In un passo del romanzo di Nick Hornby Alta Fedeltà il protagonista, Rob Fleming, discute animatamente con la fidanzata Laura. Lui, che ha un negozio di dischi e giudica le persone in base ai gusti musicali, non riesce a capire l’indifferenza di lei nei confronti dei dischi che lui adora, la sua incapacità di discernimento tra buona e cattiva musica. “Ci sono così tante altre cose di cui preoccuparsi…”, le risponde Laura. “Lo so che sembro tua madre, ma in fondo si tratta solo di dischi di musica pop, e preoccuparsi se un disco è migliore di un altro o no, beh, chi vuoi che lo faccia?” Non credo che Eddie Vedder, o Stone Gossard o Jeff Ament, sarebbero d’accordo con Laura. Loro sanno che ci sono dischi migliori di altri. Loro sanno che ci sono band che fanno musica importante, che ti scuote dentro, che ti accompagna anche quando lo stereo smette di suonare. L’ascoltavano quando erano ragazzi. Oggi cercano di farlo loro, quel tipo di musica. Ma se il protagonista del romanzo di Hornby vive nel mito dell’eterna giovinezza – o nella condanna all’immaturità, secondo il punto di vista di Laura –, i Pearl Jam hanno trovato il modo di crescere senza rinunciare a ciò in cui credono. Ad ascoltare il loro ultimo disco, l’atteso Binaural, vengono in mente le parole che Vedder cantava sei anni fa: “Ogni cosa sacra viene dalla gioventù / Dedizione, ingenuità e verità / Senza potere, senza niente da fare / Io lo ricordo ancora, perché tu no? Perché?”. Ecco, i Pearl Jam non l’hanno mai scordato. In una scena rock abitata da lolite che ammiccano dagli schermi di Mtv e da ribelli con il logo della Nike sul petto, Binaural ci ricorda il potere e la purezza della musica. Trasuda passione, rabbia, bellezza. Utilizza gli strumenti che usavano Who e Led Zeppelin, ma trova una via originale al rock moderno. Affianca canzoni d’amore e furiose contestazioni sociali. È il disco più cupo e grezzo dei Pearl Jam dai tempi di Vitalogy, 1994. È vario come No Code e duro come Yield. Possiede un’indiscutibile forza morale, ma non cede a facili appelli buonisti. E… sì, contiene un mucchio di belle canzoni. Poco importa se Parting Ways tradisce una certa rassomiglianza con Long Road, se Soon Forget ricorda quel pezzo di Who By Numbers, se l’introduzione di Breakerfall cita I Can See For Miles: i Pearl Jam sono qui per dirci due o tre cose che stanno loro a cuore. Una riguarda la loro città, Seattle. Ma anche la vostra città, qualunque essa sia. Lo scorso dicembre, mentre la band stava lavorando a Binaural nell’atmosfera familiare dello studio del chitarrista Stone Gossard, in città i manifestanti attaccavano le sedi locali delle multinazionali nel tentativo di bloccare i lavori del vertice della World Trade Organization. L’eco della protesta – probabilmente la più eclatante negli Stati Uniti da trent’anni a questa parte – è arrivata anche dentro lo studio, nei nastri di Binaural, sicuramente nella canzone Grievance. Mentre la band è impegnata in un tour de force di continui cambi ritmici, Eddie canta del “grande occhio” delle corporations, del falso mito del progresso e delle sue “ramificazioni”, della “perdita di indipendenza” provocata dal consumismo, concludendo che “meritiamo molto di più di questo” e che “mi sentirò vivo finché sarò libero”.
“Sono orgoglioso della mia città”, ha detto il cantante circa le rivolte legate al WTO. “Non sapevo esattamente a cosa avrebbero portato, ma alla fine sono state positive. È importante che la gente sia ancora motivata a ribellarsi. Il consumismo, il capitalismo, tutti questi ismi, sono una malattia. Non ti accorgi di averla presa finché non ti accade qualcosa di drastico. Ormai la gente vive per lavorare. Il nostro è un mondo veloce e l’America è in testa a questo processo: telefonini, computer… Ma non credo che nessuno possa sentirsi minacciato da una canzone come Grievance. Anche se la suonassimo davanti a 30mila persone entusasiaste i politici se la riderebbero.” Secondo il ‘nuovo’ batterista della band, l’ex Soundgarden Matt Cameron, “lo spirito anarchico dell’evento è stato grande. Ma quello che si è visto in televisione non è che una versione ripulita di quel che è successo. Avevo degli amici là. La polizia ha lanciato bombe che rilasciavano piccoli proiettili di gomma in ogni direzione”. La musica dei Pearl Jam cattuta ancora le vibrazioni di una città, come fa notare il chitarrista Mike McCready, “dove si scontrano conservatorismo e spirito artistico”, dove la Microsoft di Bill Gates ha sostitutito la Boeing nell’imporre uno stile di vita “aggressivo, ambizioso, arrogante e ossessionato dall’ostentazione della ricchezza”, come ci ha detto qualche tempo fa lo scrittore Clark Humphrey. E questi nuovi tecnocrati sfacciati e orientati al successo li rivedi nelle parole di Soon Forget, la canzone più dimessa di Binaural, una folk ballad di una semplicità d’altri tempi il cui testo, cui è affiancato un ringraziamento a Pete Townshend, recita: “Misero è il pazzo che scambia l’anima con una Corvette… Spera di rimorchiare una ragazza, ma beccherà solo il meccanico…”. E più in là: “Conta i soldi ogni mattina… È l’unica cosa che lo arrapa… Chiuso in una casa gigante, fa paura… La gente giù in città ride di lui… È un uomo che presto scorderemo”. “Parla di un tipo come Bill Gates”, ha spiegato il cantante, che nel brano si accompagna con un ukulele. “Ma potrebbe essere chiunque. Anche me. È come se stessi dicendo a me stesso: ‘Non diventare così’. Mi piace pensare di essere non quello che conta i soldi, ma uno dei tipi che ridono di lui.” “Una volta Ed e Chris Cornell”, ha spiegato McCready, “hanno parato di come sia difficile scrivere una canzone all’ukulele e Ed l’ha presa come una sfida.” Il pezzo è nato in un periodo in cui il cantante aveva tanta musica, ma nessun testo. “Perciò mi ero ripromesso di non toccare la chitarra e di concentrarmi sulle parole. Poi ho visto in un angolo l’ukulele e mi sono detto: be’, non è una chitarra, è un liuto. È meglio comporre con le tue dita, fisicamente, piuttosto che metterti ad ascoltare la musica e scriverci sopra un testo.” In Binaural ci sono altre canzoni che lanciano uno sguardo fuori dagli Studi Litho di Gossard. Insignificance, una delle canzoni attualmente più amate dai fans, è un pezzo contro la guerra caratterizzato da fulminanti break chitarristici (“Bombe… Cadono… Per favore, perdonate la nostra città… Per la sua irrilevanza”). Evacuation è un accorato appello a tagliare la corda, ma non per fuggire, piuttosto per ricostruire qualcosa di migliore (“È tempo di scordare ogni formalità…Tempo di piantare semi di ricostruzione… Questa volta non c’è tempo di simulare riluttanza”). Potrebbe essere una delle tante canzoni di fuga presenti nel repertorio di Vedder (Rearviewmirror, MFC, la Untitled sul Live On Two Legs), ma nel fantastico riff di chitarra e nel primitivo battere di Cameron è facile leggere un allarme sociale, un incitamento al cambiamento collettivo più che un desiderio personale di lasciare una situazione scomoda. E poi c’è Rival, scritta da Stone pensando a quanto accaduto alla Columbine High School di Littleton, Colorado, dove un anno fa due ragazzi trucidarono 12 compagni. “È una specie di ritratto vignettistico dell’ego, della rabbia e della violenza tipicamente maschile”, ha detto Gossard, “e dell’imprevedibilità della gente. Subito dopo i fatti della Columbine mi è entrata in testa una melodia. Ho cercato di immedesimarmi nei ragazzi autori della strage, immaginando che cosa mai abbiano potuto pensare la sera prima.” E cioè pensieri come “tutti i miei rivali vedranno quel che ho messo da parte: il mio fucile” e “chissà in che modo perderà sangue quel tizio che rende la chimica tanto difficile”. È ancora Glorified G, in America. In quanto ai fatti del WTO, anche se gli altri ragazzi della band sembrano essersi divertiti un mondo a vedere i manifestanti spaccare i vetri della Nike, Gossard si mostra molto, molto più cauto: “Sì, credo che la rivolta di Seattle abbia avuto un effetto sul disco, ma personalmente nutro sentimenti contrastanti. Quanto fatto dai manifestanti il primo giorno è stato grande, ma ha perso forza quando sono cominciati gli scontri. Avevano già l’attenzione del mondo, c’erano 40 o 50mila persone là fuori, erano riusciti ad interrompere il WTO per un giorno. Poi è emersa la parte distruttiva, che francamente non mi piace. E quando porti lo scontro sul quel livello, ottieni una reazione uguale e opposta”. Queste sono le due anime dei Pearl Jam. Quella estrema e quella moderata. Eddie e Stone. E in mezzo lo spirito visionario di Jeff Ament e la concretezza di Mike McCready. Il bello è che queste anime hanno imparato a convivere facendo dei Pearl Jam quello che sono adesso: una band consapevole, determinata, concentrata solo sulla musica. Semplificando, Eddie ha scritto i pezzo più duri e politicizzati di Binaural, Stone le canzoni più dolci. Come Thin Air, una ballata sulla “possibilità che, quando un amore è forte, crei dolore”, che in certe sfumature strizza l’occhio tanto al country quanto alla musica indiana. “Bella davvero”, secondo Vedder. “Mi ha spinto a scrivere canzoni ancora migliori. È incentrata su un amore nuovo. Io non avrei potuto scriverla: il mio amore è molto, molto vecchio. Ha 17 anni.”
O come l’elettro-acustica Of The Girl, dove la band dimostra molti più anni di quelli che ha. Anche le canzoni di Eddie hanno un lato, come dire, sentimentale. Qualche hanno fa quando incitava i ragazzi del pubblico ad essere romantici prima di attaccare Leaving Here, probabilmente pochi lo ascoltavano. Due anni fa qualcuno s’è pure arrabbiato a sentirlo cantare la sua tenera Wish List. Oggi non fa effetto leggere testi come quello della concitata Breakerfall (“Tutto l’amore che ha avuto adesso era solo legno che ha bruciato… Ora la sua vita è in fiamme, nessuno se ne cura… Può dare la colpa al mondo, pregare fino all’alba… Ma solo l’amore può fermare la sua caduta”) o quello dell’amara Parting Ways, che chiude l’album accoppiando chitarre elettriche e violoncello (“Dietro agli occhi ci sono tende… Sono state chiuse per nascondere le fiamme rimaste… Lei sa che il loro futuro sta bruciando… Ma riesce lo stesso a sorridere… E anche se oggi è di buon umore… Ha paura che presto dovranno separarsi”). Né scandalizza sentirlo cantare le parole di Light Years, una ballata sulla perdita scritta da Eddie la mattina dopo la morte di una persona che gli era molto vicina. È uno dei brani più facili dell’album, ma anche uno dei picchi emotivi: “Non eravamo che pietre… La tua luce ci ha reso stelle”. Da quando Vedder ha fatto un passo indietro, condividendo con Gossard, Ament e Mike McCready il ‘peso’ della scrittura di musiche e testi, i Pearl Jam sono diventati il veicolo per le canzoni di quattro songwriter – cinque contando Cameron, autore delle musiche di Evacuation. È forse anche per questo che a No Code, Yield e Binaural manca la visceralità, la spropositata intensità di Vitalogy: quello era il disco di uomo, Eddie Vedder, in piena crisi esistenziale; Binaural è l’album di cinque musicisti che viaggiano verso i quarant’anni e hanno ridefinito le proprie priorità. Lasciate perdere, se credete che il rock’n’roll sia una faccenda per rissose e bizzose star. Dov’è oggi Axl Rose? So che Eddie Vedder è qui, e canta canzoni splendidamente fuori moda che voglio ascoltare. Secondo Stone, “è incredibile avere un cantante disposto a interpretare canzoni di altri autori dicendo che sono di valore. Sapere che ognuno scriverà due, tre canzoni buone all’anno, collaborare con amici che rispondono in modo inaspettato alla tua musica, questo dà linfa vitale alla band”. Prima di cantare le canzoni di Stone e Jeff, Eddie si limita a chiedere qualche piccola delucidazione. Curiosamente, i suoi testi sono diventati sempre più chiari e lucidi, mentre quelli di Gossard e Ament sono più criptici. È il caso del primo singolo Nothing As It Seems, un lento spiritato, che a qualcuno ha ricordato i Pink Floyd, solcato da alcuni fantastici assoli hendrixiani di McCready. Nel testo Ament ha condensato in modo frammentato e involuto ricordi dell’infanzia, sensazioni di libertà e smarrimento, di straniamento emozionale. “La gestione del gruppo adesso è più democratica”, ha detto il bassista. “Se Eddie volesse incidere un album solo di sue canzoni, bene, lo faremmo. Ma dividendo con noi il processo di scrittura dimostra molto più rispetto per la band. Ed è un bene.” “Faceva un certo effetto registrare con quella testa che incombeva sopra di noi.” La testa è quella che serve per le registrazioni biaurali (o binaurali) di cui il produttore Tchad Blake è un esperto. Semplificando: per catturare (e poi riprodurre) i suoni in un ambiente esattamente come li ascoltano i presenti, si munisce una specie di testa di manichino di due microfoni posti dentro le orecchie. Blake l’ha utilizzata soprattutto per incisioni di world music, per le quali sopravvive il concetto di ‘registrazione sul campo’, annientato in un mondo, quello del pop, in cui un disco non è quasi mai la riproduzione di un evento musicale, ma la sua ricostruzione artefatta secondo i correnti criteri estetici. “Tchad è un produttore paziente”, ha detto Gossard, “ci lasciava lavorare a cose che magari lui non avrebbe nemmeno messo nel disco.” “Ci piacevano le atmosfere dei dischi prodotti da Tchad, ha aggiunto Vedder. “Abbiamo sempre cercato di catturare un’atmosfera con i nostri dischi. Lui non cattura solo il suono dello strumento, ma anche il suono l’aria intorno ad esso. Ci sono canzoni nel disco nelle quali lo senti, ti sembra di essere nella stanza.” Eppure Binaural non è un disco… biaurale. O meglio, la tecnica biaurale è stata utilizzata integralmente in un paio di canzoni (sicuramente in Soon Forget) e nel registrare le tracce di batteria, oltre che per un paio di ‘effetti’ scherzosi (un cane che ringhia prima di Rival, il rumore di macchina da scrivere in fondo al disco). Eppure il titolo rende perfettamente lo spirito del disco, la volontà della band di portare la musica al pubblico così com’è, senza mediazioni che la snaturino. La ‘registrazione sul campo’ di una rock band dell’anno 2000. Anche la copertina – una foto di una nebulosa che circonda una stella morente, a 8mila anni luce dalla Terra – è perfettamente in linea con la filosofia dei Pearl Jam.
“È la natura”, ha detto Vedder. “Al posto della foto di una montagna, è la foto di… credo sia come una montagna, solo molto più grande. Abbiamo sempre affrontato il packaging dei dischi come fosse il retro di una scatola di cereali: qualcosa da guardare, magari mente ascolti il disco. La foto della nebulosa dà una prospettiva alla vita. Ti fa sentire minuscolo. O almeno, a me almeno fa questo effetto. Ma non mi fa sentire inutile, né impotente. Anzi, è il contrario. Mi spinge a fare del bene al mio livello.” Il passaggio dal suono arrembante ma pulito del fidato Brendan O’Brien a quello stratificato ma caotico di Blake non è stato indolore. Alla fine delle incisioni c’era una certa insoddisfazione per il risultato, specialmente per il suono dei brani più duri e tirati. A remixare 8 canzoni su 13 è stato chiamato O’Brien, anche se alcuni fans criticano il suono poco nitido di canzoni come Breakerfall e Sleight Of Hand. Per non dire delle solite indecisioni dell’ultimo minuto che hanno portato la band ad escludere brani come Letter To The Dead, Fatal, In The Moonlight e Education, che forse riaffioriranno come b-side. “Io avrei preferito lavorare con Brendan fin dall’inizio”, ha confessato McCready. “Tchad ha fatto un grande lavoro sui pezzi lenti come Nothing As It Seems, ma le altre canzoni erano troppo dure per lui. Questa volta il processo di registrazione è stato più lungo e metodico e ha portato via un anno.” Ricorda Vedder: “Scrivevo le nuove canzoni nel periodo in cui ascoltavo il disco di Chris Cornell, che era on the road. Lo invidiavo per questo: lui non doveva più scrivere, aveva un bel disco da portare in tour. Il fatto è che sono duro con me stesso quando si tratta di scrivere i testi”. Eddie è duro con se stesso anche quando si tratta di considerare l’impatto della musica dei Pearl Jam. Sa che può fare la differenza, provocare piccoli cambiamenti, ma non ammette che quello è uno dei suoi scopi. A 36 anni d’età, fa musica per se stesso, credo, prima che per gli altri. Ma ha grande rispetto per il pubblico perché lui stesso, in fondo, è stato uno di loro. “Dopo 10 anni stiamo lasciando qualcosa in eredità, sono fortunato a poterlo dire. C’è gente che reagisce al nostro lavoro. E anche se in passato sono stato tentato di mollare tutto, di arrendermi, sento il bisogno di restare assieme al gruppo. Ritengo ancora ridicolo fare musica pensando ai gusti del pubblico, però ammetto che è bello avere successo. Voglio che la gente sappia che il disco c’è, che è fuori. In passato non abbiamo gestito al meglio il nostro successo.” Se è vero, come dice Stone Gossard, che “davanti a noi c’è un oceano di possibilità”, i Pearl Jam sono destinati a durare a lungo. Per farcela, hanno imparato a perseguire la propria visione senza autodistruggersi, ad accettarsi a vicenda e a fare del gruppo un luogo inclusivo, dove tutti possono avere cittadinanza. “Quando abbiamo iniziato”, ricorda Stone, “quello sì che era un periodo volatile. Non ci conoscevamo e abbiamo cominciato a farlo solo negli ultimi anni. Ci guardiamo indietro e ci sentiamo fortunati ad avere ancora una band. Siamo nella posizione di pubblicare dischi per i prossimi 10 anni, o quanto dureremo, e di farli come ci piace. Il nostro esempio è Neil Young. All’inizio e a metà degli anni 70 aveva un tale successo… Poi se n’è andato per un certo periodo, è tornato e, improvvisamente, ha questo catalogo di qualcosa come 60 dischi. È questo che vogliamo: riuscire a fare musica e, tra qualche anno, guardarci indietro e scoprire che, nell’insieme, la nostra carriera ha avuto un peso.” È un po’ come dire: maturi e capisci che la storia della tua band non si esaurirà nei prossimi due mesi, che quello che ti sembra importante, se non fondamentale, come il famoso contenzioso con la Ticketmaster, visto in prospettiva è solo una piccola parte della tua vita di musicista, e nemmeno la più importante.
I Pearl Jam hanno perso la propria battaglia con la Ticketmaster? Sì, l’hanno persa. Secondo Jeff Ament, “metà dei biglietti del tour americano sono in vendita tramite Ticketmaster, che ha l’esclusiva per il 90% delle venues”. Però, almeno, sui tagliandi c’è scritto quanti dollari vanno al gruppo e quanti alla Ticketmaster. Binaural è questo: il disco di quattro musicisti che, con oltre 20 milioni di dischi venduti, per dirla con Stone “non hanno comprato grandi ville, non si sono trasferiti a Hollywood, non hanno comprato pantaloni di pelle”. Quattro musicisti che, finita la ‘luna di miele’ dei primi due anni, non hanno scordato la sensazione provata il primo giorno in cui hanno suonato insieme, quel guardarsi negli occhi e dirsi stupiti: qui sta accadendo qualcosa di importante. Quattro musicisti che la scorsa estate hanno ottenuto il successo più grande della propria carriera con una cover registrata durante un soundcheck. Che scatenano la devozione di alcuni ‘obiettori coscienza’ autodefinitisi ‘La Resistenza’ che lo scorso maggio hanno dichiarato di non voler ascoltare alcuna anteprima su MP3 di Binaural, perché un disco dei Pearl Jam è come il Natale: lo aspetti con trepidazione, ma non puoi anticiparlo. Che credono ancora nei 45 giri, che regalano ogni anno ai fan iscritti al loro club. Che non hanno bisogno di sculettare su Mtv per vendere dischi. “Potrei mettermi un pezzo di nastro adesivo sulla bocca”, ha detto Eddie, “e lasciar parlare i testi delle canzoni: là dentro c’è tutto quello che c’è da dire. E se non facciamo video è per difendere la qualità del nostro lavoro. Fare un video, e farlo bene, sottrae tempo ed energie alla musica e tua vita privata. Perciò, piuttosto che fare video di merda, non li facciamo. Finora siamo stati in grado di sopravvivere senza.” Come dice Stone, “per questo disco facciamo due giorni di interviste e quattro di tournée: mi sembra il giusto rapporto”. In quanto a Matt Cameron, è chiaro che la band gode del suo drumming potente. Ai fan che continuano a chiedersi che il batterista è o non è un membro ufficiale del gruppo, Eddie ha risposto: “Abbiamo una relazione aperta, per cui non è il caso di parlare di membri ufficiali. Non faciamo riti di iniziazione, e quando li abbiamo fatti non hanno funzionato (immagino si riferisca a Dave Abbruzzese, nda). Jack Irons è ancora un caro amico per cui immagino che, in qualche modo, suoneremo ancora assieme. Non lo facciamo da un pezzo, ma lo faremo”. Cameron ha aggiunto: “Ho un’altra band e una famiglia, e le mie priorità sono cambiate col tempo. I Pearl Jam hanno capito perfettamente che non posso impegnarmi in modo definitivo”. Eddie, lui sì che è impegnato in modo definitivo. Dice che gli piacerebbe essere ricordato come uno che ha cambiato qualcosa. Poco, ma qualcosa. “C’erano musiche immensamente popolari negli anni 20 e 30 e non ricordiamo più chi le cantava. Perciò mi mi spaventa la possibilità di essere dimenticato. Ma se anche una sola persona verrà colpita, un giorno, da un nostro vecchio disco, be’, sarebbe grande.” Già, come saranno ricordati i Pearl Jam? A me sembrano già adesso il più grande gruppo della mia g… g… generazione. Stone la mette sul ridere: “Non credo che la pensino così quelli che sono entrati nella nostra sala prove nell’ultimo anno…”.