È un talento onnivoro come ne esistono pochi, forse nessuno. Ha navigato (alla guida degli Attractions) in tutte le insenature del rock, dedicandosi poi a un capillare ping pong tra il più nobile pop orchestrale (Painted From Memory, pluripremiato cd con Burt Bacharach) e ardite operazioni che toccano l’intero scibile musicale. Troppo facile definirlo un Dr. Jekyll e Mr. Hyde; eppure proprio lui, l’occhialuto e dimesso operatore di computer Declan MacManus, grattugiando la chitarra con stile nervoso si è calato nel corpo del rocker naïf Elvis Costello. Dopo di che ha fatto di tutto. Ha scandagliato le anse del rock come pochi (dal rock gagliardo e venato di beat al blues), si è divertito a stupire il pubblico cambiando continuamente rotta (anni fa venne a Milano con uno show all’insegna dell’improvvisazione che fece storia: faceva girare una ruota su cui erano scritti i titoli dei suoi brani, e li tirava a sorte, eseguendo anche canzoni a richiesta del pubblico), a costo di giocarsi l’affetto degli intransigenti del rock.
Non basterebbe un libro per parlare delle sue deviazioni: ad esempio ha scritto opere cameristiche per complessi d’archi, ha composto per l’Academy Of St. Martin-In-The-Fields di Sir Neville Mariner, ha inciso lo splendido viaggio per voce pop e archi da camera Juliet Letters, ha rivisitato lo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate per il nostro Aterballetto, ha lavorato con la London Symphony Orchestra. Ancora: ha pubblicato For The Stars dove lui, novello Bacharach, guida il mezzosprano svedese Anne Sofie Von Otter in una spigliata rilettura di autori come Lennon-McCartney, Beach Boys, Willie Mae Robinson e naturalmente del signor MacManus.
Dal punk alla canzone d’autore, dall’artigianato pop alla musica colta, ha conquistato il difficile ma ubertoso territorio di una musica senza barriere né pastoie stilistiche. Se pensiamo che nel penultimo album, When I Was Cruel, ha campionato persino Un bacio è troppo poco di Mina, c’è da chiedersi cosa poteva inventarsi di nuovo il prode Elvis. Dove andrà a parare questa volta, ci si chiedeva? Poi è uscito North, raccolta di ballate sofisticate, rigorosamente acustico-cameristiche, in cui è accompagnato ora dal solo pianoforte, ora da un trio piano (l’Attractions Stevie Nieve che lo ha seguito nel concerto ottobrino al Manzoni di Milano) contrabbasso (Mike Fotmanek) batteria (il magico tocco jazz di Peter Erskine), ora dal Brodsky Quartet, ora da un’orchestrona con l’aiuto di stelle come Lee Konitz e Lew Soloff. Risultato? Una serie di ballate che confermano Costello competente e stralunato crooner del futuro.
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Sei d’accordo con questa definizione?
Beh, i crooner sono grandi cantanti, gente che sa usare la voce come Frank Sinatra, Bing Crosby, Nat King Cole. Io non ho una gran voce e non voglio nemmeno lavorarci sopra. Il canto, nel mio caso, deve sgorgare dall’emozione. Se studiassi o preparassi tutto meticolosamente le mie canzoni farebbero ridere. Quello che manca in tecnica lo recupero col sentimento. In questo senso sono un crooner moderno.
Ti candidi ad essere il Cole Porter del futuro?
Che complimento. Porter, Berlin, Gershwin sono maestri inarrivabili e i loro brani sono immortali, ma al tempo stesso legati alla loro epoca. Le canzoni allora erano lo specchio elegante, ma non ipocrita, di un mondo che non c’è più. Io mi accontento di un linguaggio più diretto, meno poetico, meno lirico ma più adatto ai nostri tempi, mi basta toccare il cuore di chi ascolta le mie storie.
Storie peraltro molto tristi.
Il viaggio di un uomo attraverso i sentimenti, la ricerca dell’amore, insomma attraverso la vita, è sempre ricco di melanconia, ancorché affascinante. Il dolore è un grande maestro di vita. Credo che in queste canzoni ci sia una malinconia terapeutica, positiva. Un viaggio attraverso la desolazione di un uomo tormentato che punta a nord per ritrovare la serenità.
Perché a nord?
In Inghilterra c’è un detto: se vuoi ritrovare la giusta via, rimetterti a posto con te stesso e ripartire, punta verso il nord.
Elvis Costello è un artista sempre più colto e impegnato.
Sono nato con il rock, e molti pensano ancora che il rock sia solo fracasso, ribellione, divertimento per giovani poco intelligenti. Il rock ha conquistato il mondo schiacciando come un carro armato tutti gli altri generi. Ora è cresciuto e, ultramaggiorenne, si avvia verso la vecchiaia: deve mostrare tutta la sua saggezza, la sua ricchezza combinando potenza, passione, ricchezza espressiva, spirito selvaggio e poesia. In questo senso il rock, figlio del blues, può essere il testimone-principe delle vicende dei nostri tempi.
Che cos’è il rock?
È una dura scuola di vita. A me ha insegnato a soffrire, a scrivere ciò che ho dentro senza paura. Il nuovo album è una sinfonia in undici parti: un piccolo esercizio intellettuale a base di emozioni. Non ho mai abbandonato il rock, e When I Was Cuel ne è l’esempio, ma amo esplorare nuovi territori. Il rock non è solo chitarroni imbizzarriti, ormai è un ricco cocktail di suoni e di colori.
Qui hai anche arrangiato e diretto le parti orchestrali, oramai sei anche direttore d’orchestra a tempo pieno?
Torniamo alla prima risposta. Non sono un vero direttore d’orchestra, ma quando senti la musica, la vivi, provi un senso di esaltazione che ti permette di guidare gli altri musicisti. Comunque c’è un continuo interscambio con loro: non so se sono io a dirigerli o loro a dirigere me. Dai musicisti che mi circondano imparo sempre qualcosa.
Ad esempio?
Lee Konitz, un maestro del jazz. Qualunque brano nelle sue mani si trasforma in tutto e nel contrario di tutto. Mi chiedi cos’è il rock? Lui può suonare qualsiasi brano di North trasformandolo in una ballad, in un blues, in un reggae, in un’improvvisazione libera, dilatando e accorciando i tempi, i ritmi. Questo è il senso della musica.
Non trovi che North sia un album troppo intimista e difficile? Con questa crisi del disco, non era meno rischioso fare un altro album rock?
Farsi condizionare dalle tendenze del mercato vuol dire vendere l’anima, inaridirsi. Allora è meglio cambiare mestiere. Quando ho inciso When I Was Cruel nessuno mi ha chiesto di fare un disco rock; è stata una mia scelta, era quello che sentivo e, se andiamo a vedere, non ha venduto granché ma a me piace molto. È un disco di Costello.
Con questi tuoi continui pellegrinaggi, cosa cerchi nella musica?
Cerco, trovo, perdo e ricerco di nuovo me stesso.
Insomma Elvis Costello è un’antistar.
Non ho mai giocato a fare il divo e a maggior ragione non potrei farlo ora che non sono più un ragazzino. La rockstar è un’invenzione dei media, che danno maggior importanza ai personaggi, al gossip anziché alla musica. Non parlerei di rockstar, ma di grandi personaggi, da Mick Jagger a Jimi Hendrix, che erano bombe di creatività, creatività che li ha anche portati a grandi eccessi, persino alla morte. Bisogna rispettare il loro genio e anche il loro dolore, non confonderli con idoli di plastica.
Che peraltro esistono.
Ci sono artisti dall’ego ipertrofico, che preferiscono l’estetica alla sostanza. Non chiedermi i nomi, ma non è gente con cui amo aver a che fare.
Come componi: scrivi prima i testi o la musica?
Anche qui, ogni volta parto da presupposti differenti. Per il nuovo album avevo in mente una traccia. Volevo raccontare i sentimenti di un uomo, dare coraggio a me stesso e agli altri spiegando che anche i momenti peggiori finiscono, sono una fase di transizione verso la positività. Il dolore è un grande traghettatore. Volevo essere una sorta di Caronte. Quindi i testi hanno avuto un ruolo primario, sono nati piano piano, giorno per giorno, come un diario. Ma non è un concept album in senso stretto naturalmente. Poi ho lavorato sulla musica che, naturalmente, doveva riflettere lo spirito delle liriche. Credo di aver fatto un buon lavoro.
È più difficile lavorare con la Von Otter o con il Kronos Quartet, piuttosto che guidare gli Attractions?
Ogni volta che inizio un nuovo progetto cerco di mettere d’accordo due elementi apparentemente inconciliabili: improvvisazione e composizione. Bisogna saper comporre improvvisando e improvvisare componendo. Una volta dissi che parlare di musica è ridicolo, anzi, è stupido. La musica va vissuta e ascoltata. Uno scatenato rock and roll o un lied hanno bisogno della stessa preparazione mentale. I membri del Kronos Quartet sono gli artisti più trasversali in circolazione. Basta uno sguardo e riusciamo a capirci, a portare in musica il linguaggio dei sentimenti. La Von Otter ha una voce eccezionale, una grande personalità e un carattere duttile. Con lei ci siamo incontrati a mezza strada: le sue versioni dei brani dei Beatles, dei Beach Boys o delle mie canzoni sono talmente personali da aprire nuovi orizzonti. È il pop che si fonde in un tutt’uno con la classica, non ci sono più differenze di generi e stili, né classificazioni.
Classica, opera, jazz, ora ti manca di approfondire il rapporto con il blues.
Il blues è la madre di tutte le musiche. Sembra semplice, grezza. Se ascolti distrattamente un bluesman degli anni Venti che suona la chitarra e canta con voce stonata, quasi fastidiosa all’orecchio, dici: questo è un povero disgraziato. Poi, se ti soffermi, scopri note impossibili da ripetere – si chiamano blue notes perché non le puoi ripetere sul pentagramma, e non sono esattamente ciò che noi definiamo bemolle -, scopri che quelle voci hanno le mille sfaccettature della vita vissuta. I blues di Robert Johnson, Son House, Charley Patton sono le voci degli angeli e dei diavoli che cantano insieme. È difficile suonare il blues, anche i grandi musicisti classici non ci riescono. Il blues è ordine e anarchia al tempo stesso, ma soprattutto è l’esperienza che si fa suono.
Hai lavorato anche con il nostro Aterballetto nella riduzione di Sogno di una notte di mezza estate.
Lavorare per il teatro o il cinema è difficile ma parti avvantaggiato. Non devi inventare una storia; ce l’hai lì bella e pronta. Certo, poi devi confrontarti con i mostri sacri. Se fai la musica ad un’opera di Shakespeare sono tutti lì con i fucili puntati. Ma io non mi preoccupo dei giudizi, anzi, mi preoccupo fin troppo del mio giudizio che, sui miei lavori, è sempre ipercritico. Sto percorrendo una strada a tappe: sono partito dal rock, la musica della mia generazione che non abbandonerò mai, e viaggio verso la musica totale.