It’s nu metal, pal!
Regola numero uno: non siate così provinciali da dire “new metal”. Il suo vero nome, vi dirà qualsiasi fan incallito dell’hard rock in pantaloni oversize, è “nu metal”: si pronuncia esattamente nello stesso modo – proprio qui sta il bello – ma è indiscutibilmente più cool. “Nu”, ovvero “nuovo”, nel suo spelling compresso e distorto dalla parlata slang delle suburbie americane: quella stessa parlata nata per strada tra i giovani neri, e dai giovani neri nobilitata a forma quasi letteraria nelle rime e nelle metriche del rap, della house, dell’hip-hop. Non so se avete presente il genere: bandana sul cranio, la maglia di Jordan quando giocava nei Chicago Bulls, i pantaloni di otto misure più grandi allacciati un pelo sopra il primo pelo pubico, il boxer stiloso in bella evidenza. La Nike d’ordinanza. Il cappellino NY. La catenazza d’oro al collo che nemmeno più i picciotti di Little Italy. L’identikit del rapper di successo è tutto qui: Dr. Dre? Ice Cube? Snoop Dogg? Jay-Z? Un epigono di Notorious Biaigì fuori tempo massimo? Il fantasma di Tupac Shakur? Macché. Fred Durst. Avete presente i Limp Bizkit?
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Un esperimento mentale
La novità è tutta qui. Si manifesta in tutta la sua sconvolgente attualità nel momento stesso in cui, a colpo d’occhio, non sapete più distinguere tra una rockstar heavy metal e il rapper più in voga del momento.
Facciamo un esperimento mentale: immaginate di essere un giornalista americano all’avanguardia, assolutamente open minded e senza pregiudizi né preconcetti di sorta verso niente o nessuno. E immaginate che sia il 1986: gli Slayer hanno appena fatto uscire Reign In Blood e i Metallica Master Of Puppets, disco destinato a diventare uno degli album heavy metal più famosi al mondo. Lo stereotipo del metallaro medio prevede un individuo dai capelli lunghi e tendenzialmente sporchi, canotta degli Iron Maiden non priva di qualche buco testimone di concerti particolarmente intensi, chiodo con toppe sulle maniche dei gruppi preferiti e jeans semi-elasticizzati attillatissimi. Ai polsi bracciali di cuoio borchiati, al collo qualche ciondolo a forma di teschio o di croce celtica. Ai piedi scarpe da basket un tempo bianche, ma che ora han preso l’indefinibile colore della consunzione.
Nonostante conosciate questo mondo alla perfezione, vi siete prefissi l’insano scopo di convincere Tom Araya e James Hetfield che, sì, i loro due gioiellini appena sbucati sul mercato non sono affatto male; ma perché non provare a inserire qualche base di tastiera per rendere più interessante il sound? In fondo è il 1986, tra new romantic e synth-pop la musica elettronica sta avendo un successone. Oppure perché non rappare in stile Run DMC o Afrika Bambaataa qualche verso di Angel Of Death, o di Leaper Messiah? Nei ghetti neri impazziscono per queste cose.
Non so James Hetfield, personaggio con una risoluta passione per la caccia grossa ma dall’aspetto tutto sommato tranquillo. Ma con Tom Araya (o con il suo collega Kerry King), corpulento cantante di origine cilena non esattamente noto per il suo umore docile e convinto sostenitore di Pinochet, è probabile che caschereste molto, molto male. Al punto che potreste essere il primo caso di giornalista severamente malmenato da una rockstar per aver espresso in maniera assolutamente urbana e discreta un timido parere.