Nostalgia, nostalgia canaglia… Ma che colpa abbiamo noi se negli anni Settanta è successo di tutto e di più? E se, ormai ciclicamente, le mode si ripetono (o rinascono) e torna prepotentemente in auge un certo periodo? Lo si è visto in ambito folk-rock, con tanti giovani gruppi – americani e non solo – che riprendono la musica dei loro padri. Ed è così anche nel jazz, dove spesso si tirano fuori dai cassetti dischi a torto dimenticati. Di recente anche l’Ecm – l’etichetta di Monaco di Baviera guidata dal guru Manfred Eicher – apre i suoi archivi, pubblicando due gioielli. Il primo è Dansere, prezioso cofanetto dell’ascetico sassofonista norvegese Jan Garbarek con tre capolavori sgranati nella prima metà della decade in esame. Il secondo, datato 1976, è la classica una gemma oscura. Stiamo parlando di Hymns Spheres, un lavoro considerato “minore” nell’opus di Keith Jarrett, un doppio album che per la prima volta oggi vede la luce in versione integrale su cd.
Andiamo per ordine. Il box garbarekiano contiene Sart (1971), Witchi-Tai-To (1973) e Dansere (1975), un tris di lavori in cui il leader è coadiuvato dall’eccellente pianista svedese Bobo Stenson. Si tratta di pietre miliari del jazz nordico (ed europeo, in generale). Più sperimentale il primo, dove è in magnifica evidenza la chitarra boreale di Terje Rypdal. Più passionale e legato al post free e all’improvvisazione modale il secondo, dove si alternano cover bellissime di Don Cherry (Desireless) e persino brani militanti (Hasta Siempre di Carlos Puebla). Più connesso con il repertorio popolare scandinavo il terzo, che ci presenta un quartetto impeccabile e splendidamente coadiuvato dalla ritmica Palle Danielsson (contrabbasso) e Jon Christensen (batteria). Grande gruppo.
Torniamo a Jarrett. Nella sua sterminata discografia Hymns Spheres rappresenta un pezzo unico. Il prodigioso pianista si mette infatti dietro l’organo barocco di un’abbazia benedettina tedesca e improvvisa, esplorando le infinite possibilità timbriche di questo eccezionale strumento. Accordi pieni, lunghissimi bordoni, passaggi rarefatti e due inni mistico-liturgici in testa e in coda. All’epoca, l’album – bollato come “non jazz” in quanto mancava di swing – fu un fallimento. Riascoltato oggi integralmente (la prima versione su cd conteneva solo alcuni movimenti) è un disco di un’audacia e di una potenza non comuni. Certo, ci vuole orecchio per mettersi all’ascolto nel modo giusto. E molta pazienza per immergersi nell’atmosfera rituale. Già, ma eravamo negli anni Settanta. Appunto…
