12/02/2013

Nei giorni di Sanremo, ripensando a Bill Evans…

Mentre impazza il totovincitore al festival, esce un libro dedicato al pianoforte

Come difendersi in questi giorni dall’invasione di Sanremo? E in che modo fare un po’ di ecologia sonora per non essere assaliti da tanto rumore mediatico? Certo, quest’anno il Festival dedicato alla canzone italiana offre qualche scampolo di bellezza anche a chi ama il jazz (le presenze del crooner italo-americano Peter Cincotti e del nostrano Raphael Gualazzi) e la world music (l’apparizione di Caetano Veloso che venerdì esegue un brano del suo nuovo album Abracaco, capitolo finale della sua trilogia post rock iniziata con e proseguita con Zii e zie). Ma non basta questo a farci digerire una settimana troppo nazional-popolare, sia pure nelle versione “liftata” e politicamente corretta di Fabio Fazio. E allora, che fare? Il nostro modesto suggerimento è di darsi alla lettura. Magari a una lettura evocativa, che sa di buona musica e ci fa sognare sogni migliori.

Un bel libro, fresco di stampa per l’editore torinese Edt, ci soccorre. S’intitola Storia naturale del pianoforte ed è opera di Stuart Isacoff, brillante giornalista e divulgatore americano, fondatore e direttore della rivista Piano Today nonché saggista e collaboratore di importanti testate, come il New York Times. Ebbene, questo suo prezioso volume esplora uno strumento cruciale nell’evoluzione musicale del mondo occidentale e ci permette accostamenti insoliti e arditi, che vanno da Mozart all’improvvisazione jazz, da Arthur Rubinstein a Thelonious Monk. Perché, spiega, «il pianoforte non è uno strumento e basta: è anche uno scrigno dei miracoli ricolmo di speranze, desideri e disinganni non meno che di corde, martelletti e feltri» E, aggiunge, «è mutevole come la condizione umana, di cui è sempre stato un simbolo».

Tra le testimonianze più toccanti del libro segnaliamo quella che il pianista statunitense Bill Charlap dedica al maestro del piano jazz modernista, il grande (e mai abbastanza lodato) Bill Evans. «La sua musica», scrive, «era spirituale e commovente, ma era in tutto e per tutto l’espressione di un suo mondo privato. Evans era interessato ad abbattere le barriere della coscienza attraverso la musica. E l’alchimia che creava risiedeva anche in questo». Musica, silenzio, pause, riflessioni: l’arte di Evans, che chino sulla tastiera sembrava voler entrare nello strumento, era fatta di questi pochi e apparentemente semplici ingredienti…

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