20/03/2007

My Morning Jacket

Nel bosco incantato coi My Morning Jacket

Una foresta incantata: è lì che i My Morning Jacket hanno voluto ambientare il loro nuovo film concerto, un viaggio musicale sul confine tra reale e surreale pubblicato su dvd e cd audio. Un backstage (dei Pearl Jam) che pare una mensa aziendale: è qui che incontro il batterista Patrick Hallahan per farmi raccontare le ultime sul gruppo del Kentucky. Si parte dal film Okonokos, concepito dal cantante Jim James e diretto da Sam Erickson, e si finisce a parlare del concetto di mistero e dell’effetto che fa quando lo unisci alla musica rock.

Che cos’è Okonokos?

È una foresta incantata. Abbiamo effettuato le riprese per due giorni, suonando set di due, tre ore ogni sera per avere a disposizione un ampio numero di canzoni. Con noi c’era Mark Brickman, che in passato ha curato le luci dei Pink Floyd. Ma non sono semplicemente luci, le sue: sono arte.

Ho letto alcune anticipazioni: nel dvd non si vede solo il concerto, vi si narra anche una storia misteriosa. Ce la racconti?

Preferirei di no. Dirò solamente che si racconta di un viaggio attraverso la foresta durante la quale ci s’imbatte in un gruppo che suona: noi.

Dove avete filmato?

In una foresta incantata, te l’ho detto (ride, nda).

Una foresta americana?

Sì, negli Stati Uniti.

Quando?

L’anno scorso. Era estate.

Mi arrendo: evidentemente vi piace creare un alone di mistero attorno alla band.

Il mistero è parte integrante del rock’n’roll. Nulla dev’essere rivelato completamente. Quando negli anni 70 i Led Zeppelin andavano in tour, non sapevi granché di quel che facevano. Fossero un gruppo degli anni Duemila, sapremmo persino che cosa mangiano a cena. Non vogliamo essere come i Metallica che hanno fatto quel documentario, Some Kind Of Monster, in cui rivelano ogni cosa, ogni particolare. Non vogliamo dare le risposte perché una volta che fornisci la soluzione alla tua musica, beh, è finita, ha esaurito il suo scopo. Pensa alla società in cui viviamo, all’estrema facilità con la quale abbiamo accesso alle informazioni. È stupefacente come tu possa rintracciare su Internet nel giro di pochi secondi la risposta a qualunque quesito, ma ha annullato il piacere della scoperta. Ricordi com’era un tempo quando trovavi un disco che cercavi disperatamente? Era come scoprire un tesoro. Oggi i dischi li scarichi in pochi minuti, senza alcuno sforzo.

Forse non a caso la vostra musica ha un carattere onirico, ha il potere di trasportarti in un altrove.

Vogliamo fare musica senza tempo, sognante, cerebrale. Vogliamo che ti faccia scordare chi sei e dove sei.

Come stare in una foresta incantata.

In un luogo imprecisato degli Stati Uniti (ride il furbastro, nda).

Mi pare vi piaccia sfidare le convenzioni. Ascolti i My Morning Jacket e non puoi dire: si rifanno ai Led Zeppelin, oppure agli U2, o a Neil Young.

Non potremmo mai fare un solo tipo di musica: sarebbe noioso. È una continua sfida con noi stessi per esplorare nuovi territori ed essere creativi. Non puoi mettere un’etichetta sulla nostra musica. È sfuggente.

Il depistaggio stilistico è il tratto moderno della vostra arte.

Sicuro. Prendere da altre fonti, sì, ma in modo frammentario: un po’ di questo, un po’ dell’altro, un po’ di quell’altra cosa. È l’unico modo di produrre musica nuova in un’epoca in cui tutto è stato già detto e creato.

Dicono: il sesto membro dei My Morning Jacket è il riverbero.

Ed è l’unico che non può essere cacciato (ride di gusto, nda). Se ascolti i grandi dischi del passato, sentirai che sono pieni di riverbero: è l’effetto che ti induce a pensare che la musica provenga dalla stratosfera, da un’altra dimensione. Quando il suono è pulito, al contrario, non c’è mistero. E se non ha mistero, non è niente di speciale.

C’è un elemento di spiritualità nella vostra musica, o sbaglio?

Ci andrei piano. Spiritualità? Sì. Religione? No. Crediamo che esista qualcosa più grande di noi. Deve esserci qualcosa che muove ogni cosa. Abbiamo un approccio spirituale anche per quanto concerne la musica: è una presenza più grande della band stessa. Noi ne siamo solo i veicoli, capisci?

Capisco. Certi vostri crescendo esprimono un sentimento di elevazione, di ascensione.

È quello che cerchiamo di ottenere. Smuovere le persone. Ma non è una cosa di cui parliamo volentieri. Vogliamo evitare le domande sulla religione e sul cristianesimo. Non vogliamo che ci appiccichino addosso un’etichetta.

Difficile evitare certe domande, dal momento che Jim canta in Gideon: “La religione dovrebbe far presa sui cuori dei giovani”.

Quanti ragazzi vedi convertirsi al cristianesimo? Pochi. E invece la religione dovrebbe avere una rilevanza nelle loro vite, nelle vite di ogni uomo.

Tre di voi vengono da Louisville, Kentucky. La geografia ha una qualche influenza sulla vostra musica?

Penso di sì. Negli Stati Uniti conta se sei del Nord o del Sud. Louisville sta nel mezzo, in una zona grigia che non fa di noi dei nordisti, ma nemmeno dei sudisti. Questi tratti confusi, questa sensazione di non essere nulla di preciso ci ha permesso di costruire a nostro piacimento un’identità nuova. Penso che Louisville sia uno dei motivi per cui la nostra musica ha un carattere indefinibile.

Com’è allora che vi siete fatti la fama di banda del Sud?

Perché abbiamo interpretato un gruppo sudista in Elizabethtown. Quando il regista Cameron Crowe ci chiese di partecipare al film eravamo raggianti: wow (enfatizza l’espressione di entusiasmo, nda). Poi ha aggiunto che dovevamo suonare Free Bird (fa la faccia di chi si è appena vomitato sulle scarpe, nda).

Avete suonato al Bonnaroo. Sentite qualche affinità col mondo delle jam band?

No. Le jam band usano strutture libere, le nostre sezioni strumentali invece sono orchestrate. Capisco l’improvvisazione nel jazz, ma nel rock non ha proprio senso. Non voglio sentire un assolo di 25 minuti. Non voglio sentire nulla che duri 25 minuti.

Com’è che cantate con Eddie Vedder It Makes No Difference della Band?

Eravamo in tour coi Pearl Jam in America e la stavamo provando durante un soundcheck prima di registrarla per il tributo a The Band Endless Highway. Eddie era nel backstage. Ha sentito la canzone, è corso sul palco e ha detto: dobbiamo cantarla assieme stasera! Alla fine l’abbiamo incisa a casa di Levon Helm, vicino a Woodstock. Ci eravamo già stati per registrare Z. È stato come entrare in un santuario.

Che tipo è Helm?

Uno che organizza una cosa chiamata Midnight Ramble. In pratica, ogni tanto raduna a casa sua gli amici musicisti per una sorta di festa. La gente beve, suona, cazzeggia. Incredibile: c’erano Elton John, un sacco di session men. C’eravamo anche noi, ma siamo rimasti a guardare.

Ami la Band?

Adoro la loro etica, la passione e il talento che mettevano in quel che facevano, la loro onestà. Erano una favolosa macchina da concerti. Ed erano capaci di suonare di tutto.

E i Pearl Jam? Come sono visti da vicino?

Favolosi. Con loro condividiamo alcuni valori morali. Li rispettiamo. Hanno iniziato spinti da principi morali che non hanno mai abbandonato. E trattano i gruppi di supporto come principi.

Anche i loro fan vi hanno trattato coi guanti?

Mettiamola così. Sono impazziti per noi? No. Ci hanno preso a bottigliate? Nemmeno. Ma li capisco. Si sono fatti centinaia di chilometri in treno, hanno aspettato ore, magari si sono presi un acquazzone solo per vedere i Pearl Jam. Quindi è bene che la fottuta opening band sia convincente. Noi ci abbiamo messo tutto il cuore.

Com’è stato suonare a Verona sotto quella pioggia?

Spaventoso. Ma quando succedono cose di quel genere, il concerto diventa epico. Il bello della pioggia è che rende tutti uguali, unisce il pubblico. Per qualche motivo, quando sei zuppo ti senti più partecipe e solidale con chi ti circonda.

Tornerete a suonare in Italia?

Scherzi? Dovrete cacciarci a calci nel sedere. Prima di farlo, però, dobbiamo registrare un nuovo album e diventare un po’ più popolari dalle vostre parti. Ci aspetterete?

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