E’ il più famoso, elegante e prestigioso albergo di Milano. Situato all’incrocio tra Via Montenapoleone e Via Manzoni, a due passi dalla Scala, il Grand Hotel Et De Milan viene inaugurato il 23 maggio 1863. Dal 1872 diventa la residenza meneghina di Giuseppe Verdi che, proprio da una delle stanze dell’albergo, riceve acclamazione pubblica dopo il trionfo alla Scala della prima dell’Otello. E passa lì le sue ultime ore di vita. Tra le celebrità della musica del 900 che hanno scelto il Milan ci sono il tenore Enrico Caruso, il flautista Severino Gazzelloni e soprattutto Maria Callas, diva della lirica degli anni 50 e 60. E proprio nella camera preferita dalla Callas ama soggiornare Patti Smith, tutte le volte che viene a Milano. È lei stessa a confessarlo quando, ricordandole che negli ultimi anni trascorre molto tempo da noi, le chiedo se ha mai pensato di comprarsi una casa in Italia.
“Non ne ho bisogno” sorride “ho un sacco di amici che mi offrono ospitalità. E poi (riferendosi all’hotel, nda) adoro questo posto che è stato per anni il soggiorno preferito di uno dei miei idoli, Maria Callas”.
È vero. Quando la giovanissima Patricia Lee Smith studia in un liceo del New Jersey coltiva due amori: l’opera e il rock’n’roll. “Anche se il primo brano che ho cantato” rivela un po’ a sorpresa “si chiamava Jesus Loves Me; ero una bambina e il pezzo faceva così.”. Si mette a cantare di fronte alle telecamere e non nasconde il suo divertimento. Mi viene in mente una delle sue celebri dichiarazioni, quella in cui affermava che lei adora esibirsi “ovunque c’è l’atmosfera giusta. O, come diceva Gesù, in ogni luogo e tutte le volte in cui c’è un pubblico che viene ad ascoltarmi. Possono esserci 10mila persone, poche centinaia di fan o persino un giornalista per un’intervista: basta che ci sia una bella energia”.
Non è difficile creare la giusta atmosfera con Patti Smith. Gentile, disponibile e sempre pronta a raccontare particolari interessanti, Patti (oltre a essere inimitabile regina del rock) è una persona davvero deliziosa. Nel luglio 2003, quando è stata ospite a Genova del festival Just Like A Woman, mi aveva timidamente chiesto di accompagnarla a fare un giro nella zona del Porto Antico: voleva fare qualche foto. Detto, fatto. E lei se lo ricorda e ancora mi ringrazia. “Volevo fotografare la Lanterna, sei stato molto gentile” dice, scusandosi di essere in ritardo di mezz’ora. Perdonata: insieme alla sua manager italiana, Rita Zappador, è reduce da un appuntamento importante alla Triennale. Ubi maior.
Patti si accomoda in una bella poltrona di fronte a me, in un angolo della elegantissima hall del Milan. Alle nostre spalle, un camino in marmo bianco di rara bellezza. Leggermente raffreddata, vestita di nero in stile neo folk (“Un po’ alla Bob Dylan, mio autentico, grandissimo eroe”) con un bel paio di cowboy boots, capelli lunghi addolciti da una tintura color castano, sguardo dolce, la sempreverde Patti Smith compirà 60 anni il prossimo 30 dicembre. Ma noi preferiamo parlare della sua fanciullezza.
“La mia vita è cambiata quando ho sentito Little Richard cantare Tutti Frutti. Il rock’n’roll ha travolto la mia esistenza. Quando poi ho visto in televisione, da Ed Sullivan, i Rolling Stones ho capito che quello sarebbe stato il mio destino. Degli Stones ho sempre ammirato Brian Jones. Non l’ho mai conosciuto, ma ho avuto il privilegio di essere in prima fila, a un metro da lui, quando i Rolling Stones hanno suonato nei primi anni 60 nel teatro del mio liceo a Woodbury, New Jersey”.
Rock’n’roll, specie in quegli anni, è sinonimo di machismo. E anche Patti Smith, come un’altra celebre rock queen dell’epoca (Joni Mitchell) ha vissuto con difficoltà gli svantaggi di essere femmina in un mondo dominato dai maschi. Si favoleggia che Patti fosse addirittura a capo di una gang di ragazzini. “È vero” confessa “ma non ho mai avuto dubbi sulla mia sessualità. scherzi a parte, non volevo essere maschio. Semmai, mi consideravo una specie di essere asessuato, un novello Peter Pan con però, innato, un forte senso di giustizia. Allora, per difendere i diritti dei più deboli, ero disposta a menare”.
Ride, la paladina della non violenza. E ricorda con nostalgia, ma con lucidità storica, i primi giorni newyorchesi, insieme a Robert Mapplethorpe (“Un genio ma anche un grande amico cui devo moltissimo”) e la scena del Chelsea Hotel.
“Dal Chelsea transitavano tutti, da Janis Joplin a Andy Warhol, da Nico a Jackson Browne, da Lou Reed a Jim Morrison. Per noi era normale: ci si conosceva tutti, eravamo amici, ci scambiavamo pareri, collaboravamo tra noi e il concetto del divismo rock era ancora lontano. Quel posto, un po’ come il CBGB’s, era uno state of mind. Per questo, da quando si è sparsa la voce che il locale della Bowery entro fine anno dovrà chiudere i battenti – e per questo i giornalisti mi chiedono un’opinione in merito – ripeto a tutti la stessa cosa: lo spirito del CBGB’s non chiuderà mai”.
Sta lavorando al nuovo disco (“Conterrà diverse cover e mi auguro che sia pronto per la fine dell’anno”) ma nel frattempo è impegnata in diversi progetti, molti dei quali riguardano l’Italia. “Ho accettato l’invito di Dori Ghezzi per il concerto con la Pfm. Negli ultimi anni ho studiato la musica e i testi di Fabrizio De André, che trovo bellissimi e pieni di poesia. Poi, mi sono trovata davvero bene con la rock band italiana: grande energia e formidabile sensibilità melodica. Nei primi giorni di aprile, insieme a Philip Glass, darò vita a un progetto musical letterario dedicato ad Allen Ginsberg. E poi, quasi certamente, tornerò in estate”.
Le mostro una foto in cui lei ha sul volto, a mo’ di maschera, un’altra foto: un ritratto di Bob Dylan. Ma davvero volevi essere come lui? “Sì, è uno dei pochi esseri viventi che davvero invidio”. Ma, allora, le chiedo, come mai nel 1975 ha rifiutato il suo invito di unirsi a quel carrozzone itinerante chiamato Rolling Thunder Revue? “Stavo per registrare il mio primo album, Horses” ricorda “e non me la sono sentita di abbandonare le registrazioni. All’epoca, mi è spiaciuto moltissimo ma a posteriori, devo dire che ho fatto la scelta giusta”. Mi cade l’occhio sulla sua cravatta nera, di seta. “No” sorride lei “non è quella della foto di copertina di Horses. ci assomiglia, ma questa è un po’ più nuova”.
“Continuo a dipingere, a scattare fotografie, a scrivere testi. per me, non c’è differenza. Sono solo modalità di espressione diverse. Ma che io dipinga, canti o declami poesie resto sempre Patti Smith. Non so dirti come mai molti musicisti si dilettano con la pittura. Il mio caso è diverso: quando ho iniziato a frequentare la scena artistica newyorchese di fine anni 60 non avevo idea che sarei diventata una cantante. Poesia e pittura erano, allora, le mie attività preferite”.
Parlando di scena newyorchese la domanda è d’obbligo. La Smith fa quasi tenerezza quando risponde alla mia domanda sulle differenze tra la sua NYC e quella di Lou Reed. “Voi italiani mi volete davvero bene” dice. “In America nessuno associa il mio nome o quello di Lou alla scena newyorchese. Se lo sono già dimenticato. qui in Europa c’è tanto rispetto per artisti come noi che hanno saputo combinare rock, poesia e arti visive in un momento in cui New York era la capitale del mondo”.
Non ha tutti i torti. Per l’ennesima volta, la Rock And Roll Hall Of Fame si è dimenticata di lei e, guarda un po’, pure del suo amico Lou Reed preferendo loro (insieme a Black Sabbath, Miles Davis, Lynyrd Skynyrd e Sex Pistols) un’altra icona newyorchese degli anni 70, Blondie.
“Va bene così. Le onorificenze mi fanno sentire vecchia”.