Niente specchi in camerino: i Soundgarden secondo Valeria Sgarella
Tsunami pubblica il nuovo libro della prestigiosa studiosa della band di Seattle
Un mito o null’altro che una rock band? Qualcosa di sacro e intoccabile o un semplice gruppo apparso al posto giusto e nel momento storico giusto? Musicisti al servizio del carisma di Chris Cornell o un insieme paritario di talenti? Non è semplice scrivere un libro sui Soundgarden, soprattutto quando il proprio obiettivo è raccontare la vicenda nel modo più libero, sereno e lineare – per quanto la loro storia lineare non lo sia stata… – possibile. Valeria Sgarella non è nuova a narrazioni legate al fenomeno grunge, anzi è una delle figure più autorevoli in materia grazie ai lavori su Andy Wood e i Mother Love Bone, sul fermento della Sub Pop e sulla musica a Seattle. Tsunami ha pubblicato Niente specchi in camerino. La storia dei Soundgarden, che si candida a diventare un testo di riferimento, a partire dall’approccio tanto severo quanto non convenzionale. Ne parliamo con l’autrice.
Scrivere un libro sui Soundgarden non è cosa da poco, soprattutto per un’autrice come te, che ha speso tanto tempo nello studio sulla musica di e a Seattle. Quale taglio hai dato alla storia della celebre band?
Un taglio molto rischioso credo, perché mi sono distaccata da una semplice ricostruzione cronologica. Ho voluto intrecciare il percorso dei Soundgarden con quello di altre band e altri accadimenti che hanno plasmato la scena di Seattle, con il rischio di risultare dispersiva. Dal punto di vista narrativo, è molto difficile tenere la barra dritta sul soggetto principale concedendosi delle divagazioni qua e là, senza dare l’impressione di andare fuori tema. Ma se c’è una cosa di cui tener conto quando si parla dei Soundgarden, è che il loro percorso è stato funzionale a quello di tutte le altre band di Seattle. L’interesse su di loro da parte delle major si accende nel 1987; capisci che siamo ben agli albori della scena. E per giunta si trattava di una scena molto ristretta, in cui tutti suonavano con tutti e frequentavano gli stessi luoghi. Impossibile, quindi, evitare una visione d’insieme. E poi ho voluto dare un taglio nuovo anche all’immagine della band. Ho voluto farla emergere come… liberata da quell’aura di severità e intoccabilità che li ha sempre circondati (io ho approcciato il libro con un timore reverenziale quasi paralizzante). Ho voluto rendere giustizia anche al loro lato ironico, divertente, grottesco; aspetto decisamente preponderante nei primi cinque, sei anni della loro attività.
Oltre trent’anni dopo l’esplosione del grunge forse ha poco senso interrogarsi sulle paternità o sui primati, però il rapporto tra Soundgarden e Seattle fu davvero stretto: quanto?
Il concetto fondante del libro è: i Soundgarden sono una band di Seattle e non sarebbero potuti esistere in un’altra città. Anche se è evidente l’influenza dell’asse Chicago-Seattle (sia Thayil che il primo bassista, Hiro Yamamoto, erano originari di Park Forest, sobborgo di Chicago, così come anche Bruce Pavitt, fondatore della Sub Pop). Ma la loro esistenza artistica ha come base Seattle, a partire dal nome. ‘A Sound-Garden’ è il nome dell’opera da cui hanno tratto il nome, come si sa, e si trova all’interno di uno dei parchi più suggestivi della città (il Warren G. Magnuson Park). E poi, i locali e gli spazi in cui hanno mosso i primi passi, la cerchia di persone che avevano intorno (molte delle quali, donne) che hanno plasmato gran parte della loro carriera, tutti quanti sono frutto del fermento che permeava la città verso la metà/fine degli anni Ottanta. E ti dirò che anche in un secondo tempo, dopo il grande successo di Superunknown, e dopo la reunion del 2010, Seattle è stata sempre, per la band, la casa in cui tornare.
Ogni gruppo proveniente da Seattle o che ha gravitato in quell’area ha avuto una sua personalità, dai Mudhoney ai Tad, passando per gli Screaming Trees. Se volessimo provare a sintetizzare, quali sono state le caratteristiche dell’identità sonora dei Soundgarden?
Molto difficile rispondere a questa domanda. Io credo che i Soundgarden non abbiano avuto una sola identità sonora. Innanzitutto è praticamente impossibile definirli dal punto di vista del genere. Loro stessi hanno scherzato spesso su questo aspetto. Sono stati stoner, sono stati psych-rock, ma anche post punk, e pure un po’ funk. Soprattutto, hanno speso anni a dissacrare il genere in cui tutti cercavano di incanalarli: il metal. Questa tendenza è piuttosto evidente almeno fino a Louder Than Love, il loro esordio con una (quasi) major. Inizialmente erano anche meno attenti alla struttura-canzone, poi Cornell ha sentito l’esigenza di modificare quest’approccio, diciamo da Superunknown in poi. Ma la compiacenza del mercato non è mai stata un problema: Badmotorfinger è un disco praticamente fatto di singoli e potenziali singoli, ma non perché i Soundgarden si fossero improvvisamente adattati al mercato discografico – e a MTV; al contrario, era il mercato ad aver inseguito loro. Raramente, fino a quel momento, un loro pezzo aveva avuto più di due accordi, il che già la diceva lunga sul loro desiderio di airplay radiofonico. In generale, le caratteristiche distintive sono senz’altro i tempi irregolari di batteria, le accordature in Drop D e i mostruosi reef di chitarra che abbracciano le varie scuole formative di Kim Thayil: Stooges, New York Dolls, MC5, Big Black, Bauhaus, Black Sabbath, Aerosmith e Kiss. Per sua stessa ammissione, i suoi padri putativi sono Johnny Thunders e Joe Perry, ma pure George Harrison. Cornell è cresciuto adorando i Beatles, ma era anche un grande appassionato di soul e r&b; amava Sly and The Family Stone e Aretha Franklin ma anche il Bowie di Ziggy Stardust e la sua conoscenza della musica era sterminata. Cameron è di estrazione soul/jazz così come lo è, in parte Shepherd. Per quanto mi riguarda, l’aspetto più affascinante di questa band è proprio la perfetta sintesi delle diverse estrazioni musicali.
Per questo lavoro ti sei avvicinata alle fonti, infatti hai dialogato con alcuni di loro. Nel parlare della loro creatura, Kim Thayil e Matt Cameron sanno di trovarsi di fronte a un mito, a qualcosa di sacrale, o per loro è stata solo musica?
Da persone coi piedi ben piantati a terra, sono ben lontani dall’elevarsi a mito. Non l’hanno mai fatto. Anzi, anche se a tutti gli effetti sono stati una delle “big four” del grunge, non hanno mai dato molta importanza a quell’aspetto. Un po’ come i Nirvana, non si sentivano comodi nell’essere dei modelli di riferimento. Invece si può per certi aspetti parlare di “sacralità”. Ora che la band non c’è più, specialmente per Kim Thayil, la sacralità consiste nella conservazione della memoria; in tutti i sensi. Lui è come il custode di tutto quello che compone la legacy del gruppo. La sua capacità di ricordare e ricostruire le vicende della band è impressionante. Se proprio devo essere onesta, la sensazione che è arrivata in modo più intenso da parte di entrambi, lui e Cameron, è un grande senso di perdita. Il rammarico di non essere più in una band in cui tutti e due volevano fortemente continuare a essere.
Non se ne è mai parlato tanto, o meglio non approfonditamente, ma un ruolo importante è quello di Susan Silver. Cosa ha rappresentato nelle dinamiche della band?
Susan Silver ha accettato di prendere in carico i Soundgarden quando era molto giovane, ma già molto esperta, in quanto aveva già lavorato come local promoter con molte realtà della scena, oltre a essere stata la manager degli U-Men. Parallelamente ai Soundgarden, ha gestito anche gli Alice in Chains, e, per un breve periodo, gli Screaming Trees – tutte band non facili, per i problemi di tossicodipendenza che tutti sappiamo. Quando è stato chiaro che fosse anche legata sentimentalmente a Cornell, non sono mancati i problemi e i chiacchiericci, e poi innegabilmente c’era anche un certo effetto This Is Spinal Tap. Ricordiamoci che anche quello era un ambiente musicale fatto prevalentemente di uomini, quindi puoi immaginare la difficoltà nell’arginare i discorsi sulla meritocrazia. Ma la mia impressione è che all’interno della band, questo legame sia stato vissuto molto meglio di quanto non lo fosse all’esterno. Susan ha sempre rappresentato l’interesse collettivo del gruppo, prendendosi letteralmente cura di tutti. Non solo: grazie alla sua rete di collaboratori, ha protetto la band anche dal punto di vista legale e amministrativo, almeno fino al suo scioglimento, nel 1997. Come abbia fatto a gestire le varie fasi della band, compresa l’ultima, in cui tutti, ma davvero tutti, avevano perso il senno, onestamente non me lo so spiegare. Per me rimane a tutt’oggi un caso da studiare.
Hai intervistato anche Michael Beinhorn, che fu il produttore di Superunknown, il disco dell’affermazione definitiva. Rispetto ai gruppi indipendenti che approdarono a una major e spopolarono in tutto il mondo, questo passaggio per i Soundgarden che caratteristiche ebbe?
Quando uscì Superunknown, che senz’altro, almeno a livello di vendite, è l’album della consacrazione, i Soundgarden avevano alle spalle quasi dieci anni di attività; avevano costruito la loro fanbase in modo molto minuzioso, evitando di darsi in pasto alla prima major che facesse loro qualche moina. Con la A&M avevano già pubblicato Louder Than Love e Badmotorfinger, quindi l’album della consacrazione non ha coinciso col passaggio alla major. Michael Beinhorn rappresenta una storia tutta a sé, nella platea dei produttori con cui i Soundgarden hanno lavorato. Non era un produttore imposto ma non era neanche una scelta scontata, visto che in lizza c’era anche Rick Rubin. Beinhorn fu scelto perché la band aveva il desiderio di lavorare con qualcuno che avesse una formazione non-metal. Beinhorn veniva dalla musica elettronica, ma era stato strumentale nella prima fase della carriera dei Red Hot Chili Peppers. Il lavoro con lui, per i Soundgarden, ebbe un doppio risultato: da un lato diede vita senz’atro all’album della svolta; dall’altro, però, rappresentò per la band un percorso da non ripetere. Beinhorn era abituato a comandare e aveva tutta una serie di requisiti tecnici che pretendeva fossero rispettati. Lui stesso mi ha raccontato di quanto fosse difficile per loro, soprattutto per Cornell, che aveva sempre le idee chiarissime, scontrarsi con qualcuno che le mettesse in dubbio, una volta tanto. È anche vero però che Beinhorn ha creato un legame speciale con Cornell, spingendolo a scrivere canzoni per sé, e non per il pubblico. Un pezzo colossale come Black Hole Sun nasce da quel processo.
Inevitabile concentrarsi su Chris. Voce, presenza, immagine, probabilmente uno degli ultimi frontman carismatici della storia del rock. secondo te si considerava uomo di gruppo, membro della band per intenderci, oppure come un Jim Morrison, un Peter Gabriel o un Michael Stipe era una figura a sé stante?
Io credo che Cornell non si sia mai dato davvero l’importanza del frontman. Certo, almeno per un certo periodo, la sua cifra stilistica consisteva nello strapparsi la maglia sul palco ed esibire il suo fisico statuario, emettendo vocalizzi quasi innaturali. Una figura mitologica, più che un frontman. Era senz’altro consapevole del suo carisma, ma non ho dubbi sul fatto che considerasse i Soundgarden una band, e non una one-man-band. Il fatto che lasciasse totale libertà artistica a tutti i compagni, accogliendo le loro proposte e lasciando loro spazio, è un’opinione condivisa anche oggi da chi è rimasto. Certo, il metodo è cambiato nel corso degli anni. Non dimentichiamo che inizialmente, pur se in un breve periodo, Cornell rivestiva il ruolo di batterista e vocalist. Quindi i Soundgarden non nascono propriamente con Cornell come leader. E poi non dimentichiamo neanche che ogni singolo membro del gruppo è un autore di spessore. Lo è Thayil, lo è Cameron, lo è Shepherd e lo fu Yamamoto. Tutti indistintamente hanno creato band parallele meravigliose, dagli Hater ai Wellweater Conspiracy.
Anche i Soundgarden hanno conosciuto l’esperienza dello scioglimento e dell’acclamato ritorno, ma con quali peculiarità?
Nella ricostruzione della storia della band, ho deciso di partire proprio dalla reunion del 2010 che, in perfetta armonia con il resto della loro carriera, è stata grottesca. La reunion è nata infatti da una circostanza casuale, e cioè da un tweet di Cornell che è stato mal interpretato (o meglio: ingigantito) da Rolling Stone, che dava già per assodato il loro ritorno, quando loro in realtà volevano solo riprendere il contatto con la fanbase, con il lancio di un nuovo sito e con la pubblicazione della raccolta Live On The I-5. L’idea di pubblicare un nuovo album sarebbe arrivata solo due anni dopo. Tra lo scioglimento e la loro ricostituzione sono passati tredici anni; un lasso di tempo in cui nella discografia è successo praticamente di tutto. Cornell, come sappiamo, ha costruito una solida, seppur altalenante, carriera solista e ha fatto parte di band che non erano la sua (vedi: Audioslave). Dunque, tornare insieme con quel nome anche un po’ ingombrante, quando la bolla del grunge era già abbondantemente esplosa, è stato rischioso. Ma tutto sommato l’operazione è riuscita. Salvo poi finire per sempre in una stanza d’albergo di Detroit, una sera del 2017.
La morte di Chris ha consegnato i Soundgarden alla mitologia rock, accrescendo a dismisura il fascino esercitato dal gruppo. Qual è stata la loro eredità, sia in termini prettamente musicali che come lascito nella cultura popolare degli ultimi quarant’anni?
La morte di Cornell ha replicato il copione scritto per altre band di Seattle che hanno perso prematuramente la loro voce e il loro leader: stesso copione degli Alice in Chains (che pure si sono riformati), dei Nirvana e, prima ancora, dei Mother Love Bone. Un’epica ricorrente e molto crudele, come sappiamo, nella saga grunge. Purtroppo l’eredità dei Soundgarden è condizionata da una serie di battaglie legali relative al materiale che Cornell stava incidendo prima di morire: canzoni che dovevano confluire in un nuovo album della band. Purtroppo quel materiale è a tutt’oggi bloccato. Questo, in aggiunta alla fine di Cornell, con cui ancora oggi si fatica a fare i conti, è l’aspetto più triste della vicenda. Perché, ancora una volta, l’eredità di un artista rimane ostaggio degli affetti più cari in vita. Ho poche certezze, anche dopo aver messo la parola “fine” a questo libro. Ma una ce l’ho: Cornell, sicuramente, non avrebbe voluto questo.