Una disperata vitalità
di Cesare G. Romana
Il mio primo incontro con Fabrizio De André fu nel segno d’un ritmo e, più curiosamente, d’un aroma. Il ritmo era quello ostinato del bolero, il bolero di Marinella morta per amore e assunta in cielo. L’aroma era quello dell’inimitabile frittata ligure, il cui segreto appartiene da secoli alle donne del nostro entroterra, che possiedono pure il segreto della musica – l’armonia che contrappunta le molte varianti del verde e la sinfonia dei sapori – e il mistero plebeo della poesia fatta gusto, e nutrimento.
Fabrizio sedeva alla sua scrivania, nella scuola dov’era impiegato, nel ponente di Genova. Un bicchiere di vino e una fetta di frittata erano tutto il suo pranzo. “Sa, guadagno 70mila lire al mese, ho famiglia e di dischi ne vendo pochi”, spiegò. Mangiava senza fretta, assaporando. Gli chiesi del suo lavoro e lui mi recitò il testo della Canzone di Marinella, appena uscita su un 45 giri “reperibile”, specificò, “in un negozio su cinque, come tutti i miei lavori”. Era il ’64, proprio quarant’anni addietro: sarebbero occorso un lustro, prima che il suo nome svettasse in cima alle classifiche, e il professor Giuseppe, alunno di Croce e manager di successo, potesse dire: “Fino a ieri Fabrizio era, semplicemente, il figlio di De André. Oggi tocca a me, esser definito il padre di De André”.
“C’era la luna e avevi gli occhi stanchi / Lui pose le sue mani sui tuoi fianchi”, declamava Fabrizio con la sua voce di velluto dorato. Gli chiesi dove avesse preso lo spunto, e lui: “Ho letto su un giornale d’una prostituta, ammazzata da un cliente e gettata nel fiume”. Da un fosco fatto di ‘nera’, dunque, era germogliata una dolcissima fiaba: bel segnale di bonomia intellettuale, gli dissi. Lui reagì con l’autoironia, cui ricorreva quando un complimento lo imbarazzava: “La prima stesura era molto più torbida”, ridacchiò, “poi l’ho riscritta: sono soltanto uno studente di giurisprudenza, non abbastanza famoso, né ricco, da affrontare un processo per pornografia”. Il che gli accadde, invece, con Carlo Martello: ma fu assolto da un pretore che era un suo fan, checché ne racconti Paolo Villaggio, coautore del brano.
Più avanti Mina cantò Marinella, prima su disco e poi in tivù. Eravamo in casa De André, quando Giampiero Reverberi ci portò l’album appena uscito. Lo ascoltammo in un silenzio claustrale, poi Fabrizio si schiarì la voce, lasciò defluire l’entusiasmo e sentenziò, perché la commozione non gli prendesse la mano: “Mina è straordinaria, non meritavo tanto. Ma l’arrangiamento? Augusto Martelli ha preso la mia musica e ne ha fatto un valzerone campestre”. E tuttavia sostenne, per anni, che era stata Mina a schiudergli la via del successo, come se il suo talento non vi avesse avuto alcun ruolo: “Da quando lei cantò Marinella”, diceva, “ho potuto lasciare la scuola, rinunciare all’avvocatura e vivere di diritti d’autore, con sicuro vantaggio per i miei potenziali assistiti”. Ma non fu Mina, né la Canzone di Marinella a portare il nome di De André in vetta alle classifiche del ’68: al primo posto con Volume I, al secondo con Tutti morimmo a stento.
All’ignota bella di notte, uccisa da un amante troppo focoso, resta tuttavia il merito d’avere ispirato, al più grande tra i nostri cantautori, la sua pagina più famosa: non la più densa, e nemmeno la più amata dal suo autore. “Quando la canto, nei concerti, scroscia l’ovazione, poi attacco Fiume Sand Creek o Smisurata preghiera, e gli applausi si dimezzano”, lamentava, senza riuscire a darsene conto. Perché in fondo c’è, fin dall’adolescenza, una doppia anima, nel ragazzo che a 14 anni scopre Brassens, e da qui risale a Baudelaire e a Villon, e dalla musica ascende alla poesia per predestinazione genetica, ché “la mia famiglia ha le sue radici in Provenza, terra di trovatori”. C’è l’anima più intimista, quella del menestrello che canta l’amore in Per i tuoi larghi occhi, Barbara, Amore che vieni amore che vai, La canzone dell’amore perduto e appunto La canzone di Marinella: il fragile poeta che, se non avesse scritto ben altro, ricorderemmo come uno dei tanti, ottimi autori di pagine sentimentali – qualche gradino sotto il Prévert di Les feuilles mortes o il Paoli di Senza fine. Poi, però, c’è il grande poeta civile, che racconta rabbie e sgomenti collettivi da La guerra di Piero a Storia d’un impiegato, da La canzone del maggio ad Anime salve: ed è il De André più grande, il cantore fedele di “Signora Libertà, signorina Anarchia”, tuttora presente, sei anni dopo la morte, nelle nostre coscienze e nel nostro rimpianto.
Né è forse un caso che Fabrizio, tra i grandi cantautori italiani, resti il più amato dal popolo del rock. Pur non essendo, a quel mondo, mai appartenuto, ma avendo in comune, col rock, quella che Pasolini, maestro da lui amatissimo, chiamava “una disperata vitalità”: la vocazione ribelle, la contiguità solidale e orgogliosa con gli sconfitti, il senso fecondo e cocente della marginalità.