01/04/2010

PAT METHENY

Musica meccanica

In un’intervista di qualche tempo fa aveva confessato: «Vivo sognando. Lo faccio costantemente. Sogno di realizzare cose sempre nuove, di suonare sempre meglio. Mi sento proprio come un ragazzino e credo che non cambierò mai». Parole, queste, che ci ritornano in mente ascoltando Orchestrion (Nonesuch/Warner), nuovo album di Pat Metheny, da pochi giorni approdato nei negozi italiani. Un progetto titanico, che ha avuto una lunga gestazione. Un’opera in cui il cinquantacinquenne chitarrista di Lee’s Summit si confronta con un ensemble musicale virtuale che sembra uscito da un romanzo di Jules Verne: una gigantesca orchestra meccanica composta da strumenti come l’autopiano (un pianoforte automatico), la marimba, il vibrafono, tamburi e percussioni, campane tubolari, tastiere d’ogni tipo, bassi e altri bizzarri corpi sonanti di fabbricazione artigianale.
Di che cosa si tratta esattamente? E che senso ha l’operazione? È un’utopia futurista aggiornata all’epoca del web 2.0 o una curiosa deriva progressive? Una versione jazz di Tubular Bells o un delirio di onnipotenza tecnologica e di funambolismo strumentale? Difficile rispondere. Meglio ascoltare con attenzione il cd e, soprattutto, vedere il musicista in azione sul palco. In questi giorni Metheny ha iniziato un tour che, nel mese di marzo, toccherà tra l’altro le principali città italiane (Milano il 15; Firenze il 16; Roma il 17 e a seguire Napoli, Bari, Palermo e Catania). Per chiarirci le idee, siamo andati a fare due chiacchiere con lui nella sede milanese della Warner, al dodicesimo piano di un palazzo con vista su Piazza della Repubblica.
«Potrei dirti che questo lavoro è il mio Music Of My Mind, il famoso disco del 1972 in cui Stevie Wonder si è chiuso in uno studio di registrazione e ha fatto tutto da solo, scrivendo i pezzi, cantando ogni parte vocale e suonando tutti gli strumenti possibili e immaginabili», scherza un Pat Metheny raggiante e tonico, galvanizzato per la sua nuova impresa. «Il mio progetto risale a parecchi anni or sono, è qualcosa che fa parte dei miei sogni e della mia memoria. Ed è, al tempo stesso, il frutto di un pensiero che mette insieme un’idea nata a fine Ottocento-inizio Novecento con le più avanzate tecnologie di oggi. Lo scopo era di creare una piattaforma inedita che non mi ponesse limiti a livello di composizione, improvvisazione ed esecuzione. E di espandere il significato del termine “album solista” in direzioni inedite, ridefinendo il concetto stesso di performance solitaria».
Proviamo a spiegarci meglio. Magari dando un’occhiata anche al sito www.patmetheny.com, dove si può vedere un epk dell’artista alle prese con la sua “creatura”. Il chitarrista americano è circondato da una miriade di strumenti più o meno insoliti che, come in un visionario film di Tim Burton, sembrano vivere di vita propria e suonano facendo da base alle invenzioni di Pat. L’effetto di vibrafoni e xilofoni percossi da martelletti, di tamburi e piatti colpiti da bacchette fantasma e di pianole i cui tasti paiono mossi da un invisibile burattinaio desta meraviglia. Naturalmente il burattinaio c’è e controlla tutto. «Questa orchestra meccanica» continua Metheny «è governata da me in diversi modi, per esempio utilizzando dei solenoidi (bobine di forma cilindrica in cui passa energia elettrica, nda) e facendo ricorso ai principi della pneumatica (ovvero pistoni che vengono attivati da gas, nda). Con una chitarra, una penna o una tastiera sono in grado di creare un contesto compositivo estremamente dettagliato oppure di lavorare su passaggi musicali aperti e spontanei. A questi suoni, poi, si aggiunge quello della mia chitarra elettrica, che diventa l’elemento principe dell’improvvisazione».
Come mai un’idea così bizzarra e arzigogolata? «Provengo da una famiglia di musicisti. Anche mio nonno lo era: suonava la tromba e cantava in modo eccellente e mi ha trasmesso la sua passione per l’armonia. Ma non solo. Quando andavamo a trovarlo, insieme a mio fratello e ai miei cugini correvano nel seminterrato di casa dove si trovavano un vecchio pianoforte automatico e una scatola pieni di rulli di carta con la musica incisa. Mi pare ancora di sentirne l’odore, un forte odore di legno antico… Questo strumento aveva oltre mezzo secolo e suonava attraverso quei rulli su cui erano trascritti pezzi d’ogni genere musicale. Noi li provavamo tutti, pigiavamo sui pedali del piano con forza fino a quando non crollavamo per la stanchezza».
Come una madeleine proustiana, col passare del tempo la memoria di quei pomeriggi è riaffiorata. E il jazzista ha cominciato a coltivare l’idea di Orchestrion: «L’esistenza di uno strumento del genere, completamente meccanico, mi provocava uno sconvolgimento. E soprattutto mi affascinava, perché da un lato era qualcosa di arcaico e dall’altro mi proiettava in una dimensione fantascientifica. Nel corso degli anni l’elemento della fascinazione è andato progressivamente crescendo». Così, mentre collaborava con Brad Mehldau, componeva per il trio formato da Antonio Sanchez e Christian McBride e si concedeva il lusso di una rimpatriata con il vibrafonista-pigmalione Gary Burton, Metheny non smetteva di ragionare sulla sua fantastica utopia: «Ho studiato la materia per anni e mi sono dedicato anche all’analisi degli orchestrion più evoluti del ventesimo secolo in cui, ai pianoforti a rullo, venivano abbinati strumenti a martello e percussioni. Quindi mi sono posto due interrogativi. Che cosa sarebbe accaduto sfruttandone oggi il potenziale, considerando gli sviluppi armonici e melodici del jazz negli ultimi settanta-ottant’anni? E poi: sarei stato in grado di creare qualcosa di artisticamente valido utilizzando tali strumenti?».
Il resto lo ha fatto la rivoluzione informatica, che ha cambiato radicalmente anche la pratica musicale. Un processo che Metheny aveva già intuito realizzando New Chautauqua, il suo esordio Ecm del 1978 per chitarre e sovraincisioni. Un’opera in cui lo studio di registrazione era usato come strumento: «Sono d’accordo con te: New Chautauqua ha rappresentato il passo iniziale, dato che l’idea è la medesima che sottende il nuovo progetto. Tuttavia, mentre il primo disco non aveva possibilità di essere suonato dal vivo, essendo un prodotto da sala d’incisione, questo secondo viene esaltato proprio attraverso la dimensione live».
La seconda esperienza determinante è stata quella con Steve Reich. Il guru della minimal music aveva concepito per Metheny Electric Counterpoint, un brano in cui la chitarra elettrica di Pat veniva moltiplicata per dodici: «Oltre a inciderla nell’album del 1987, l’ho eseguita il 21 ottobre del 2006 di fronte al pubblico della Carnegie Hall di New York, in occasione del settantesimo compleanno del compositore. A quel punto ho realizzato che i tempi erano maturi per Orchestrion». Avendo spesso usato i sampler, che differenza c’è nel suonare con un’orchestra meccanica sia pure controllata da un computer? «È fondamentalmente una differenza di sound. Adoro i sampler e tuttavia questo ensemble possiede sonorità, timbri, dinamiche del tutto diverse. Ed è in grado di fare swing: magari non lo stesso della batteria di Jack DeJohnette, ma sempre di swing si tratta».
In effetti, ascoltando i cinque brani dell’album, si passa dalle tipiche ballate alla Metheny ad atmosfere orientaleggianti, per poi approdare a classiche improvvisazioni jazz – per esempio nella parte centrale di Soul Search. E il suono degli orchestrionics (così il chitarrista ha battezzato l’insieme degli strumenti che sono stati commissionati a un pool di inventori) ha un piacevole retrogusto vintage. Anche se chi ignora la genesi del progetto, ascoltando l’album difficilmente si accorge che si tratta di un’orchestra meccanica: «Era esattamente ciò che volevo: altrimenti avrei dato troppa enfasi all’aspetto tecnico, mentre ciò che conta per me è la qualità della musica. La mia sfida in studio è stata di scrivere le diverse parti strumentali: un lavoro complesso ma stimolante. Adesso ci ho preso la mano e ho materiale per fare altri quattro o cinque album di questo tipo». La seconda sfida è interagire con il complicato marchingegno dal vivo: «Se in sala d’incisione ho messo a punto il progetto artistico, sul palco devo prendere confidenza con la gestione dell’orchestra. Quando sono in scena, tutto dipende da me: la durata dei brani, i cambiamenti di ritmo, l’improvvisazione. Sono solo a metà dell’opera (al momento di andare in stampa, Metheny non aveva ancora tenuto concerti, nda)».
Un’ultima domanda: sai che l’edizione 2009 della Biennale Musica di Venezia aveva come tema il corpo del suono e che in cartellone c’erano composizioni per ensemble meccanici e l’installazione Robotic Music di Suguru Goto, in cui cinque robot eterodiretti da un sistema computazionale tenevano un concerto di percussioni? «No, non ne sapevo niente. Peccato perché in quel contesto il mio Orchestrion sarebbe stato perfetto».

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!