04/02/2010

NATALIE MERCHANT

LA MAMMA CANTASTORIE

Provare a descrivere la figura di Natalie Merchant in poche parole non è facile. Newyorchese, ex leader dei 10,000 Maniacs, cantautrice solista dal 1995, dopo quasi trent’anni di carriera il suo aspetto non sembra essere cambiato: sguardo intenso, volto sereno, bellezza acqua e sapone, di un fascino che conquista senza essere appariscente. Allo stesso modo la sua voce è rimasta la stessa, calda e vellutata, pregna di un’espressività ed energia coinvolgenti e ammalianti. Contemporanea di Suzanne Vega e Tracy Chapman, che tra gli anni 80 e 90 hanno contribuito a riscattare l’immagine della cantautrice femminile facendosi valere per l’impegno dei testi, la Merchant è stata definita «la Emily Dickinson della musica pop». Dopo aver lottato per tanti anni con questo ingombrante paragone, oggi sembra averlo accettato: il suo nuovo album in studio, il quinto da solista e il primo a quasi sette anni di distanza da The House Carpenter’s Daughter (2003), è una collezione di poesie scritte da autori classici e contemporanei riadattate in musica, intitolata Leave Your Sleep. Tra i vari poeti con cui Natalie si è confrontata troviamo E.E. Cummings, Charles Causley, Edward Lear. Non è la prima volta tuttavia che affronta un lavoro di questo tipo. Già nel 2006 si era cimentata a musicare un sonetto di Shakespeare per uno spettacolo commissionato dalla Royal Shakespeare Company al compositore Gavin Bryars, il quale aveva reclutato altri musicisti internazionali, come Antony Hegarty, Liz Fraser dei Cocteau Twins e l’irlandese Gavin Friday. Leave Your Sleep è sofisticato e colto, ricco di suggestioni musicali, spazia tra vari generi, dal folk al jazz, al blues, al reggae, alla musica orientale. I testi, nella loro varietà di stili ed epoche, sono legati da un filo conduttore, come spiega la cantante in un comunicato stampa: «Il tema principale è l’infanzia, vista nei suoi diversi aspetti e da molteplici punti di vista. Non c’è uno stato d’animo predominante: è la collezione di brani emotivamente più varia che abbia mai raggruppato in un disco. Le canzoni vanno dal comico all’assurdo alla profondità spirituale».

La ricercatrice
Abbiamo avuto occasione di parlarne direttamente con lei telefonicamente da Londra, dove al momento dell’intervista si trova per una delle poche date britanniche con cui presenta al pubblico il nuovo lavoro. «In questi anni mi sono tenuta occupata, ho scritto moltissimo, sia per questo progetto sia per quelli futuri. Ho moltissimo materiale», ci racconta dall’altro capo del filo, «ma fondamentalmente volevo stare con mia figlia. Da quando è nata ho iniziato a raccogliere i testi di varie ninnananne provenienti da tutto il mondo e a cantarle per lei. Man mano che la sua comprensione delle parole cresceva, le poesie diventavano più sofisticate. Ci siamo divertite a sceglierle assieme».
Il tono della sua voce è sereno e pacato, e la nostra breve chiacchierata è arricchita da piacevoli battute: la donna seria che non sorride mai, come spesso è stata ritratta dalla stampa, sembra un fantasma falso e lontano. «Quando trovavo un poeta che mi piaceva particolarmente cercavo in Internet qualcosa su di lui: così facendo ho trovato questi antichi, oscuri libri per bambini della fine del secolo scorso, molti dei quali non vengono più pubblicati. Inoltre amo la poesia nonsense, anche prima di avere mia figlia facevamo delle feste con gli amici dove leggevo i testi di Edward Lear, di cui sono una grande fan».
Ecco quindi che un semplice gioco nato tra le mura domestiche, tra madre e figlia, a canticchiare vecchie filastrocche, si è poi trasformato in un vero e proprio lavoro di ricerca, tra Internet e antichi volumi. Si percepisce anche la profondità musicale dell’album, grazie agli arrangiamenti ricchi e curati, alla strumentazione usata, agli ospiti presenti durante le registrazioni. Si va dal trombettista jazz Wynton Marsalis, al trio sperimentale Medeski Martin & Wood, al gospel dei Fairfield Four, al klezmer di Hazmat Modine e Cardamon Quartet, al compositore texano Stephen Barber, agli ottoni del Meridian Arts Ensemble, al duo country-folk delle Ditty Bops, alla cantautrice Katell Keineg. «Ho voluto usare strumenti originali e inusuali», ci spiega Natalie. «Ad esempio nel brano The King Of China’s Daughter compare un ensemble di musica cinese: non credo se ne trovino molti nei dischi pop incisi fino ad ora. Suoni di strumenti che hanno 3 mila anni come la pipa (una specie di liuto cinese a quattro corde, nda), o il dizi, che è un flauto traverso di bambolo, non si possono ottenere artificialmente. A volte è stato difficile trovarli, ma è incredibile cosa si può scoprire in Internet. Io uso principalmente MySpace e molti musicisti li ho conosciuti in questo modo, come i Klezmatics o i Lúnasa (celebre gruppo klezmer il primo, ensemble di musica tradizionale irlandese il secondo, nda), che sono delle grandi band. Fondamentalmente volevo essere la cantante ospite del loro disco, più che il contrario, così li ho invitati a casa mia. L’unica eccezione è stata per il brano Peppery Man, dove cantano i Fairfield Four: sono andata da loro a Nashville perché sono troppo anziani per viaggiare. Il cantante con la voce più profonda del gruppo ha 87 anni e riesce a malapena a stare in piedi da solo, ma quando apre bocca… è qualcosa che non ho mai sentito in vita mia».
Peppery Man ha una carica musicale che spicca su tutto l’album, tra il potente gospel del coro, gli ottoni e le percussioni: ci trasporta in un luogo al di là dello spazio e del tempo, difficile da collocare, mentre la Merchant scandisce le rime e il ritmo dei versi. «Mi sono divertita a portare le poesie in un uno stile lontano e diverso dal periodo e dal luogo in cui sono state scritte. Peppery Man è stata scritta ad esempio da Arthur Macy, un membro del Gentlemen’s Club di Boston, faceva il broker finanziario e nel tempo libero scriveva versi nonsense per gli amici. Non ha mai pubblicato i suoi scritti, era come se vivesse una doppia vita. Bleezer’s Ice Cream è stata scritta da un poeta contemporaneo negli anni 80 (Jack Prelutsky) ma musicalmente ho voluto ambientarla negli anni 50. Quando poi l’ho incontrato ho scoperto che all’inizio degli anni 60 era un musicista folk del Greenwich Village, era amico di Bob Dylan ed era piacevolmente sorpreso dalla mia versione del suo testo, ha affermato che non l’aveva mai immaginato in quel modo».

La cantastorie
Leave Your Sleep è un viaggio attraverso mondi ed epoche diverse, dove ogni brano è un capitolo a sé e racconta una storia appassionata. Traccia dopo traccia si è trasportati negli angoli remoti della memoria dove riposano i ricordi dell’infanzia, tra giganti addormentati, damigelle solitarie e innamorate, cavallerizze in rosa, orsi danzanti, gelati dai mille gusti, giovani eroine e principesse orientali. La fantasia corre, grazie al potere evocativo della musica e all’espressività della voce di Merchant, che fa da guida in questa avventura come un’incantevole cantastorie. Le immagini scorrono davanti agli occhi come in un film d’altri tempi, a tratti quasi epico. Merito anche della produzione (Andres Levin, già con Caetano Veloso, Arto Lindsay, Carlinhos Brown), che permette di cogliere ogni sfumatura sonora, da quelle più delicate a quelle più ricche e corpose, come nelle parti orchestrali.
«Gli arrangiamenti sono molto pittorici e illustrativi dello spirito dei poemi. Ho assunto un tecnico del suono, Nick Collage, che di professione incide alcune delle più importanti colonne sonore e che ha lavorato con George Martin. È stato impressionante sentire i miei adattamenti, scritti al piano o al computer con Garage Band (il programma di Apple che permette di avere a disposizione i suoni di una vastissima gamma di strumenti, nda), nati in maniera molto semplice, risuonati da alcuni dei migliori musicisti al mondo, come i membri della New York Philharmonic Orchestra. Oggigiorno abbiamo tutta la tecnologia a nostra disposizione, ma per me fare musica è una connessione spirituale tra persone che si incontrano e suonano assieme. È una cosa magica, che non succede necessariamente quando programmi una macchina per suonare al posto tuo. Per centinaia di anni ci sono state raccontate delle storie, e la gente vuole ancora sentirle attraverso la voce di altre persone». E Natalie Merchant, cantastorie del mondo moderno ma dallo spirito antico, è riuscita nella triplice missione di portare la poesia all’attenzione del pubblico attraverso un disco pop, partendo da un tema estremamente intimo e personale, come il rapporto con la bambina, e arrivando a una profonda riflessione sulla nostra società e sul nostro modo di vivere. «Vedendo la nascita e la crescita del linguaggio in mia figlia, ho riscoperto la lingua inglese e la forza della poesia. Nonostante abbia scritto poesie per trent’anni, solo ora divento orgogliosa quando mi chiamano la Emily Dickinson del pop. In fondo sono una romantica, e ogni movimento romantico è stato una risposta alla disumanizzazione di una certa epoca. Durante la rivoluzione industriale gli artisti si sono ribellati e si sono trasferiti nelle campagne per riconnettersi con la natura e la propria umanità. Io mi sento allo stesso modo in questo periodo: con la rivoluzione tecnologica la velocità della vita e della distruzione è travolgente. Credo che privarsi di esperienze che l’uomo ha fatto per centinaia di anni, come leggere un libro o osservare la natura, sia come autoingannarsi, soprattutto nei confronti dei figli. Trascinarli sempre di corsa da una parte all’altra o chiuderli in una stanza con i videogiochi, lo considero un abuso al loro spirito creativo, al loro corpo fisico e al loro benessere spirituale. Forse faccio parte di questo one woman movement per cercare di risanare l’umanità, nel riconoscere che condividiamo moltissimo con persone, come questi poeti, che sono morte da 150 anni. Essere moderni non significa dimenticare di essere umani. C’è stato un momento da brivido durante le mie ricerche, quando ho trovato una lettera di Gerard Manley Hopkins (poeta inglese ottocentesco, ndr) nella quale diceva che Spring & Fall merita una semplice melodia. Voleva che qualcuno scrivesse della musica per questi versi e nessuno l’aveva mai fatto finora. Credo che in qualche modo il suo pensiero mi abbia raggiunto dall’aldilà. Con questo album spero che le persone vorranno conoscere meglio la sua poesia perché la trovo una delle più profonde tra quelle che parlano di vita e di morte: la prima volta che la lessi mi misi a piangere senza sapere bene perché. È incredibile come questo prete gesuita vissuto in un altro secolo sia riuscito a raggiungermi dalla tomba e a darmi un modo per parlare della morte con mia figlia. Anche se la lingua usata è oscura, lei a 6 anni ha capito di che cosa parla. Tutti questi poeti sono scomparsi giovani, penso alla forza delle loro parole e immagino quanta saggezza che avrebbero potuto avere se fossero vissuti altri 20 o 30 anni».

La golden girl
Viene da pensare che non ci sia migliore erede, a portare avanti l’araldo della poesia nei nostri tempi, ideale portavoce di antichi valori, trasmessi attraverso il linguaggio della musica. La poesia così non è solo roccaforte dei più colti ma attraverso il pop può arrivare a tutti noi, che più o meno inconsapevolmente racchiudiamo e condividiamo un sapere comune, ancestrale, quello della comunicazione e del racconto di temi a noi cari.
Non sembra un caso, quindi, che nel maggio 2009 la New Palz University di New York abbia conferito a Natalie Merchant una laurea ad honorem in musica, per essere stata «portavoce di problemi dell’infanzia, le arti e l’ambiente. Incarna il contributo vitale che le arti portano alla qualità della nostra vita». Nel corso degli anni, infatti, Merchant si è dedicata a supportare un’ampia serie di organizzazioni non-profit, sensibilizzando l’attenzione pubblica su molteplici temi, dalla violenza sulle donne, ai diritti degli animali, all’ambientalismo. Recentemente è stata nominata dal governatore di New York membro del prestigioso Consiglio delle Arti per un servizio di cinque anni. La profondità dei temi trattati nelle sue canzoni, la serietà e la coerenza del suo approccio alla scrittura sono stati il filo conduttore di tutta la sua carriera. Anche nei 10,000 Maniacs, il suo primo gruppo, con il loro pop ritmato spennellato di new wave, i testi non erano mai banali. Si pensi ad esempio a brani come Dust Bowl, Eat For Two o Don’t Talk. Parole che lasciano un segno, soprattutto se cantate da una giovane fanciulla minuta, dall’aspetto mite e tranquillo, in grado di stupire tutti con i suoi balletti selvaggi sul palco. Persino Michael Stipe dei R.E.M., dopo aver sentito parlare di questa ragazza che ballava come un derviscio rotante aveva deciso di incontrarla. «Natalie è stata il motivo per cui il mio lavoro è diventato politicizzato alla fine degli anni 80», affermava nel 1998 in un’intervista all’Independent.
È il 1982, la diciannovenne Natalie ha già pubblicato il primo disco (Human Conflict No. 5). Dodici anni e sette album più tardi (dopo la pubblicazione del live Mtv Unplugged), lascerà gli storici compagni di viaggio per intraprendere la propria strada. Tigerlily, il debutto solista del 1995, è onesto e diretto anche se si sente ancora l’affinità con lo stile dei Maniacs, marcando però il primo passo di un percorso autonomo e meno pop. Grazie a hit come Carnival, Jealousy e Wonder, scala le classifiche e vende oltre 4 milioni di copie. Con il capitolo successivo, la Merchant afferma la volontà di allontanarsi dalla strada intrapresa con Tigerlily, per concentrarsi maggiormente sui testi e sui brani in modo personale. Ophelia (1998) è una sorta di concept intimista, che ritrae diversi aspetti della figura femminile: nella title track è descritta come novizia carmelitana, suffragetta, donna cannone, semidea, cortigiana. Le sonorità sono più sofisticate e massicce, con un importante uso di arrangiamenti orchestrali. In Thick As Thieves è ospite la chitarra di Daniel Lanois, mentre in coda Effigy cattura con un canto tibetano. My Skin, una struggente e poetica ballata al pianoforte, è ritenuta da molti la perla del disco e una delle sue migliori composizioni. Si cambia ancora registro con When They Ring The Golden Bells, cover di un inno del 1880 dove Merchant duetta con Karen Peris degli Innocence Mission. Il disco è accolto tiepidamente dalla critica, che la accusa di aver abbandonato i toni più orecchiabili del precedente lavoro per abbracciare un’eccessiva serietà, nonostante la presenza di brani musicalmente leggeri e radiofonici come Kind And Generous o Life Is Sweet. Lei non si cura delle critiche e mantiene le sua posizione, forte anche del sostegno dei fan che apprezzano e amano la Merchant più “impegnata” e “seria”. È con Motherland del 2001 tuttavia che si ha il vero salto di qualità. Compatto, vario ed elegante, in ogni canzone esplora diversi mondi musicali, segnale di una costante curiosità trasversale: dall’arabeggiante traccia di apertura This House Is On Fire al folk di Motherland. In Saint Judas, assieme a Mavis Staples, afferma il suo motto contro la violenza cantando con grinta: «Non c’è male più grande dell’oscurità nel tuo cuore». Just Can’t Last, il primo singolo estratto, ricorda le prime sonorità ed è uno dei brani musicalmente più allegri in scaletta, assieme a Tell Yourself (nonostante quest’ultima affronti il tema dell’anoressia); in Golden Boy, invece, malinconica e oscura, la voce raggiunge uno dei picchi espressivi più alti. I testi sono proiettati verso una maggiore consapevolezza sociale: il disco esce a novembre, poco dopo l’attentato dell’11 settembre, assumendo un significato ancora più profondo e, se vogliamo, spirituale. È l’osservazione di un’America che sta perdendo l’orientamento, che ha bisogno di riflettere su se stessa e di riscoprire qualcosa in cui credere: l’occhio con cui la Merchant guarda la società è sì critico e analitico, ma mai cinico né troppo pessimista. Le sua è una considerazione pacata, necessaria e non rassegnata, ma propositiva e carica di speranza. Ogni brano è pregno di significato e musicalmente accattivante: pubblico e critica concordano nel definirlo la sua prova più completa.
Lei non si ferma. Concluso il suo rapporto con la Elektra, etichetta che l’ha seguita finora, Natalie fonda la propria casa discografica, Myth America, con la quale nel 2003 pubblica un album indipendente, The House Carpenter’s Daughter. Qui l’attenzione è tutta focalizzata al passato e alla riscoperta delle proprie radici musicali: è una raccolta di brani tradizionali, incluse quattro cover, tra le quali spiccano l’inno dei minatori Which Side Are You On di Florence Reece, Crazy Man Michael dei Fairport Convention e Bury Me Under The Weeping Willow della Carter Family. Non a caso prodotto da T-Bone Burnett, è frutto di un lungo lavoro di ricerca tra vecchi archivi e i nastri che l’etnomusicologo Alan Lomax ha raccolto nei campi americani. Ecco quindi comparire banjo, mandolino, steel guitar e violino, per un’esplorazione attraverso sonorità bluegrass, country e cajun, nell’intento di mantenere lo spirito di canti che «ci insegnano ciò che sappiamo già in fondo ai nostri cuori», secondo le sue stesse parole. «Apprezzo davvero quando le canzoni sono dei documenti sociali».Oggi, con 14 milioni di copie vendute alle spalle e con coerenza e integrità solide come il marmo, la Merchant si prende la libertà di sperimentare e continuare per la sua strada, di esplorare i sentimenti umani, di raccogliere le tradizioni letterarie e culturali, cantandoci i mali della società e le gioie che ci riserva la vita. E, ne siamo sicuri, ha ancora molto da raccontare.

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