16/05/2007

Profumo di folk

BACK TO THE ROOTS
di Ezio Guaitamacchi

Fort Adams State Park, Newport, Rhode Island. Sabato, 3 agosto 2002. Sono le 5 del pomeriggio. Sul palco principale del Newport Folk Festival sta per salire Bob Dylan. L’atmosfera è assolutamente particolare: tutti sanno che non si tratta soltanto dell’ennesimo concerto del Never Ending Tour. Proprio qui (esattamente 37 anni e 9 giorni prima, il 25 luglio del 1965) Dylan ha dato vita alla più famosa delle sue innumerevoli rivoluzioni artistiche. Davanti al pubblico selezionato del primo e più prestigioso folk festival del mondo, aveva infatti deciso di presentare le sue canzoni con gli arrangiamenti ‘elettrici’ sperimentati in Highway 61 Revisited, l’album che proprio in quei giorni stava registrando a New York. Ad aiutarlo c’erano Mike Bloomfield e altri musicisti (il batterista Sam Lay e il bassista Jerome Arnold) che come lui militavano nella Blues Band di Paul Butterfield. Con loro un amico di Bloomfield (il pianista Barry Goldberg) e soprattutto la rockstar nascente Al Kooper. Proprio il suono dell’organo Hammond B3 di Kooper era diventato il marchio caratteristico del nuovo corso dylaniano.

Di quella performance, da qualcuno etichettata come “il concerto che uccise il folk”, ci sono racconti e aneddoti discordanti. Se è vero che Pete Seeger, uno dei padri indiscussi del folk revival nordamericano, minacciò gli organizzatori urlando loro “o lo fate smettere, o salgo sul palco e gli taglio i cavi degli amplificatori!”, è anche vero che l’esibizione di Dylan provocò vivaci reazioni del pubblico. Ma non esattamente violente e cariche d’insulti come i giornali dell’epoca riportarono influenzando negativamente folkettari ‘duri e puri’ e altri ‘agitatori’ che diedero libero sfogo ai loro istinti più bassi nei successivi concerti di Dylan.

Uno che c’era, Al Kooper, e che stava sul palco di Newport proprio insieme a Dylan ricorda che “.avevamo provato la notte prima in una di quelle enormi ville di Newport affacciate sull’oceano. Aprimmo dunque la nostra porzione di show con Maggie’s Farm e terminammo con una Like A Rolling Stone suonata in modo perfetto. Dylan scese dal palco e sembrava molto soddisfatto. Il pubblico urlava perché voleva altri pezzi. I resoconti della serata furono quasi tutti incentrati sui fischi ricevuti da Dylan e sul fatto che la gente lo costrinse a tornare sul palco per una versione acustica di It’s All Over Now Baby Blue. Un’immagine romantica, non c’è dubbio. Ma le cose non andarono così. Alla fine del nostro set, Peter Yarrow (di Peter, Paul & Mary, nda) abbracciò Dylan appena sceso dal palco. Entrambi avevano come manager Albert Grossman ed erano buoni amici. Il pubblico, nel frattempo, chiedeva rumorosamente il bis. Anche perché, di fatto, avevamo suonato soltanto un quarto d’ora! Credetemi, io ero proprio lì, di fianco ai due. ‘Hey’, disse Peter, ‘non puoi andartene così Bobby. La gente ti vuole: fai almeno un’altra canzone.’ ‘Ma questo è tutto quello che abbiamo provato’, replicò Dylan indicando la band. ‘Beh, allora torna sul palco con questa’ gli disse Yarrow porgendo la sua chitarra acustica a Bob. Ecco come andarono davvero le cose. La verità è che Dylan era il re di Newport e che la maggior parte del pubblico era lì per lui. Tutti gli altri suonavano set di 45 minuti e lui aveva fatto poco più di un quarto d’ora. Quelli furono i veri motivi delle proteste. Ecco perché il pubblico fischiava: voleva più pezzi di Bob.”

Eppure, la famosa ‘svolta elettrica’ di Dylan (apprezzata o disprezzata che fosse) rappresentò uno dei momenti chiave della storia del rock. Ma anche del folk. Che da quel momento, contaminandosi con il rock, risorse a nuova vita. Perché, proprio come indicava Dylan nel testo di It’s All Over Now Baby Blue quando cantava “you must leave now, take what you need you think will last” (Ora te ne devi andare, porta con te quello di cui hai bisogno e che pensi possa durare nel tempo) intendendo tutto fuorché il voler porre fine a qualcosa. Piuttosto, segnalava l’inizio di un nuovo ciclo. E infatti, anche nella musica, così è stato. Folk-rock e country-rock hanno contrassegnato gli anni 60 e 70, un nuovo revival del traditional i primi anni 80 mentre tutto il decennio dei 90 ha vissuto la sbornia dell’etno-world.

Il nuovo millennio si è aperto ancora con una riscoperta della ‘musica delle radici’. Dylan (vedi il box firmato da Paolo Vites) ha come sempre anticipato le tendenze. Ma con lui (o dopo di lui) molti songwriter vecchi e nuovi (da Bruce Springsteen a Ani DiFranco) hanno fatto un deciso ritorno alle matrici folk. Per non parlare di coloro che sono risorti a nuova vita artistica dopo essersi rivolti alle culture ‘altre’ (Peter Gabriel, Paul Simon, David Byrne, Robbie Robertson, Sting, ecc.) o di quelli come Mark Knopfler o Eric Clapton da sempre ammaliati dai suoni e dalle melodie della tradizione nordamericana. Il blues per Clapton, il country & folk per Knopfler: non a caso i due filoni dalla cui unione è nato il rock’n’roll.

Sono parecchi gli artisti che di questi tempi stanno riscoprendo il fascino degli strumenti acustici così come quello di melodie centenarie il cui ascolto trasporta immediatamente in epoche lontane. A enfatizzare queste suggestioni ci ha pensato ancora una volta il cinema che è nuovamente venuto in soccorso della musica. E così, come già successo negli anni 60 per Bonnie & Clyde prima e per Un tranquillo week-end di paura poi, il film dei fratelli Coen O Brother, Where Art Thou? ha di colpo fatto tornare la moda della musica old time & bluegrass.

Ma non è stata una semplice coincidenza. Da anni il folk e l’etnico vengono proposti con determinata passione nei festival di mezzo mondo. Che seguono gli illuminati esempi di autentici colossi del genere come il già citato Newport Folk Festival, il Philadelphia Folk Festival, il Kerrville Folk Festival o il New Orleans Jazz & Heritage, giusto per citare i più celebri negli Usa, senza scordare i grandi festival canadesi (Winnipeg, Vancouver, Edmonton) o quelli altrettanto celebri della Gran Bretagna (Cambridge, Edinburgo) tutti, da più di quarant’anni sulla breccia.

Chi ha avuto la fortuna di poter assistere almeno una volta a uno di questi eventi si sarà reso conto che lì la musica viene proposta e fruita in modo completo e significativo. Si crea una vera e propria interrelazione tra artista e pubblico, un cerchio comunicativo ed energetico assolutamente rigenerante.

E al di là di immagini evocative, nostalgie di mondi o culture perdute, fascino di suoni e ritmi rurali, la semplicità, l’integrità e l’estrema accessibilità di queste musiche sono alla fine il vero segreto del loro successo. E del loro inestinguibile appeal sulle nuove generazioni.

——————————————————————————–

KNOPFLER GOES TO NASHVILLE
di Claudio Todesco

Il carpentiere di Why Aye Man è emigrato in Germania a bordo d’un ferry boat. Adesso ha tra le mani un martello e negli occhi la sua nuova “fräulein”, ma nel cuore custodisce i paesaggi della terra che ha lasciato. L’uomo di A Place Where We Used To Live torna nella casa dove un tempo abitava. Nelle stanze spoglie e impolverate va cercando tracce del passato, ma trova solo fantasmi: lei chissà dov’è, si chiede, e di chi sarà diventata moglie. Il protagonista di Fare Thee Well Northumberland è sul piede di partenza: sta dicendo addio ai luoghi dov’è cresciuto. Con la morte nel cuore, ammette che non sa se tornerà.

The Ragpicker’s Dream, il terzo lavoro solista di Mark Knopfler che esce due anni dopo l’acclamato Sailing To Philadelphia, è un disco di arrivi e partenze – e, di conseguenza, di malinconie e rimpianti. Fantasie e vicende autobiografiche si confondono e rendono impossibile capire dove finisce il narratore e inizia l’uomo. “È la cosa più vicina al mio cuore che abbia fatto”, ha detto l’ex Dire Straits nel presentarlo. Si riferisce anche all’aspetto apparentemente dimesso delle canzoni, narrate sottovoce, mai muscolose, spesso delicatamente acustiche. “Scrivere canzoni è un atto solitario che negli ultimi tempi apprezzo sempre di più”, ha detto il chitarrista. La voglia di ripartire dal basso – che può voler dire cantare di quotidianità oppure recuperare le radici profonde della propria arte – non è mai apparsa tanto forte. Nonostante l’incredibile successo di Sailing To Philadelphia e le garbate pressioni del produttore e amico Chuck Ainley, Mark ha perciò scientemente evitato di incidere un disco rock. I Dire Straits li ha riuniti solo per quattro concerti benefici lo scorso luglio, parte integrante di una megaband comprendente Brendan Croker e Steve Phillips dei Notthing Hillbillies. “In locali”, ha specificato il chitarrista, “in cui puoi vedere in faccia il pubblico.”

C’è qualcosa di ironico e romantico nel fatto che il cantore delle piccole cose di oggi altro non sia che il rocker-da-100-milioni-di-copie-vendute di ieri. Nessun disco di Knopfler è altrettanto radicato nel folk, nel country, nel blues, nella musica celtica quanto The Ragpicker’s Dream, nessuna raccolta di sue canzoni ha mai sposato raffinata semplicità e anima acustica quanto questa. Non a caso, l’album è stato registrato a Nashville, la capitale mondiale della musica country. “Ma solo per motivi pratici”, dice l’autore. “È vero, c’è molta chitarra acustica nel disco, ma non voglio necessariamente allontanarmi dai suoni elettrici. È che le canzoni richiedevano altre atmosfere. I pezzi li ho composti a casa, con un’acustica Martin, e quando li ho incisi con la band ho voluto essere fedele al loro spirito originario.”

The Ragpicker’s Dream lascia intravedere in controluce tutte le passioni di Knopfler: più passa il tempo, più sembra attratto da musiche clamorosamente demodé. Mentre i ragazzini impazziscono per il modernariato musicale, lui si dedica alla Storia della musica, quella con la esse maiuscola. In Ragpicker’s Dream ci sono Hank Williams e Chet Atkins, ci sono lap e pedal steel, violini, armonica a bocca, Hammond e, ovviamente, un sacco di chitarre. C’è persino il primo amore di Mark: Hank Marvin (il sound cinematico del solo di You Don’t Know You’re Born). Anche questo è un “ritorno a casa”: il suono della chitarra di Marvin, ai tempi in cui suonava con gli Shadow, è il motivo che spinse un giovanissimo Knopfler ad imbracciare lo strumento. In quando al compianto Atkins, Mark continua a considerarlo un maestro: “Chet mi diede un sacco di materiale da studiare”, ha rivelato al mensile inglese Guitarist, “ne ho due buste piene, ma non me la sento di aprirle. Dovrei aprirle e rimettermi a studiare”. Daddy’s Gone To Knoxville è nata ricordando “le volte in cui Chet mi raccontava dei vecchi tempi, quando girava il paese, un’esistenza in continuo movimento da un posto all’altro”.

Non stupisce, insomma, che The Ragpicker’s Dream assomigli più a Missing. Presumed Having A Good Time dei Notting Hillbillies o a Neck And Neck, il disco di duetti con Chet Atkins, che ai best seller Making Movies o Brothers In Arms. Di recente la Martin ha creato un modello di acustica dedicato a Mark anticipando la Fender, ovvero la chitarra per la quale Knopfler è diventato celebre, e anche questo è in qualche modo ironico e significativo dell’ampio spettro stilistico di cui è capace il personaggio. In quanto al leggendario suono pulito dei Dire Straits, Knopfler lo ha definito, parlando con Guitarist, “frutto della fortuna di lavorare con grandi fonici. Dal punto di vista delle tecniche di registrazione, sono un illetterato”.

Nashville è solo l’ultima tappa di un viaggio cognitivo e musicale compiuto da Mark per dimostrare “le connessioni tra Delta e Tyne”, vale a dire tra la culla del blues afroamericano, la madre di tutte le musiche, e il fiume che scorre nei luoghi nativi del chitarrista, nell’Inghilterra settentrionale. Si noti l’insistenza nel nuovo album del tema del ritorno, fisico o semplicemente immaginato, alla terra d’origine – nel caso di Mark i territori del nord, il cosiddetto Northumberland. “È il blues intercontinentale”, ha detto il chitarrista, “perché la musica viaggia. È andata fino negli Stati Uniti ed è tornata: canzoni irlandesi, scozzesi, inglesi, europee.” “Un paio di brani iniziano con Richard Bennet che suona il bozouki”, ha detto a Guitarist. “È uno strumento meraviglioso che ho scoperto quando mi sono imbattuto in Donal Lunny. Il mio amico Paul Brady aveva già messo assieme un cast di supermusicisti irlandesi per Golden Heart e fu allora che capii quanto importante sia il bouzouki.” Hill Farmer’s Blues è esemplare della sovrapposizione geografica Tyne-Mississippi: potrebbe essere un brano folk americano, ma parla del Northumberland e di Tow Wow che, in realtà, è nella Contea di Durham.

Al pari del suo maestro di sempre Bob Dylan – di cui nel singolo Why Aye Man si cita la famigerata “maggie’s farm”, dove Maggie è però la Thatcher – Knopfler sembra attratto da un’America estinta o, per dirla con le sue parole, “più innocente”. Non ci sono tracce di modernità in questo disco, al massimo un’amabile presa per i fondelli dei reality show (Devil Baby), una cosa piuttosto pudica se confrontata con l’umorismo nero di Barry Williams Show di Peter Gabriel. Rivive invece il tema della costruzione e del progresso già ampiamente sfruttato in Telegraph Road. Oggi è però visto dal punto di vista di chi, quella strada, la percorre tutti i giorni e ci lavora e ci sogna e ci ama. È il caso del protagonista di Daddy’s Gone To Knoxville che percorre la Gallatin Road, un’arteria battutissima vicino a Nashville, “che una volta, non molto tempo fa, era una strada secondaria: lo sviluppo è stato spaventoso, ti fa pensare a quanto tempo ci vorrà prima che la natura soccomba alla civiltà”.

In The Ragpicker’s Dream si canta di venditori di “scarpe di qualità” e di straccivendoli, di muratori e di fattori, ci si muove su linee ferroviarie e strade impolverate. “Che ne sai della sirena del turno notturno?”, chiede uno dei protagonisti dell’album che ci piace immaginare imparentato col brontolone di Money For Nothing, “che ne sai della strada e delle rotaie?” Sotto i vestiti da lavoro consunti, in mezzo alle mani da contadino di questi personaggi pare di intravedere un male sottile che consuma loro il cuore, dovunque si trovino, nel Tennessee come a Edimburgo: il blues. Che sarà “intercontinentale”, come dice Mark, ma viaggia in seconda classe. I continui riferimenti ai lavori manuali presenti nei testi – ci sono persino versi in cui si citano gli utensili, dallo scalpello di You Don’t Know You’re Born alla sega elettrica di Hill Farmer’s Blues – sembrano la perfetta rappresentazione del modo di far musica che Knopfler ha adottato dopo lo scioglimento dei Dire Straits: puro artigianato. Il suo sogno in fondo è sempre stato lo stesso: “Essere il tizio che scrive canzoni con la chitarra”.

——————————————————————————–

IL NUOVO “SEAN-NOS”
SECONDO SINEAD O’CONNOR
di Monica Melissano

Sean-Nós Nua, questo il titolo che Sinéad O’Connor ha voluto per quello che è un atto di amore verso l’Irlanda racchiuso in tredici tracce. “Sean-nós”, dal nome con cui viene identificato il particolare stile vocale tradizionale dell’isola, con le note cromatiche che si srotolano lungo le vocali gaeliche a evocare scenari malinconici. E “nua”, ossia nuovo, e non solo perché si tratta di inedite interpretazioni di classici della tradizione orale, ma anche perché attorno alla O’Connor si è raccolta tutta una nuova generazione di musicisti, convenuti da ogni parte del mondo, legati dall’amicizia e dalla stima reciproca, dai ricordi, dalle immagini e dai personaggi affrescati in ballate che non soffriranno mai dello scorrere del tempo. C’è la solo apparentemente fragile Sharon Shannon con la sua fisarmonica, c’è l’indimenticabile violino dell’ex Waterboys Steve Wickham, c’è l’inossidabile Christy Moore, che presta la sua voce alla favola di Lord Baker, e ci sono Professor Stretch, Adbullah Chhadeh e Carlton ‘Bubblers’ Ogilvie, convenuti fin dagli Stati Uniti, dalla Siria e dalla Giamaica, memori dell’insegnamento all’insegna della contaminazione degli Afro Celt Sound System, al cui progetto aveva partecipato la stessa Sinéad. E c’è Donal Lunny, che ha visto passare sotto le proprie dita innumerevoli rinascite del folk irlandese, da quando oramai quasi vent’anni fa fondò i Planxty con Christy Moore, per proseguire poi una strada che ha portato il suo bouzouki, il suo bodhran e la sua chitarra negli Altan, nei Moving Hearts, nella Bothy Band.

Proprio Lunny, assieme alla stessa Sinéad, ad Alan Branch e ad Adrian Sherwood ha curato al produzione di Sean-Nós Nua; e non tragga in inganno la presenza nel team del mago del dub, perché i pochi campionamenti che si possono qui distinguere non fanno che irrobustire, ove necessario, il tessuto ritmico, o infondere colori fiabeschi a versi composti secoli addietro. Del resto in Sinéad convivono da tempo le due anime, quella legata alla tradizione e quella assetata di suoni futuri, senza alcun dissidio apparente: basti ricordare le sue collaborazioni coi Chieftains, Luka Bloom, Shane McGowan e Davy Spillane, parallele a partnership artistiche con Bomb The Bass, Moby e Massive Attack, che hanno utilizzato a piene mani il caratteristico timbro vocale della dublinese per l’atteso album in arrivo.

Non è un caso che Sean-Nós Nua veda la luce per la Hummingbird Records, nata a Dublino sulla scia della Hummingbird Productions, struttura voluta nel 1987 da Philip King, Nuala O’Connor e Kieran Corrigan, e a cui si deve l’ormai storico Bringing It All Back Home, colonna sonora per una serie trasmessa da RTE (la tv nazionale dell’Eire) e BBC, che va a ripercorrere la storia della musica tradizionale irlandese lungo le migrazioni che hanno poi dato vita al country e al bluegrass. Per quell’occasione erano convenuti molti dei nomi che si sono ritrovati oggi attorno alla O’Connor, mantenendo lo stesso spirito fresco e innovativo nel voler celebrare le voci e le canzoni d’Irlanda in un contesto il più possibile attuale. E se Sean-Nós Nua suona come un album ricco più di affetti che di celebrazioni, questo è principalmente dovuto alla scelta dei brani, avvenuta senza pretese di completezza o di esaustività filologica, ma in base alla memoria della stessa Sinéad, che ha interpretato le canzoni apprese da bambina, dalla voce della nonna paterna, e le arie che hanno avuto maggior significato nella sua vita, e di conseguenza Sean-Nós Nua racchiude senza sforzo tutti i temi cari alla scrittura irlandese: le canzoni d’amore, le storie d’emigrazione, le drinking songs, le parafrasi che nascondono, sotto il volto dei protagonisti, la stessa Isola verde.

Gli iniziali arpeggi di chitarra di Peggy Gordon, sottolineati dal malinconico violino di Wickham, introducono in un’atmosfera intima, dove la voce di Sinéad, quasi avvolta in una leggera foschia mattutina, racconta di un amore impossibile e lontano, con versi in cui la disperazione si stempera però in tonalità pastello. La “bellissima giovane che somiglia a una regina” in cui si imbatte il protagonista di Her Mantle So Green è una delle figure più classiche delle ballate irlandesi ottocentesche, dove il mantello verde da lei indossato è una chiara identificazione con l’Irlanda; si tratta di una classica storia basata sui dialoghi, drammatizzati e resi espressivi dalla O’Connor, in cui la proposta di matrimonio del giovane si intreccia con la narrazione della battaglia di Waterloo, in cui si scopre aver perso la vita il promesso sposo della bella Nancy. L’atmosfera di Lord Franklin è invece sognante, quasi irreale, come le rotte evocate in un sogno in cui il protagonista si smarrisce per sempre nell’Oceano con tutto il suo equipaggio; potrebbero tornare alla mente i Clannad, ma in una versione più intima, meno barocca, che lascia in evidenza voce e violino. È una canzone d’amore anche My Singing Bird, ricca di variopinte immagini rurali, con l’amato che viene paragonato all’uccello dal canto più bello; una scrittura non distante dalle immagini più delicate che la O’Connor ha saputo creare in Universal Mother, qui vivacizzate dai ritmi leggeri del bouzouki e del whistle.

Il primo dei due pezzi in gaelico dell’album, Oro, se do bheatha ‘bhaile! (You Are Welcome Home), dall’andamento di danza guerriera e festosa, è sicuramente uno di quelli a cui Sinéad si sente più vicina. Il testo racconta del ritorno in Irlanda di Grainne Mhaol, unica figlia legittima di Owen ‘Black Oak’ O’Malley, nata attorno al 1530 in County Mayo, che aveva risposto al divieto dei suoi genitori di imbarcarsi rasandosi la testa, gesto che aveva talmente divertito il padre da battezzarla col soprannome di Mhaol (calva), dandole il permesso di scegliere la via del mare. Grainne Mhaol sarebbe divenuta una celebre pirata, per poi tornare in patria e combattere attivamente per l’indipendenza della sua gente. Il testo qui scelto, fra le varianti a disposizione, è quello composto nel 1916 da Pádraig Pearse, uno dei leader della Ribellione Irlandese, come incoraggiamento a tutti i suoi connazionali a tornare in Irlanda per combattere contro gli invasori. È forte il contrasto con Molly Malone, quasi un’elegia funebre per la giovane pescivendola dublinese, vissuta nella miseria e morta per una febbre improvvisa; la voce di Sinéad è densa di commozione, ed evoca vicoli impregnati di umidità e povertà, bui quanto quelli fissati da Alan Parker nella Limerick della versione cinematografica di Le ceneri di Angela. Ancora più amara, se possibile, Paddy’s Lament, storia di un qualunque emigrato (Paddy è il nome generico utilizzato per identificare gli irlandesi in terra straniera), che è stato costretto dalla povertà a salpare al di là dell’Oceano e ad abbandonare gli affetti più cari; Dublino diventa allora una terra promessa a cui far ritorno, per lo sventurato costretto a imbracciare il fucile nella Guerra di Secessione a fianco delle truppe di Lincoln. Un testo estremamente feroce, se letto in chiave attuale (“To the devil, I would say, it’s curse Americay / For the truth I’ve had enough of your hard fightin'”); un quasi impercettibile tappeto elettronico fa da sfondo alla drammatica fisarmonica di Sharon Shannon, e la voce si libra su toni acuti e veementi, paragonabili a quelli di una nuova Joan Baez.

The Moorlough Shore è un’altra versione sulla celebre melodia di The Foggy Dew, già interpretata da Sinéad nel ’95, con la partecipazione a The Long Black Veil dei Chieftains. Qui è l’attesa vana per l’amato disperso in guerra a giustificare la lenta e ipnotica malinconia degli archi e del whistle, a raccontare l’estrema e prolungata sofferenza di tutto un popolo. Le note di The Parting Glass, drinking song qui proposta con l’andamento di una dolce ninna-nanna, rischiarano l’aria col ricordo degli amici, degli affetti, della convivialità, da sempre rappresentata dal bere assieme, con lo splendido augurio finale “Good night and joy be with you all”. Il mare, parte integrante del fato dell’Isola, torna a sciabordare in Baidin Fheilimi, col bodhran che simula il percuotersi delle onde sulla fragile barca del pescatore Fheilimy, naufragato al largo dell’isola di Tory. My Lagan Lover è forse la traccia più atipica di Sean-Nós Nua, con un arrangiamento complesso e un tappeto di ritmiche elettroniche, la voce leggermente filtrata e arricchita da sovraincisioni, espedienti che si addicono alla distensione di una storia d’amore finalmente consumata. Appena sussurrata, la voce profonda di Christy Moore duetta con Sinéad nella lunghissima narrazione delle avventure di Lord Baker, nobile condotto dalla lussuria in una prigione turca e sposatosi dopo un’attesa durata sette anni con una principessa orientale; un raccoglimento quasi religioso accompagna la storia, grazie a pochi accordi di organo che fungono da sfondo.

Sean-Nós Nua si chiude coi ritmi di danza di I’ll Tell Me Ma, filastrocca che trascina in un turbine primaverile e lieve di feste e corteggiamenti adolescenziali, nei luoghi più soleggiati e profumati dell’Irlanda di Sinéad.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!