20/03/2007

Rebel Chicks

Intervista a Natalie Maines delle Dixie Chicks

Non è fondamentale sapere come votava Johnny Cash per commuoversi alle note di Man In Black o Folsom Prison Blues, ma la country music è sempre stata legata nell’immaginario collettivo ad atteggiamenti reazionari e bigotti. Pian piano le cose sono cambiate: prima gli outlaws, poi i nuovi tradizionalisti e infine – oggi – il cinema che riempie le colonne sonore di film “progressisti” con suoni acustici. Basti citare Brokeback Mountain, Radio America o Transamerica. Ci sono artisti superconservatori come Toby Keith, ma anche ribelli come le Dixie Chicks, che coniugano protesta e impegno politico con il grande successo commerciale. I numeri parlano chiaro: quasi 600mila copie vendute in una settimana dell’ultimo album The Long Way Home, in tasca otto Grammy in pochi anni, nel 2003 ben 860mila biglietti del loro tour americano bruciati in poche ore. C’è anche il rovescio della medaglia: i loro brani sono stati censurati dalle radio americane, ma la guerra personale contro Bush non ha impedito alla band di conquistare il grosso pubblico grazie a una flessibilità che le ha portate ad avvicinare le strade del pop e del rock.

Ne parliamo con Natalie Maines.

Un punto di svolta per le Dixie Chicks?

Il nuovo album è un lavoro molto personale. Nessuno più di noi rispetta la grande tradizione musicale americana, ma essa non può e non deve finire in naftalina, altrimenti muore. Bisogna partire da lì, prendere spunto e darne una visione moderna, soprattutto a livello di testi. Il nostro è un disco contro l’ipocrisia, che parla di problemi universali, ma anche dei nostri piccoli drammi personali; non abbiamo nessuna paura di dire ciò che pensiamo e anche ad avvicinarci al rock.

Certo non le mandate a dire al Presidente Bush…

Viene dal Texas, come noi, ma siamo agli antipodi. Non ce l’abbiamo con lui ma con le sue idee, con il suo modo di governare. Ha buttato al vento un’occasione di unire il mondo contro il terrorismo per giocare ai cowboy e ora tutti ne stiamo pagando le conseguenze.

Tutto è nato dall’11 settembre?

Certo, condanniamo quell’attentato vigliacco, ma c’erano altri modi per reagire tutti insieme, senza mandare tanti ragazzi a morire per niente.

Cosa può fare la musica contro la guerra e la violenza?

Viviamo tempi a dir poco bizzarri. La gente ha bisogno di sicurezze. Credo che la musica sia un grande veicolo di emozioni, sia per divertirsi sia per lottare tutti insieme. Noi combattiamo contro il potere degli arroganti, degli intoccabili che seminano paura e odio. A volte le canzoni aiutano a riflettere, a prendere posizione, a sentirsi tutti un po’ meglio, un po’ più vicini.

Il vostro segreto sta nel fascino dei suoni o nell’impegno dei testi?

La gente ascolta prima la melodia e poi si fa prendere dai contenuti. Diciamo che è un cocktail equilibrato di parole e suoni. I testi sono fondamentali, ma non vogliamo essere etichettate politicamente.

Quindi come componete?

Nel modo più vario e imprevedibile. A volte i brani nascono da una melodia che gira nelle nostre teste. A volte una notizia, un piccolo fatto di tutti i giorni ci fa buttare giù delle parole su cui poi viene costruita la musica. Lubbock Or Leave It prende spunto da un documentario televisivo e tratta il drammatico tema dell’educazione sessuale delle ragazzine. Molte restano incinte senza neppure sapere perché. Bisogna educare e informare, non reprimere. Comunque non abbiamo schemi. La creatività è libertà e viceversa.

Infatti nel cd ci sono anche brani riflessivi, storie di sentimenti…

Come Silent House, una canzone cui sono molto legata, dedicata a mia nonna che vive lottando contro l’Alzheimer. È un pezzo triste ma pieno di speranza, un atto d’amore per i nostri cari e i nostri vecchi ma senza falsi struggimenti o nostalgie.

Volete giocare alle dure a tutti i costi.

Non siamo ipocrite, ma mettiamo a nudo i nostri sentimenti molto più di tanti altri. Prendi Baby Hold On, lì c’è la nostra vita, i nostri difetti, i nostri punti di forza, quello che siamo e quello che avremmo voluto essere.

A voi non piacciono gli artisti che appoggiano la guerra e cantano per i soldati come Toby Keith. Esiste quindi un country buono e un country cattivo?

Certo siamo più vicine a Jackson Browne, Bruce Springsteen, agli artisti del Vote For Change, ma ognuno la pensa come vuole. Keith ha il suo pubblico e noi il nostro, non si può impedire a un artista di esprimersi e al pubblico di scegliere. Però il gusto del pubblico sta cambiando. Il country e il bluegrass sono pieni di stereotipi; ad alcuni basta ascoltare un banjo e un mandolino per andare in sollucchero ma la vera musica popolare è un’altra cosa. È fatta di anima, sudore, passione anche quando tratta temi scherzosi e allegri. È arte e ironia, satira e tragedia come in Froggie Went A Courtin’. Certo country in America è per le radio ciò che un tempo era la disco music. Il rock è più onesto, più sincero, ma il country, insieme al blues, è la colonna portante della nostra cultura, non dobbiamo dimenticarlo neppure per un attimo.

E quindi quali sono le vostre radici?

Prima di tutto la Carter Family, una straordinaria famiglia che ha inventato la musica popolare e l’ha portata in vetta alle classifiche. Poi Johnny Cash, un vero eroe americano passato attraverso il dolore, la sofferenza, la dannazione, uno che ha sempre difeso i perdenti, come Hank Williams, il dannato del country. Ma anche altri personaggi come Fiddlin’ John Carson, Jimmie Rodgers, Bill Monroe hanno poco a che vedere con la visione paradisiaca di certo country nashvilliano. Naturalmente amiamo Bob Dylan e gli arpeggi magici di James Taylor e, perché no, persino la vitalità di Michael Jackson. Tutte queste influenze modellano il nostro spirito: quello di una rock band che suona country e non viceversa. Questo è il segreto.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!