica dell’origine del canto: il concetto più importante, con il quale il libro inizia e si chiude.

 

Ho scritto da poco un libro sui CSI del 1994 e quell’anno, insieme a tanti altri gruppi, parteciparono al Tenco. Una presenza oggi del tutto “innocua”, ma che trent’anni fa aveva un carico simbolico notevole. Oggi il termine “canzone d’autore” è diventato un contenitore ampio e capiente, ma pensi debbano esserci dei limiti alla sua inclusività?

Negli anni Settanta la PFM al Premio Tenco sarebbe sembrata fuori posto, tant’è vero che la loro collaborazione con De André sembrò addirittura blasfema per alcuni. Oggi è naturale che i gruppi possano far parte della “canzone d’autore”. È accaduto un meccanismo di antonomasia, per cui l’elemento più importante di un insieme (l’insieme della canzone d’arte) ha cominciato a dare il nome all’intero insieme. Ciò che rimane fuori oggi deve essere chi fa canzoni che prescinde dall’autenticità dell’origine del canto.

 

Un testo del genere è inevitabilmente sintetico, eppure ci sono alcune figure che hanno ricevuto uno spazio un po’ più ampio, penso a Gaber, Fossati o Capossela. Chi ha incarnato più e meglio di altri la dimensione “d’autore” e perché? Puoi citarci qualche nome a titolo di esempio?

Questo lavoro di ricostruzione storica viene soprattutto dopo il mio lavoro di natura semiotica, per il mio dottorato, in cui ho stilato il canone dei cantautori italiani. Prima viene la semiotica, si dà la struttura, le caratteristiche espressive di una disciplina; poi se ne può raccontare la storia. Lì il centro del canone era rappresentato dall’opera di De André, Guccini e De Gregori. Loro hanno caratterizzato il periodo grammaticale. Nell’accezione più larga di cui parlavo sopra, dagli anni Ottanta in poi, citerei Battiato, con il quale si è entrati nella fase “moderna” della canzone d’autore italiana.

 

Anche se breve, la tua è pur sempre una storia. La letteratura in materia è ampia, sia sul versante dei saggi generalisti che su quello delle singole biografie. Qual è lo stato di salute della critica cantautorale italiana?

Purtroppo molti critici si fanno trascinare dalla volontà di avere più visibilità in un mondo come quello dei social, e questo porta a colorire i propri pezzi o la propria presenza con un linguaggio volgare, quando non sciatto o superficiale. Io rifiuto le espressioni volgari, come rifiuto le scorciatoie che possono rappresentare una modalità che corre il rischio di emulazione. Anche perché questo atteggiamento va a discapito dell’analisi, della riflessione, perché se attiri un certo tipo di pubblico poi è per loro che devi scrivere. È un peccato, perché la critica musicale oggi ha un ruolo fondamentale in questo mondo fatto di numerocrazia. Ma ci sono anche e ancora molti colleghi dalla scrittura accurata, attenti e competenti, anche nelle università e nelle accademie. Fare nomi non mi sembra elegante, in un senso o nell’altro.

 

Canzone e Storia. La musica è un fenomeno sociale che assorbe i mutamenti storici e sociali, come dimostrano i nostri anni ’60, quando nasce quella che definisci “canzone diversa”. Qual è stata la sua diversità?

Sono d’accordo, a tal punto che ogni capitolo del mio libro è aperto da un paragrafo di ricostruzione storica e sociale dell’Italia di quel tempo. Negli anni Sessanta Umberto Eco inventa l’espressione “canzone diversa” perché in certi brani (dei genovesi, di Gaber, Jannacci o Endrigo) riscontra un elemento che – assieme alla presenza della poetica – diventa essenziale per far sì che si compongano canzoni interessanti: il realismo. Canzoni cioè che non raccontano di amori irreali e strappalacrime, ma che parlano di corpi, di bello e brutto della vita di modo da rappresentare tutta una parte numerosissima di italiani che non appartengono alla vulgata principale dell’informazione, al Festival di Sanremo o alla produzione industriale in serie di materiale musicale.

 

Gli anni ’70 sono il trionfo post sessantottino delle risposte alle grandi domande che venivano poste alla musica. Mezzo secolo dopo cosa resta di quella fiammata generazionale che accomunava i vari Venditti, De Gregori, Dalla, Guccini, Lolli e tanti altri?

Resta tutto. Ma la canzone che viene fuori dalla militanza è, paradossalmente, quella che ha minor merito. Resta l’esempio di una canzone che vuole anzi liberarsi dal mettere in musica ciò che il pubblico si aspetta (ideologia compresa). La stagione fatta dai nomi che hai elencato ha cambiato per sempre l’idea di cosa sia una canzone in Italia. Da lì in poi se fai canzone con quell’attitudine puoi farla in qualunque stile o timbrica o riferimento armonico e melodico. Ma Guccini e De Gregori, per citarne due, con le contestazioni della militanza politica hanno avuto scontri feroci: anche da quelli è nata un’altra idea di canzone.

 

Gli anni ’80 del disimpegno e dell’immagine hanno impoverito e banalizzato la canzone d’autore?

Per fortuna no, perché sono arrivati artisti come Battiato, ma anche Fossati, che sono riusciti a imporre il proprio stile anche quando la discografia chiudeva le porte ai cantautori, tanto che artisti grandiosi come Max Manfredi o Marco Ongaro facevano fatica a essere prodotti o avere una seppur minima distribuzione. Ma negli anni Ottanta in Italia è nata la reale indipendenza, che in quel periodo riguardava però praticamente solo il rock. Credo sia molto affascinante indagare il rapporto tra il mondo indipendente e quello “d’autore”. Per molti sono la stessa cosa, ma ci sono profonde differenze. Per un periodo, soprattutto negli anni Zero del Duemila, sono andati a braccetto, e Gianmaria Testa e Max Manfredi hanno vinto le Targhe Tenco più importanti: non credo affatto sia stato un caso.

 

Si citano spesso Bersani, Fabi, Silvestri e Gazzè come gli ultimi rappresentanti della canzone d’autore, eppure tu stesso sei sempre attento ai “novissimi”. Quali sono i nomi più recenti che senti di segnalare e perché?

A quelli che hai citato aggiungerei il mondo femminile, con due nomi su tutti: Carmen Consoli e Andrea Mirò. Io credo che oggi sia il momento di concentrarsi su artisti poco più o poco meno che quarantenni, che hanno un bagaglio esperienziale oramai importante e sono nel pieno della loro maturità. Artisti come Setak, Pilar, Piji, Roberta Giallo o Giovanni Block uniscono competenza e saper fare, il gesto e il gusto musicale. Io credo che in un futuro nient’affatto lontano l’intelligenza artificiale fornirà grande spazio al ritorno della canzone d’autore italiana, perché la musica commerciale e i suoi autori potranno essere facilmente sostituiti; il qui e ora e il graffio musical-letterario di una canzone, no.

Paolo Talanca - Musica e parole

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