18/05/2007

Ofra Haza

Kirya (East West, 1992)

“Shalom, nostra  principessa”. Salutata per l’ultima volta dalla nipote Doreen con queste parole, Ofra Haza è stata sepolta il 24 febbraio 2000 nel cimitero del quartiere  di Tel Aviv dov’era nata 41 anni prima. A darle l’estremo saluto  erano in migliaia: colleghi e semplici fan, personalità pubbliche e  gente comune toccata dalla sua voce. Prima della cerimonia l’allora  Primo Ministro Ehud Barak ha detto che “finché ci sarà un  ragazzo che ascolterà The Prayer o Am Yisrael Chai,  Ofra non sarà morta, sarà ancora tra noi”. Erano presenti anche  Shimon Peres, il Ministro della Cultura, il sindaco di Tel Aviv e  altre personalità politiche.

Tanto clamore non deve stupire. Ofra Haza era la  voce più amata dagli israeliani. Un’eroina nazionale. È stata la  prima cantante a portare la musica e la cultura israeliana fuori dal  Medioriente, nelle case degli occidentali. Per dirla con le parole di  Shimon Peres, “era latrice di speranza per la nazione e per il mondo”. I suoi dischi sono un ponte gettato tra Israele e l’Occidente  e Kirya, in particolare, è quello che meglio bilancia le due  componenti. Nominato a un Grammy Award come disco world music dell’anno, consolida la sua fama di “Madonna del deserto”. Due anni  dopo la pubblicazione del disco, Yitzhak Rabin verrà insignito del  Nobel per la Pace a Oslo. Il politico inviterà proprio Ofra ad  esibirsi nel corso della cerimonia.

È stato scritto che Ofra Haza ha costruito il suo successo su  radici solide. Nata nel 1959 nel quartiere povero di Hatikva, a Tel  Aviv, è figlia di genitori immigrati dallo Yemen, perseguitati dal  regime musulmano di quel Paese. Israele è la Terra Promessa e la  piccola Ofra ne sfrutta le possibilità artistiche entrando nel gruppo  teatrale di Hatikva dove conosce il suo futuro manager Bezalel Aloni.  Dopo i due anni di ferma obbligatoria nell’esercito, si impone nel  mercato israeliano come artista solista, prima di pubblicare a metà  anni Ottanta l’album Yemenite Songs, ispirato ai poemi  devozionali dello scrittore del XVII secolo Shalom Shabazi. L’album  del 1988 Shaday mischia sapori locali e ritmi dance  internazionali arrivando in classifica in Inghilterra e in Germania  (10 anni dopo la cantante avrà un’ulteriore impennata di  popolarità con la partecipazione alla colonna sonora del Principe  d’Egitto). Nonostante il clamore che la circonda, gli israeliani  la considerano “la nostra ragazza”, un’immigrata che ce l’ha  fatta e adesso è una stella.

Rispetto alla etno-techno di Shaday,  Kirya segna un salutare passo indietro verso la tradizione. Abbandonati gli ingombranti ritmi elettronici, ritrova le proprie  radici yemenite e incorpora elementi provenienti dal pop e dal rock  più sofisticato. Prodotto dal brillante Don Was con la stessa Haza e  Aloni, Kirya abbina riletture di brani tradizionali e canzoni  di recente scrittura ed è interpretato ora in lingua inglese, ora  ebraica, ora araba. Ad emergere è la voce carismatica della Haza,  impegnata in melismi appartenenti alle scale della musica araba, che  lei afferma di non avere studiato, ma di avere cominciato a riprodurre  istintivamente dopo l’ascolto di cantanti leggendarie come la  libanese Fairouz e l’egiziana Oum Kalthoum. Gli arrangiamenti  riflettono lo spirito eclettico dell’artista e abbinano  sintetizzatore e rababa (violino a due corde), chitarre e nail (un  flauto tipico del Medioriente diffuso anche nell’Africa musulmana),  sassofono e kanoon (l’arpa armena).

A narrare con voce profonda la storia di Daw Da  Hiya, un brano scritto con Bezalel Aloni, Don Was chiama Iggy Pop,  che molti scambiano per Lou Reed (ancora oggi alcune fonti solitamente  attendibili indicano il rocker newyorkese tra gli ospiti dell’album).  “Racconta una storia che nello Yemen conoscono tutti”, ha  detto la cantante. “Me la raccontavano i miei genitori, così mi  è rimasta impressa. È una storia che riguarda le donne e che,  purtroppo, si ripete invariata oggi come allora: una donna sposata  viene uccisa dal fratello, dal padre o da uno zio per essere andata  con un altro uomo”. Se Innocent è un “requiem per i  rifugiati” nel quale Ofra canta di orfani in fuga dalla guerra, l’iniziale  Kirya è dedicata a Gerusalemme. Kirya è infatti il soprannome  ebraico della città. È un’invocazione a una città “bella  come nessun altra” che però “uccide i proprio figli”,  come canta l’israeliana mentre sonorità elettriche ed acustiche si  fondono in modo particolarmente suggestivo. Kirya è uno dei  tre pezzi nati da arrangiamenti di brani tradizionali. Gli altri sono  il fascinoso Don’t Forsake Me, introdotta dall’ud di John  Belezikjian, e Horashoot, quest’ultimo basato su un’antica  canzone che descrive l’amore come “un ponte da attraversare  insieme”. Nelle mani di Ofra Haza diventa una metafora della  situazione mediorientale, dove “nessuno vuole attraversare il  ponte e il futuro assomiglia a una notte scura”. La voce di Ofra  è al centro di Barefoot, ballata vellutata impreziosita da  chitarra acustica e ud, contrabbasso e sassofono (David McMurray).

Da sempre sensibile alla causa della pace, Ofra  Haza difende il suo Paese spiegando che “i mass media lo  presentano in modo fazioso” e che in fondo “è uno dei pochi  al mondo così piccolo che sull’atlante non ce la fa nemmeno a  contenere il proprio nome”. Uno dei brani più pop dell’album  è Trains Of No Return, una preghiera introdotta dall’evocativo  violino di Harry Hyman Vento perché la cultura del conflitto e della  distruzione non prenda il sopravvento. Nel brano rivive il dramma  degli israeliani diventati bersagli degli Scud iracheni durante la  Guerra del Golfo. I “treni del non ritorno” sono i vagoni di  morte dove i nazisti stipavano gli ebrei ai tempi dell’Olocausto per  portarli nei campi di concentramento. “Ero a Los Angeles quando  il primo Scud cadde su Tel Aviv”, ha raccontato la cantante,  “proprio nel quartiere di Hatikva. Non riuscivo a comunicare con  la mia famiglia perché le linee erano sovraccariche. Vedere la zona  in cui sono cresciuta, i vicini dei miei genitori, i palazzi in cui  abitano, è stato terribile. Poi per fortuna sono riuscita a parlare  con mia madre e a sapere che stavano tutti bene. La seconda volta ero appena arrivata in Israele e lungo la strada dall’aeroporto a casa  è suonato l’allarme. Dover indossare la maschera antigas è stato  spaventoso, orribile. Non si può immaginare la sensazione d’insicurezza  e di minaccia… E poi vedere l’ordigno disintegrarsi in cielo  colpito dall’anti-missile… Ancora oggi, quando c’è un temporale  e tuona, abbiamo paura”.

L’album si chiude su una nota allegra, una danza  in 7/8 intitolata per l’appunto Take 7/8 che un tempo era  ballata dalle donne ai funerali. L’edizione italiana contiene un  brano in più, per la verità piuttosto stucchevole e convenzionale,  quel Today I’ll Pray presentato al Festival di Sanremo nel  quale la cantante recita alcuni versi in lingua italiana.

Nel 1987 Ofra Haza era sopravvissuta a un incidente  aereo. Il Cessna sul quale viaggiava si era schiantato sul confine tra  Israele e Giordania. “Dio l’ha salvata perché lei toccasse  altri cuori in tutto il mondo”, ha detto Ehud Barak il giorno del  funerale della cantante, “ma questa volta non è  intervenuto”. La famiglia ha cercato di non rendere pubblica la  causa ultima della sua morte: AIDS. Nell’aprile 2001 il marito della  Haza, Doron Ashkenazi, è morto per una dose letale di cocaina.  Considerato l’ispiratore della rottura artistica tra Ofra Haza e il  suo manager Bezalel Aloni, Ashkenazi era stato accusato dalla famiglia  della cantante di non avere detto alla moglie d’essere  sieropositivo, infettandola e causandone la morte. “La scomparsa  di Ashkenazi”, ha detto Aloni, “non fa che enfatizzare la  tragicità e la futilità della morte di Ofra. È terribile pensare  che Doron è stato il primo e unico uomo della sua vita”. Quella che sembrava una favola a lieto fine – il matrimonio tra la  Cenerentola della musica israeliana e il businessman premuroso e  protettivo – s’è trasformata in un’autentica tragedia.

DISCHI DELLA  MEDESIMA VENA ARTISTICA

Yosefa / The Desert  Speaks (Hemisphere, 1996)
Mezza yemenita e mezza marocchina, ma cresciuta in Israele, Yosefa  Dahari mischia influenze arabe e occidentali, un po’ come Ofra Haza. E  come la cantante di Kirya, anche Yosefa utilizza strumenti  acustici mediorientali ed elettrici.

Fairuz / Legendary Fairuz (Hemisphere, 1998)
Dice bene il titolo: la leggendaria Fairuz. Libanese, è una delle  cantanti su cui Ofra Haza ha modellato il proprio stile canoro. Quest’album,  uno dei pochi reperibili in Occidente, contiene cinque brani registrati negli anni Novanta, frutto della lunga e felice collaborazione con i  fratelli Rahbani.

Natacha Atlas / Gedida (Beggars Banquet, 1999)
È accomunata a Ofra Haza dalla commistione tra antico e moderno.  Metà egiziana e metà ebrea, già attiva con i Transglobal Underground,  cantante e ballerina del ventre, in questo album offre vocalizzi esotici  su basi musicali che mischiano strumenti tradizionali come ud, kanoon e  percussioni con ritmi dance e sonorità trance. Quando si dice musica  cosmopolita.

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