27/03/2007

Richard Ashcroft

Con gli occhi d’un bambino

Con gli occhi blu immensi sul volto un po’ meno scavato del solito, Richard Ashcroft parla delle sue tante sfaccettature e della sua ricerca esistenziale ed artistica che l’ha portato ad approdare, già con Alone With Everybody, nel luogo della migliore tradizione cantautorale britannica. Ancora senza rinnegare una visione psichedelica della vita che ora è soprattutto una profonda consapevolezza della condizione umana, nel nuovo album Human Conditions il mitico ex cantante dei Verve osserva il mondo dal territorio privilegiato di una pace finalmente ritrovata all’interno delle mura domestiche, nella sicurezza di relazioni umane sincere e nutrienti, ispiratrici di serene e incantevoli canzoni capaci di far vibrare le corde interiori dell’anima ‘popolare’. Umile e disincantato rispetto all’hype che lo circonda e rispetto a tutti i ‘fenomeni’ musicali in generale, Ashcroft ha preso la follia ‘ecstasiata’ della sua generazione e l’ha trasformata in poesia. Se non è arte questa.

 

Due anni fa quando era uscito Alone With Everybody si era detto che la tua vena cantautorale fosse dovuta alla pacatezza acquisita con il matrimonio e con la nascita di tuo figlio. Si può dire lo stesso per Human Conditions?
Quella è stata una storia montata dalla stampa che voleva legittimare in qualche modo il fatto che avessi lasciato la psichedelia dei Verve per tonalità più acustiche. In realtà mio figlio nacque poche settimane dopo la fine del primo album, quindi quest’ultimo lavoro è più influenzato dalla paternità del primo. Human Conditions è un disco sulla sicurezza, non soltanto quella della mia famiglia ma di tutto il genere umano. Quando guardo negli occhi la gioia innocente di mio figlio mi sento felice perché ho una relazione che funziona, poi mi chiedo perché intorno a me il mondo pare impazzito. Le canzoni di questo album vogliono dare alla vita un’altra chance, la possibilità di ricominciare ogni volta di nuovo con un candore infantile.

Infatti la sottile vena malinconica di alcuni brani pare rischiarata da una luce aurorale.
La maggior parte delle liriche che ascolto in giro sono parole vuote che non toccano il cuore delle persone; io volevo invece condensare delle frasi che potessero restare con l’ascoltatore, fargli compagnia, farlo riflettere; sono liriche che ci riguardano tutti perché parlano della condizione umana.

Quindi la composizione dei pezzi ha privilegiato le parole?
Non proprio. La musica è sempre più potente perché sollecita la parte inconscia della psiche e cattura istintivamente anche coloro che canticchiano i testi senza meditare sul loro significato. Di solito una certa melodia incomincia a martellarmi il cervello e mi perseguita finché non la sviluppo trasformandola in canzone; altre volte i brani nascono come se fossero già scritti da qualche parte e io divento soltanto lo strumento della loro manifestazione. Human Conditions è molto curato musicalmente e questo è anche merito del coproduttore Chris Potter che mi ha aiutato a definire meglio la mia vena intimistica. Con il tempo la mia voce è diventata più profonda e quindi ho bisogno di creare un certo letto sonoro slegato da ogni peculiarità strumentale per metterla in risalto.

I tuoi testi sono sempre minimalisti ed ispirati dalla vita di tutti i giorni…
Ho sempre pensato che un buon brano potesse essere ispirato tanto da William Blake quanto dal gesto di prendere il latte dal frigorifero la mattina. Ora vivo in campagna, ma la mia creatività risente ancora molto del riverbero della mia esperienza londinese. Mi piace prendere il taxi la sera quando torno dallo studio di registrazione e interrogare il taxista sul suo dio, sul significato che dà alla propria vita. È la mia missione scoprire in che cosa le persona credono e perché.

È un argomento di grande attualità dopo l’11 settembre.
Quando avevo undici anni persi mio padre e a quell’età affrontare la morte può essere sconvolgente. Incominciai a vivere a briglie sciolte, a vagare come un pazzo perché sentivo che il tempo sarebbe stato sempre e comunque troppo poco. Se non avessi avuto la musica come strumento per incanalare lo sgomento che era in me non mi sarei salvato. Poi il mio patrigno mi introdusse alle filosofie orientali e sollecitò il mio interesse per gli stati alterati di coscienza che sperimentai ampiamente con i Verve. L’incontro con il patrigno di mia moglie, un psicologo comportamentista, mi aiutò poi ad avere un approccio più razionale nei confronti della vita e tuttora mi ritengo abbastanza materialista; dopotutto sono un figlio degli anni Ottanta anche se da adolescente mi davano dell’hippie. L’11 settembre per molta gente è stato il momento brusco del risveglio dove ci si rende conto dell’esistenza della ‘realtà ultima’; per me il momento del disincanto avvenne molto tempo fa e per questo ritengo una farsa i valori imperanti del business e del profitto. Se oggi Gesù Cristo fosse vivo sarebbe già stato strumentalizzato commercialmente.

Ti rendi conto di essere tu stesso una rockstar?
Io sono soltanto una persona che cerca di esplorare le varie parte di sé e che per far questo è disposta a morire e rinascere più volte; sono un cantautore che cerca di comunicare emozioni sincere con la musica e che ama la sua famiglia. Il resto sono tutte decisioni politiche su cui non ho controllo. Io non credo nei movimenti collettivi ma in quelli che avvengono individualmente dentro ciascuno di noi; per questo ci tengo a comunicare e a smuovere con la potenza della musica e delle parole.

Perché hai voluto la voce di Brian Wilson per Nature Is The Law?
Sono sempre stato un grande fan dei Beach Boys e di Brian ho sempre stimato la tecnica, l’abilità in studio, l’attenzione per i dettagli. Avevo quel brano quasi finito che mi faceva pensare all’oceano e di conseguenza, a Wilson e a suo fratello che mi aveva folgorato con l’album Pacific Ocean Blue. Mi misi in contatto con Brian, il quale chiaramente non sapeva chi fossi, ma non appena ascoltato il pezzo, si disse entusiasta di collaborare con me. Gli ho lasciato totale libertà, quindi Nature In The Law è molto simile a lui.

Tu invece hai cantato in The Test dei Chemical Brothers.
Avevo appena finito di lavorare con Dj Shadow, l’artista più ispirato che c’è in circolazione nel suo genere, un vero pioniere. Mi chiamarono i Chemicals per quel pezzo di cui io non avevo pronte né le liriche, né le melodie e che quindi improvvisai in studio. Mi uscì: “I’ve almost lost my mind but I’m home and I’m free” nel senso che il periodo in cui cercavo la libertà in esperienze estreme mi aveva quasi fatto impazzire, ma ora per me la libertà era chiudere la porta di casa e sentirmi al sicuro con la mia famiglia. E ancora: “Did Richard pass the acid test?”, da cui abbiamo preso il titolo.

Allora, l’hai passato l’acid test?
Sì. Gli anni Novanta sono stati acidi e folli ma ora sono approdato ad un territorio diverso, più riflessivo, da dove riesco ad osservare meglio me stesso e le human conditions.

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