Dreaming From The Heart Of New York (Twenty Twenty Records) è il sesto album in studio di Clarence Bucaro (qui sopra in uno scatto di Todd Heisler), giovane songwriter originario di Cleveland, Ohio, che dopo lungo peregrinare ha messo radici nella vivace comunità umana e artistica di Brooklyn, NY. La sua voce venata di soul e il suo cantautorato essenziale ed elegante hanno suscitato fin da subito l’attenzione della critica, che per descrivere Bucaro ha chiamato in causa termini di paragone piuttosto impegnativi quali Van Morrison e Jackson Browne.
Il nuovo lavoro lo vede riprendere la collaborazione con il vecchio amico e mentore Anders Osborne, songwriter e produttore di origine svedese trapiantato a New Orleans, Louisiana, titolare di una dozzina di dischi e co-autore di due brani dell’acclamato Slow Down di Keb’ Mo’ aggiudicatosi un Grammy nel 1999.
In questa intervista Clarence racconta il nuovo album e la nuova vita a Brooklyn, l’incontro con il suo mentore e l’incoraggiamento di Aaron Neville, la passione per Neil Young e per i vecchi vinili…
Clarence, com’è stato tornare a collaborare con Anders Osborne dopo aver lavorato con Chocolate Genius e Hector Castillo per il precedente disco Walls Of The World?
«Anders è un caro amico e una grande fonte d’ispirazione. Mi conosce a fondo, sa bene quali sono i miei pregi e i miei punti deboli. Da una parte, riprendere a collaborare con lui è stato come tornare a casa; dall’altra è stata anche una bella sfida… avendo molta familiarità con il mio songwriting, mi ha spinto a esplorare nuovi territori. L’obiettivo era eliminare il superfluo… Anders sapeva esattamente cosa voleva da me, e anche come ottenerlo».
Come vi siete conosciuti tu e Osborne? È vero che hai lasciato la tua città, Cleveland, per seguirlo a New Orleans?
«La prima volta che l’ho incontrato avevo 18 anni. Avevo appena letto I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac e stavo iniziando a riflettere in modo più profondo sul mondo, sulla vita e sul loro significato. Mio fratello, che era un fan Anders, mi ha fatto ascoltare un suo disco e quando ho scoperto che avrebbe suonato a Chicago ho deciso di farmi un viaggetto. Così ho preso un Greyhound bus da solo e una volta giunto a destinazione ho vagato finché ho trovato il luogo del concerto e sono riuscito a scambiare due chiacchiere con lui. Anni dopo, quando ero in procinto di registrare il mio album di debutto Sweet Corn (2001) ho spedito un nastro al suo manager chiedendo se volesse produrlo. Non mi aspettavo una risposta, invece è arrivata. Anders era entusiasta e voleva produrre il mio disco. Poi nel 2004 mi sono trovato a un bivio: la mia etichetta mi aveva mollato, avevo avuto delle brutte esperienze in tour, insomma ero frustrato e iniziavo scoraggiarmi… Anders mi ha chiamato e mi ha spinto ad andare avanti, a riprendere in mano la mia vita. Mi ha suggerito di andare a vivere da lui a New Orleans per scavare un po’ più a fondo dentro di me, assorbire la cultura del luogo e affinare la mia arte. Da allora abbiamo continuato a collaborare e siamo diventati grandi amici».
Con che musica sei cresciuto a Cleveland, Ohio?
«Mio padre era un dj e portava a casa un sacco di dischi. La musica ha sempre fatto parte della mia vita, in casa si ascoltava country, gospel, rhythm & blues… Come ogni ragazzino, ascoltavo un po’ di tutto, dai Guns N’ Roses ai Boyz II Men, passando per i Bad Religion e i Sublime. È stato solo verso la fine degli anni 90 che ho scoperto la musica che mi ha ispirato a diventare un songwriter e che continuo ad ascoltare tutt’oggi: parlo di Bob Dylan, Hank Williams, Townes Van Zandt, Curtis Mayfield, Gil Scott Heron e altri maestri…».
Ti ricordi il momento in cui hai capito di voler diventare un songwriter?
«Ho sempre amato sia la musica che la scrittura, e per quel che ricordo ho iniziato a mescolare suoni e parole fin da bambino. Però è stato nel 2001, quando ho ottenuto il primo contratto discografico, che ho capito di voler dedicare la mia vita al songwriting. A quei tempi ero al college, iniziavo a muovere i miei primi passi nel music business e cercavo di capirne i meccanismi. Quando ho iniziato a ricevere i primi segnali di interesse mi sono buttato».
Come descriveresti in poche parole Dreaming From The Heart Of New York?
«È un disco intimo, che parla di relazioni, riflessioni e nostalgia».
Guardando la track list, il primo titolo che mi è saltato all’occhio è stato Curtis Mayfield. Mi racconti qualcosa di quella canzone e dell’influenza che ha avuto Mayfield sulla tua musica?
«È il primo pezzo che ho scritto per questo album. Racconta di quando ho lasciato New Orleans per trasferirmi a Los Angeles. Nel periodo in cui l’ho composto vivevo già a Brooklyn: avevo messo in piedi uno studio di registrazione che non poteva essere più piccolo e più spoglio… mi ha fatto tornare alla mente la stanza in cui mi ero sistemato al mio arrivo a L.A. I ricordi si sono trasformati in versi e nel giro di pochi minuti è nata la canzone. Ripensavo a quella sensazione… stare seduto da solo in una stanza completamente spoglia nel cuore di una città sconosciuta. Sentivo la mancanza delle persone che avevo lasciato a New Orleans e ascoltavo in continuazione There’s No Place Like America di Curtis Mayfield. Quel disco, e in generale tutta la musica di Curtis, ha influenzato profondamente il materiale che ho registrato in quel periodo… basta ascoltare il mio album New Orleans (2009) per accorgersene. Ogni volta che riascolto quel disco riaffiorano i ricordi e le sensazioni di quella fase della mia vita a Los Angeles, in particolare di quando sono arrivato in città nell’inverno del 2004».
Nella title track invece canti di un altro trasferimento, questa volta a Brooklyn, dove vivi oggi e dove stai crescendo i tuoi figli. In questo momento Brooklyn ospita una scena musicale in grande fermento e brulica di artisti. Sembra il posto ideale per un songwriter…
«Quando mi sono trasferito non avevo la minima intenzione di mettere radici e formare una famiglia… è semplicemente successo. Detto questo, New York è un posto fantastico per crescere i propri figli… è un meraviglioso crocevia di umanità e culture diverse, è incredibilmente ricca di stimoli e opportunità. Inoltre a Brooklyn c’è una crescente comunità di neo-genitori, ma anche di artisti, il che è perfetto per un neo-papà songwriter. Dreaming From The Heart Of New York rievoca tutto ciò che è successo dal mio solitario arrivo in città a quando, anni dopo, mi sono ritrovato a crescere i miei due bimbi con il Ponte di Brooklyn come parco giochi».
New Sky è caratterizzata da sonorità che evocano luoghi esotici. Com’è nata quella canzone?
«Mentre scrivevo i brani per questo nuovo album, Anders mi ha spinto ad allargare i miei orizzonti musicali e letterari. Ho scritto New Sky per mia moglie, ripensando alla nostra prima estate insieme e alla nostra luna di miele in Marocco. Mentre la componevo, nella mia testa riaffioravano vividi tutti i colori e le immagini di Marrakesh… mi è venuto naturale dare un mood esotico alla melodia e all’arrangiamento».
Condividiamo la stessa passione per la musica di Neil Young. Mi è piaciuta la tua rilettura di Out On The Weekend. C’è un album del canadese che ti ha influenzato in modo particolare?
«Amo tutti i suoi dischi… On The Beach, Zuma, ma alla fine dei conti se dovessi sceglierne uno in particolare andrei sui classici, in particolare After The Gold Rush».
Hai diviso il palco con molti grandi artisti, da Aaron Neville a Chrissie Hynde And The Pretenders passando per i Blind Boys Of Alabama. Cosa ti hanno lasciato queste esperienze?
«Chiunque divida il paco con me diventa in qualche modo una fonte d’ispirazione. Giusto la scorsa settimana ero in tour con Martha Wainwright e Griffin House ed è stata un’esperienza incredibilmente stimolante. Martha usa la voce in modo straordinario… è un vero e proprio strumento, capace di creare un’atmosfera drammatica, teatrale; mentre Griffin riesce a infondere una tenerezza unica alle proprie canzoni. Aaron Neville, invece, non è stato solo una fonte d’ispirazione… mi ha incoraggiato, e questo non lo dimenticherò mai. Nel 2003 sono stato in tour per due settimane con lui, i Blind Boys Of Alabama e Mavis Staples. Non è stata un’esperienza facile… col senno di poi non credo fossi pronto per un palco del genere, ma ogni sera, anche quando la risposta del pubblico era tutt’altro che incoraggiante, Aaron era là a bordo palco ad applaudirmi e alla fine mi diceva: “Hai qualcosa di molto speciale ragazzo, continua per la tua strada”».
Sei stato in tour anche con Richard Thompson…
«Sì, l’anno scorso, per un breve periodo, ed è stata un’esperienza pazzesca. Quando sono tornato a casa avevo voglia di buttare via tutte le mie chitarre. Richard ha uno stile unico e le sue canzoni contengono l’essenza della vita stessa. In particolare adoro Persuasion e Beeswing».
Il mese scorso Matthew Houck (Phosphorescent) mi ha detto che per lui stare in tour per lunghi periodi è frustrante, perché non riesce a concentrarsi sul songwriting. Tu che rapporto hai con la vita on the road?
«Stare in tour comporta un certo stato mentale, proprio come il songwriting. È vero, mentre sei in giro è difficile trovare il tempo e la concentrazione necessari per comporre; però amo viaggiare… è una fonte inesauribile di esperienze e idee».
Che musica ascolti in questo periodo?
«I miei gusti musicali sono molto old school… Mia moglie mi rimprovera, dice che dovrei ascoltare anche la musica contemporanea. Che posso farci, adoro il jazz, i vecchi vinili… quella musica mi parla».
Quali dischi suggeriresti ai lettori di jamonline?
«Mentre rispondo alle tue domande sto ascoltando Alive On Arrival di Steve Forbert. È un d isco incredibile, pieno di energia. E poi due dei miei classici: Common One di Van Morrison e Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim, che cito nel mio brano Jagged Love».