Quando si è seduti nella hall sfarzosa del Four Season, a due passi dalla strada fashion per eccellenza di Milano, via Montenapoleone, possono farsi vive decine di pensieri. Il più insistente è che davanti all’ingresso dell’albergo, anziché una folla rumorosa di skater tatuati, se ne sta un nugolo sparuto di fanciulle adolescenti in prudente attesa. Ne consegue che è facile, quanto meno a livello inconscio, sperare che i quattro Peppers appaiano di colpo alla conferenza stampa ricoperti di vernice dorata, un calzino ad avvolgere le proprie vergogne, e pongano termine a quest’atmosfera formale. Non andrà esattamente così, ma per il momento ci si può accontentare di recitare il ruolo di osservatore distaccato.
Il primo a presentarsi è Chad Smith, occhialini scuri tondi, coppola e gessato da perfetto gangster anni 30; seguono Flea e John Frusciante: jeans e maglietta il primo, a coprire i celebri tatuaggi, camicia indiana e sguardo ultraterreno il secondo. Di Anthony Kiedis non c’è ancora traccia; poi, richiamato dalle risate e dagli applausi, ti accorgi che il cantante è andato a sedersi in prima fila tra i giornalisti, alza la mano diligente e chiede, in un italiano volenteroso ma stentato, del nuovo doppio album dei Red Hot, Stadium Arcadium. “In questo momento mi sento come il presidente iraniano!” si sente in dovere di rispondere Flea, mentre Kiedis guadagna la sua postazione accanto ai compagni. Ora che l’aria in sala si è fatta più distesa, i quattro californiani possono rispondere più seriamente – ma non troppo – alle domande della stampa italiana, mostrandosi da subito ben disposti. Scarabocchiano sui fogli, si ascoltano l’un l’altro parlare, spesso aggiungono, puntualizzano e integrano le risposte col proprio personale punto di vista; Frusciante, in particolare, pare il più lieto ed entusiasta: John è impaziente di spiegare e spiegarsi, fissa negli occhi il suo interlocutore e, quando il suo sguardo sembra perdersi in particolari invisibili ai più, in realtà è attento alla traduzione italiana e all’onomatopea delle parole. “La nostra voglia di pubblicare un disco doppio proviene da tanti luoghi e motivi diversi” esordisce. “Ma tutto sommato mettersi al lavoro sul nuovo album non è stato differente dal passato: in sostanza si tratta sempre di ritrovarsi insieme, recepire l’energia e il feeling che si sviluppa tra di noi e riversarlo nella musica. Ho trascorso molto tempo a studiare, suonare e provare cose diverse (ora la giornata ideale di Frusciante prevede non meno di cinque ore in compagnia della 6 corde, oltre a un paio d’ore da dedicare alla meditazione, nda). L’aspetto più divertente è, naturalmente, provare con Flea, Anthony e Chad. C’è una forza che muove la band fin dall’83. Sfruttando quest’energia riusciamo a comporre senza sforzo: quando mi viene in mente un’idea da proporre agli altri sto già pensando all’insieme, a come per esempio le mie parti di chitarra andranno a legarsi con quelle del basso di Flea. Nessuno all’interno del gruppo è responsabile di una canzone in misura maggiore degli altri”.
Insistere sull’armonia che regna sulla band oggi è uno sforzo consapevole, volto a mettere a tacere quelle voci, trapelate dopo l’uscita dell’ultimo By The Way nel 2002, che volevano Flea e lo stesso Frusciante in rotta per il controllo creativo e la leadership del gruppo. “Per il nuovo album abbiamo creato ad hoc un ambiente in cui trovarci per essere creativi (una villa sulle colline del Laurel Canyon a L.A. chiamata Houdini Mansion, di proprietà del produttore di fiducia Rick Rubin, dove 15 anni fa era stato realizzato l’epocale BloodSugarSexMagik, nda). L’incoraggiamento reciproco è un elemento che si è rivelato fondamentale per la buona riuscita del nuovo album: abbiamo imparato a sottolineare gli aspetti più positivi di ognuno di noi, l’amore e l’amicizia e la tolleranza, saper dare maggior rilievo alla nostra forza anziché alle nostre debolezze” spiega il chitarrista. “È naturale che a volte ci siano delle tensioni tra di noi” interviene Anthony “ma se esse si trasformano in uno stimolo artistico, senza che avvelenino l’ambiente, non posso che reputarlo un fatto positivo. Abbiamo preso coscienza che c’è una sorta di magia cosmica tra di noi, che abbiamo imparato a interpretare e sfruttare al meglio. Godiamo insieme di tutte le cose belle che ci capitano ogni giorno: i nostri affetti personali, la musica, la sintonia con i paesaggi che ci troviamo ad ammirare.”.
In effetti, prendendo in considerazione la discografia dei peperoncini, è agevole notare come i quattro abbiano ottenuto i risultati migliori quando coesione e alchimia interna erano percepibili già da un ascolto superficiale. Non si può dire lo stesso del sopramenzionato By The Way, tanto meno di quell’One Hot Minute che, complice la presenza dell’ex Jane’s Addiction Dave Navarro, probabilmente spostava il loro spettro sonoro verso orizzonti troppo distanti dal dna del gruppo. BloodSugar costituisce ovviamente la proverbiale eccezione che conferma la regola, valore artistico dell’album a parte; all’epoca i Peppers, sotto la tutela di Rick Rubin, erano riusciti a mettere a buon frutto anche i propri demoni personali che, invece, si sarebbero rivelati ingestibili di lì a breve con l’abbandono di Frusciante. “La mia interpretazione di questa band è che non ci siamo mai chiesti o imposti niente” spiega Kiedis. “Siamo sempre stati aperti a qualsiasi tipo di idea purché suonasse bene. Siamo stati una band diversa in diversi momenti storici, e quello che siamo oggi è il risultato di tutte le nostre diverse esperienze”. “Siamo ancora orgogliosi di One Hot Minute” aggiunge Flea “ma con John siamo una band completamente diversa. Allora eravamo ancora in cerca di una nostra identità e della giusta connessione tra di noi”.
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Stadium Arcadium, quindi, non può che essere visto alla stregua di un approdo felice, la (temporanea) conclusione di un percorso più che ventennale in cui il gruppo ha esplorato musica nera (il funk), cultura urbana di strada con le sue lusinghe e le sue problematiche (il punk e l’hip-hop), melodia e buone vibrazioni (il pop californiano); ognuno di questi aspetti trova spazio adeguato e paritetico nel nuovo, torrenziale album del gruppo. I brani migliori (Dani California, Snow, Slow Cheetah, solo per menzionare alcuni fra i diademi di una collana composta da 28 perle) sono proprio quelli in cui queste differenti matrici si sposano con un’armonia musicale e filosofica solo a tratti emersa in passato e non sempre in modo così lampante. A riguardo, Kiedis possiede una spiegazione “cosmica” tutta sua, che ha a che fare con influsso dei pianeti, pace interiore ed empatia umana: “Ora ci sentiamo molto influenzati, in sintonia e fortemente legati al grande disegno invisibile del creato (Anthony lo chiama “the big unseen picture”, nda) di cui siamo consci artisticamente e che ha molteplici effetti su chi siamo oggi come persone. Marte è il pianeta della guerra, Giove quello della saggezza (i due cd che compongono Stadium Arcadium sono sottotitolati con il nome dei due pianeti, nda). Abbiamo avuto la necessità fisica di dividere il materiale in due album separati, ma non volevamo che risultassero un disco numero 1 e 2, perché sono complementari l’uno all’altro”. Stadium Arcadium non mette solo in contatto simbiotico le diverse anime dei Chili Peppers, ma offre anche un’interpretazione universale e trascendente della storia della musica rock. John espone la sua teoria maneggiando le parole con cura, quasi si trattassero di note da piegare alla propria volontà: “Per me la musica è una possibilità che esiste a priori, indipendentemente da chi la esplora per primo. Credo che nessun artista sia davvero responsabile in prima persona delle idee che si trova a sviluppare. Ad esempio, secondo me già all’epoca di Robert Johnson esistevano a livello di mera possibilità teorica e sprituale il blues elettrico o i Led Zeppelin. Quando ho cominciato a incidere questo disco, ho smesso di pensare a Hendrix, Page, ai Funkadelic come ai Kinks, e ho cominciato a considerarli come pure possibilità che fluttuavano in aria nello studio. Tra l’altro, all’inizio delle registrazioni ero molto coinvolto da cantanti R&B e hip-hop, ma il sound della chitarra si è orientato da sé verso direzioni hendrixiane, senza che fosse influenzato direttamente dai miei ascolti del periodo. Non mi era mai capitato prima”.
Queste parole suggestive troveranno conferma in una recente lettera di Flea comparsa sul sito ufficiale del gruppo, in cui questi si rammarica dell’apparizione su alcuni siti Internet, alcuni giorni prima della pubblicazione dell’album, di una versione pirata di Stadium Arcadium; il bassista si dice addolorato del fatto che, dopo un anno e mezzo speso nella cura di ogni minimo, maniacale dettaglio, la gente possa ascoltare una versione parziale e per nulla rappresentativa dello sforzo compiuto dal gruppo, così come è certo di farsi portavoce del pensiero di Kiedis, Frusciante e Smith a proposito.
Di parole, a volte, se ne spendono troppe, specialmente in un ambiente fittizio e aleatorio come quello del music biz, e spesso sono gli stessi addetti ai lavori – stampa inclusa, è ovvio – a fomentare dinamiche estranee alla musica sotto il profilo ideale. Eppure qualcosa di impalpabile razionalmente sembra resistere, nascosto dietro le quinte: nonostante il ricordo dei soffitti affrescati di un albergo di lusso, a dispetto della Grande Sorella Mtv che riprende il concerto milanese della band, incurante dei buttafuori sgarbati e inutilmente inflessibili dell’Alcatraz, il grande disegno di cui parlava Antony il giorno prima pare di intravederlo, mentre Frusciante si agita sul palco come un ragazzino a cui hanno appena regalato una nuova chitarra, quando Flea offre un campionario delle sue specialità virtuosistiche – e delle sue smorfie inimitabili -, quando lo stesso Kiedis si ricorda che essere un frontman di successo significa anche cantare con attenzione e partecipazione.
Forse il grande disegno invisibile è proprio questo.