03/06/2008

RIPORTANDO TUTTO A CASA

Jakob Dylan

“Noi figli andavamo sempre in tour con lui. Vedevo gente, eroi musicali della mia vita, sciogliersi letteralmente quando venivano presentati a lui. Vidi queste scene più e più volte. Poco a poco cominciai a capire il motivo”

Roma, Palaeur, giugno 1991. La porta del camerino di Bob Dylan mi si chiude sul naso – avete presente la scena di Quasi famosi in cui al protagonista, giornalista alle prime armi, viene sbattuta sul muso la porta di accesso al backstage e la truppa di groupie viene allegramente lasciata entrare? Il corpulento addetto alla security mi guarda come un povero cretino e dice: “Nel camerino di Bob entrano solo donne”. La ragazza che era con me, in effetti, entra tranquillamente.
Due giorni dopo sono a Milano e ancora una volta riesco a intrufolarmi in un modo o nell’altro nel backstage dell’allora Palatrussardi, in attesa che arrivi il cantautore americano. Arriva, e si infila immediatamente nel camerino. Mentre cazzeggio nel retropalco quell’addetto alla security di cui nel frattempo sono diventato piuttosto amico, a un certo punto mi indica un gruppo di ragazzi che bevono e ridono a voce alta, come qualunque gruppo di ragazzi al mondo. Me ne indica in particolare uno, dai lunghi capelli legati con una coda di cavallo: “Sai chi è quello?” mi dice. “Non ne ho idea” rispondo io. “È il figlio di Bob, l’ultimo”. “E qual è il suo nome?” chiedo, fingendomi interessato, quando l’unica cosa che mi interessa è capire se esiste anche mezza possibilità di incontrare il padre. “Jakob” dice allontanandosi.
Più tardi, qualche minuto prima dell’inizio del concerto, approfittando di un momento in cui l’omaccione si allontana e Bob viene a sedersi tranquillamente da solo nel corridoio che porta al palco con una tazza di caffè in mano, riesco ad avvicinarmi al leggendario musicista, scambiare qualche parola e anche a guadagnare un simpatico abbraccio, tanto che da allora non ho più lavato la giacca che indossavo quella sera.
Durante il concerto quel ragazzo, Jakob, starà seduto a pochi metri da me. A differenza dei suoi amici che sono con lui e che si dimostrano decisamente disinteressati alla musica tranne quando, nel finale, viene eseguita Like A Rolling Stone e si mettono tutti a ballare, lui siede in silenzio guardando fisso l’uomo sul palco. Non ho idea che quel ragazzo ha anche lui una rock band, non ho idea che quella band si chiama Wallflowers e che esordirà giusto un anno e qualche mese dopo quella serata.
Non era la prima volta che Jakob seguiva in tour il proprio genitore. Lo ha sempre fatto, anche quando era troppo piccolo per rendersene conto: nel video del programma televisivo Hard Rain che documenta l’ultimo concerto del tour della Rolling Thunder Revue nel 1976, a un certo punto si vedono sul palco Sara Dylan e un gruppo di marmocchi che giocherellano ignari di trovarsi in mezzo a uno dei momenti musicali più sorprendenti dell’intero Novecento. Ha ricordato Jakob: “A parte essere uno dei miei genitori, questa persona era qualcuno che stava facendo il musicista a un livello molto alto da un sacco di tempo. Lo sapevo, ma improvvisamente mi interessai a lui non come a qualcuno della famiglia, ma come fossi uno studente di musica”.

“Non voglio essere una pagina in un libro. Ci sono una infinità di biografie e in ognuna di esse c’è almeno una pagina che menziona il nome dei suoi figli”

Cinque anni dopo anch’io sono interessato a Jakob Dylan, non come “il figlio del grande Bob”, ma perché ottimo musicista. Adesso conosco anch’io quella band, i Wallflowers. È da poco uscito il secondo disco, Bringing Down The Horse. È il 1996 e ancora nessuno sa se questo disco sarà un flop come l’esordio (di quattro anni prima) che li aveva visti scaricati bellamente dalla loro casa discografica, la Virgin, o quel grande successo che poi si sarebbe dimostrato.
L’eponimo disco di debutto mostrava un gruppo di ragazzi poco più che ventenni che in piena esplosione grunge (erano i giorni di Smells Like Teen Spirit, per intenderci) cercava di recuperare l’epopea classica dei primi anni 70, con canzoni lunghe anche 6 minuti, tutte grondanti note grasse di organo Hammond e con una voce ricca di soul. “Sam Cooke non sa le cose che so io”, avrebbe cantato il frontman dei Wallflowers in una loro canzone anni dopo. Si sarebbe beccato gli sfottò di qualche critico illuminato tipo Greil Marcus, a cui sarebbe invece sfuggito il senso profondo di quella frase, che era esattamente l’opposto di una presuntuosa dichiarazione. E cioè: io sono il figlio di una generazione che ha cambiato il mondo, che ha fatto la più bella musica del Novecento, ma il mondo in cui vivo io è diverso. È un altro. Ma lo voglio cantare con la voce di Sam Cooke, se posso, perché è lì che voglio tornare.
Il disco si chiudeva con una traccia, Asleep At The Wheel, eseguita da Jakob in totale solitudine, voce e chitarra acustica. Non lo avrebbe più fatto fino all’uscita di Seeing Things.
Intanto Bringing Down The Horse era destinato a vendere in meno di un anno 4 milioni di copie, il doppio di quanto Blood On The Tracks, uno dei grandi dischi di suo padre, ha venduto in circa trent’anni dalla sua uscita. Jakob sarebbe diventato una star in proprio e non avrebbe più sentito qualcuno urlare ai suoi concerti: “Suonaci All Along The Watchtower” o visto i promoter attaccare con lo scotch, sopra la locandina dei concerti che annunciavano i Wallflowers, “featuring Bob Dylan’s son”. Quel disco, prodotto da una vecchia conoscenza del padre, T-Bone Burnett, uno dei protagonisti della Rolling Thunder Revue, è un piccolo capolavoro. Fosse uscito negli anni 70 sarebbe oggi un classico. Non c’è una canzone brutta, il songwriting di Jakob è sbocciato d’incanto con melodie piene di fascino e malinconia e con grintose cavalcate rock.
Quella mattina c’era stata una conferenza stampa (a cui non avevo preso parte, dovevo intervistare Jakob da solo, nel pomeriggio) e mi dissero i discografici che le domande del tipo “Ma tuo padre cosa ne pensa dei tuoi dischi” si erano sprecate, irritando non poco il giovane Dylan. Il nostro incontro fu invece molto piacevole. Evitai naturalmente domande sul padre, anzi strategicamente mi presentai accompagnato da una avvenente ragazza, giusto per metterlo di buon umore. Si dimostrò piuttosto guardingo, di non molte parole, ma comunque socievole, e sempre più rilassato quando capì che non sarebbero arrivate domande su Mr. Tambourine Man. Era assomigliante al padre – quando aveva la stessa età – in modo inquietante. Specialmente quegli occhi azzurri ghiaccio che, come suo padre quando lo avevo incontrato cinque anni prima, ti scrutavano fin dentro l’animo.

“La sua storia non dipende in alcun modo dalla mia. Quelli della sua generazione, che siano Neil Young o Willie Nelson, hanno raggiunto una posizione grazie alla quale possono fare ciò che vogliono. Loro rimarranno per sempre. Ce l’hanno fatta”

Quattro anni dopo ci sentiamo via telefono per una nuova intervista. Nel nuovo disco dei Wallflowers c’è una canzone, Hand Me Down, che in modo bizzarro sembra scritta dal punto di vista di un figlio che parla al padre dicendogli quanto lo ha deluso. “A questo punto della mia carriera” mi dice “non mi importa più nulla di quello che la gente pensa di eventuali messaggi nelle mie canzoni. Possono leggerci quello che vogliono. Sto parlando di mio padre? No, non è vero, ma se uno vuole pensarlo, faccia pure. In passato mi censuravo da solo per evitare che la gente pensasse ciò, adesso non mi interessa più”. D’altro canto, perché dovrebbe mai dire che suo padre l’ha deluso? Una volta a un giornalista che insisteva a chiedergli cosa aveva voluto dire crescere con un padre che si chiama Bob Dylan, Jakob aveva risposto piuttosto indispettito: “Guardami, ti sembro uno che ha dei problemi mentali? Mi sembra di essere la dimostrazione di uno che è cresciuto in un ambiente sano”.
Grazie al successo di Bringing Down The Horse, Jakob Dylan è diventato, come lo ha definito una rivista americana, “a rock god on the rise”. Ha duettato con Bruce Springsteen. Ha aperto per Who e Stones. Ha vinto ben due Grammy, lo stesso anno che suo padre, con il disco Time Out Of Mind, se ne aggiudicava altrettanti. I fan dei Wallflowers manco sanno di chi è figlio e non gliene può fregare di meno: “Bob Dylan è solo uno dei tipi di cui devo leggere nel mio corso di studi sociali” ha detto una volta una fan dei Wallflowers a Rolling Stone. Nei gruppi di discussione dedicati ai Wallflowers su Internet non si parla mai del vecchio. I fan di Bob, viceversa, non hanno mai apprezzato il giovane Dylan: “Troppo pop, troppo commerciale” hanno sempre commentato dall’alto del loro snobismo intellettuale. Questa volta posso perfino a spingermi a chiedergli dello stato di salute di suo padre e lui ne parla volentieri.
Nel tempo che è trascorso tra Bringing Down The Horse e il successivo Breach, Bob Dylan è stato sul punto di morire per una infezione al cuore. “Sta bene, sta bene” mi dice. “È sempre on the road, a lui piace suonare il più possibile, fare le cose in modo semplice, esibirsi anche in piccoli posti, ma poter suonare il più lungo possibile. La gente dovrebbe essere consapevole che non avremo sempre questo tipo di persona. Dovremmo essere solo orgogliosi del fatto di vivere nella stessa epoca in cui queste persone sono vive”.

“Non siamo cresciuti con i dischi d’oro appesi alle pareti di casa. Nelle case dei miei amici ce n’erano dappertutto, te li sbattevano davanti al naso. Noi non abbiamo mai avuto quella roba. Era sottointeso che non avrei dovuto averne paura”

Nel 2002, circa sei anni dopo lo smashing hit Bringing Down The Horse, i Wallflowers non godono più dello stesso successo. L’ultimo disco, Breach, non ha venduto neanche un milione di copie e quello che stanno presentando adesso, Red Letter Days, venderà ancora meno. L’approccio musicale della band è piuttosto cambiato. Suonano moderni, adesso. Il che non vuol dire che le belle canzoni siano venute meno, ma certamente il sound strizza l’occhio alle radio di facile ascolto e a canali televisivi come Mtv.
Jakob è di nuovo a Milano e abbiamo appuntamento per una nuova intervista. Due notti prima è nata la mia seconda figlia e mi presento evidentemente in stato catatonico tale che mi dimentico che Jakob non ha mai detto in pubblico il nome dei suoi tre figli, avuti dalla moglie, ex compagna del liceo e adesso anche attrice. Dopo avergli detto della mia secondogenita, mi parla invece di sua iniziativa della sua famiglia, dandomi, in una sorta di scoop che mi sono sempre tenuto per me, i nomi dei tre figli e la loro età. Non lo aveva mai fatto prima per proteggerne la privacy. Resto un po’ perplesso: il primo nato si chiama Elvis.
Elvis Dylan? Beh, non manca il senso dell’umorismo al ragazzo (da archiviare nello stesso file: i dylanologi sapranno bene che l’unico Beatle con cui Bob Dylan ebbe un vero rapporto di amicizia con lui incidendo e scrivendo canzoni fu George Harrison; l’anno scorso, per la compilation pro vittime del genocidio in Darfur, Jakob pensò bene di incidere un duetto con Dhana Harrison, figlio dello scomparso George). Che ormai ragazzo non è più: è un uomo che non si cura di non essere più ai vertici delle classifiche, ma di una cosa sola, la sua musica. “L’unica cosa che mi interessa è scrivere delle canzoni di cui essere orgoglioso per il resto della mia vita”.
Più tardi mi dirà che il momento più bello della sua adolescenza fu quando riuscì a vedere i Clash in concerto. Su un giornale una volta avevo letto che suo padre non aveva mai commentato i suoi gusti musicali, tranne lanciargli dei messaggi piuttosto obliqui. Ad esempio quando Jakob lo trovò intento a leggere in modo dettagliato le note di copertina del suo disco preferito, London Calling, un modo per fargli capire senza dirglielo che anche lui lo apprezzava.

“Ogni cosa sembra ruotare sempre intorno a questi quattro soggetti: Dio, il tempo, l’amore e la morte. Non direi mai di essere una persona filosofica, sarebbe davvero presuntuoso. Ma è di queste cose che mi viene spontaneo scrivere”

Per quello che è stato, a tutt’oggi, l’ultimo disco con i Wallfowers, Rebel, Sweetheart del 2005, l’interesse della casa discografica è talmente poco che questa volta Jakob non solo non viene in Italia, ma non rilascia neanche interviste telefoniche. Peccato, perché, dopo Bringing Down The Horse, è il disco migliore del gruppo. Prodotto da Brendan O’Brien, ha il suono più garage ed eccitante che il gruppo abbia mai avuto, con i riferimenti allo Springsteen di fine anni 70 che si sprecano, ma soprattutto approccia al ruolo da singer-songwriter grazie al quale può fare tranquillamente a meno di una band dietro le spalle.
Here He Comes (Confessions Of A Drunken Marionette) è una delle sue composizioni più ambiziose e fascinose di sempre, e quando la ascoltai per la prima volta pensai che per Jakob il tempo di esordire senza un gruppo dietro cui nascondersi era ormai alle porte. E rispecchia anche una inedita coscienza sociale: “Viviamo in tempi” dice in una intervista del periodo “in cui il mondo potrebbe esplodere da un momento all’altro. Credo che gli argomenti che possono ispirare una canzone oggi sono eccitanti come lo erano a metà degli anni 60, quando sentivi che c’era qualcosa nell’aria”. Ecco allora una canzone come Days Of Wonder, che affronta temi scomodi come la guerra in Iraq.
Le vendite sono anche questa volta scarse, nell’ordine di poco più di centomila copie. Nel 1997, rispondendo a una domanda di Newsweek sul grande successo commerciale di Bringing Down The Horse, Jakob aveva detto: “Le pop star di oggi… fra un anno o due non ti ricorderai neanche più il loro nome. Fra cinque anni, saranno cancellate dalla storia”. Di anni ne sono passati un po’ più di cinque, ma sembra che i Wallflowers abbiano subito anche loro quella sorte. E poi dicono che i Dylan non sono dei profeti.
Di fatto, nel 2007, con una svolta inaspettata, il musicista si imbarca come opener in un tour con l’amico di famiglia T-Bone Burnett. Ma questa volta non c’è nessuna band con lui. Imbraccia una chitarra acustica e sale sul palco. Su YouTube appaiono i primi video e vederlo alle prese con brani come il già citato Drunken Marionette è più che uno shock. Non solo perché, se togli l’audio, sembra di vedere suo padre circa 1965, ma se poi l’audio lo metti puoi sentire le sue più intense, emozionanti performance di sempre. Parafrasando il titolo di una canzone di Bob Dylan, “you’re a big boy, now”.

“È stato come se lo studio non fosse esistito. Mi stava a cuore accompagnare una ad una le mie canzoni. Volevo che lo studio diventasse invisibile e che quell’assenza di sonorità diventasse il vero sound del disco”

Sia lode e gloria a Rick Rubin, ovviamente. L’uomo che ha ridato un senso alle parole “chitarra acustica”. L’uomo che ha aiutato a emergere dalle nebbie della crisi gente come Johnny Cash e Neil Diamond. L’uomo che “riduce il suono” (vedi box a pagina 32), ma soprattutto l’uomo che sa ridare fiducia agli artisti che produce. Perché tutti – ed è il caso anche di Jakob Dylan – arrivavano da situazioni artisticamente difficili se non compromesse. Incapaci di dialogare con la propria vecchia musa.
Ma lode sia anche all’artista che accetta di lavorare in queste condizioni, perché al cuore gli sta più l’importanza di una canzone che eventuali successi commerciali. “Rick Rubin” dice Dylan “è arrivato alla Columbia giusto in tempo. Mi trovavo in effetti a un punto morto. Ha subito intuito l’obiettivo che volevo raggiungere e ha creato i presupposti che mi dessero la libertà di realizzarlo”. Come già accaduto con Cash, anche Jakob ha registrato a casa del produttore.
Il risultato è Seeing Things, un disco di forte carattere, un disco robusto nella sua semplicità, un disco che è impossibile non coinvolga anche il più scafato degli ascoltatori. È un disco sensato, in questo ultimo scorcio della prima decade del terzo millennio, come lo fu più di venticinque anni fa Nebraska di Bruce Springsteen. “Volevo scrivere canzoni che suonassero come se esistessero da sempre, come se fossero state scolpite nella pietra, non realizzate in qualche studio chissà dove” ha detto.
Canzoni come l’iniziale Evil Is Alive And Well toccano aree musicali che Jakob non aveva mai avvicinato prima, e cioè il blues. Ancor più evidente in I Told You I Couldn’t Stop, l’unico pezzo che affianca alle chitarre acustiche una slide discreta e un lamentoso coro che porta direttamente nei campi di cotone del Mississippi. Si toccano aree musicali inedite con sorprendente autorevolezza: “In questo disco, dopo aver preso a riferimento per anni gli eroi della mia adolescenza come i Clash o Elvis Costello” dice “mi sono ispirato alla maestosità e al mistero dei maestri del country blues. Quella è la musica che ascolto oggi. Il vocabolario che utilizzo per il mio lavoro e al quale costantemente attingo”.
Bob Dylan qualche anno fa aveva detto: “Chiunque desideri essere un songwriter dovrebbe ascoltare quanta più musica folk possibile. Studiare la forma e la struttura di un materiale che è stato in circolazione per cento anni”. E ancora: “Se non sei legato alla tradizione, ciò che farai ti sfuggirà sempre di mano”.
Nulla sfugge di mano in Seeing Things. La semplice e armoniosa bellezza di un brano come Valley Of The Low Sun sembra avere cento e più anni, come se fosse stata composta a metà strada tra le Appalachian Mountains e Nashville, Tennessee. È dal cuore folk della sua America che nascono canzoni come questa, oppure l’intensa Will It Grow, uno dei pochi pezzi del disco invigoriti da una batteria di sottofondo.
È lo stesso percorso che Bruce Springsteen – altro modello imprescindibile per il Dylan dei Wallflowers – fece ai tempi del già citato Nebraska, quando, arrivato a un punto morto della sua carriera, dovette fermarsi ad abbeverarsi al grande fiume della tradizione americana. All Day And All Night potrebbe uscire proprio da un disco come quello. La tensione del blue collar hero, dell’uomo comune che affronta una vita fatta di fatica e duro lavoro per mantenere la famiglia, è una tensione che conduce alla dignità del proprio essere uomini, per scoprire quella “reason to believe” con cui Springsteen chiudeva il suo disco: “Ho lavorato al doppio turno per tutta la notte, la brava gente è sempre occupata, il mio posto di lavoro mi va proprio bene”. Ha un’etica forte a cui aggrapparsi, Jakob Dylan, la stessa che una famiglia come la sua si tramanda da generazioni, etica che emerge anche nella già citata Will It Grow, uno sguardo a tutte quelle persone che hanno costruito il suo Paese. Quell’etica che permette di guardarsi allo specchio ogni mattina senza paura, come nella deliziosa Everybody Pays As They Go, fingerpicking elegante che ricorda certe cose del Paul McCartney dei tempi del White Album. “È così che suonavano in fondo tutti i pezzi che ho scritto con i Wallflowers. Non avevo dubbi, volevo scrivere altre canzoni da suonare con quel tipo di prospettiva” ha detto il musicista.
Rispetto ad altri dischi di questo tenore prodotti da Rubin, che nonostante l’apparente semplicità ci infila sempre qualcosa in più delle sole chitarre acustiche – ad esempio un pianoforte, una tastiera o degli archi – Seeing Things è davvero minimale. Due chitarre acustiche che dialogano tra loro e solo in un paio di brani basso e batteria. In questo modo risplende tutta la bellezza ricca di trascendenza di brani come Something Good This Way Comes.
Sono tante le storie a cui Dylan dà voce in questo disco. In War Is Kind (che si collega idealmente a quella Days Of Wonder che appariva nell’ultimo disco dei Wallflowers) è un soldato che si rivolge a sua madre nel giorno che è simbolo stesso dell’essere americani, il 4 di luglio. “Non saprei davvero come scrivere senza trasmettere le sensazioni che si provano a vivere in questa epoca apocalittica e bellicosa” dice. “Ma non faccio una cronaca degli eventi in corso. Non trovo che fare riferimenti diretti o citare per nome particolari eventi sia particolarmente significativo, e neppure scrivere veri e propri racconti. Sono troppo coinvolto dalla bellezza della parola. Non importa di cosa si stia parlando: se davvero racconti le cose nel modo in cui le vedi non avrai mai rimpianti”.
Fu Springsteen a dire: “Le miei canzoni conoscono di me più di quanto io conosca il loro significato”. E se Jakob cerca la bellezza della parola, ci sta bene un Pasolini d’annata, a questo punto: “L’occhio guarda, per questo è fondamentale. È l’unico che può accorgersi della bellezza. La bellezza può passare per le più strane vie, anche quelle non codificate dal senso comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi reale”. Bellezza che chiude il disco in modo discreto con l’arpeggio folkie di On Up The Mountain. C’è ancora un brano, a dire il vero, The End Of The Telescope, ma quello suona come se Bob Dylan e Paul McCartney, vale a dire i maggiori compositori rock del Novecento, si fossero un giorno seduti a scrivere una canzone insieme. Riportando tutto a casa.

“Quello che mi piaceva dei gruppi rock quando avevo 12 anni era l’atmosfera da gang e la capacità di comandare il mondo”

L’avventura dei Wallflowers è dunque finita per sempre? Non esattamente, anzi il contrario: “I Wallflowers sono nati per esprimere un determinato sound e io avevo bisogno di qualcosa di diverso. Ho avuto la fortuna di avere una grande band e voglio continuare a realizzare dischi insieme a loro”.
Per un ragazzo che anni fa diceva di sapere le cose che Sam Cooke non aveva mai saputo, adesso c’è un uomo che può cantare quelle cose senza paura di essere ridicolizzato: “Mai prima d’ora avevo sentito la mia voce riecheggiare con un suono così particolare”. Riecheggerà a lungo, perché Seeing Things è un disco che è destinato a rimanere.
Jakob Dylan ha evitato per tutta la carriera ogni possibile identificazione con il padre, anche a costo di far incazzare una star come Dolly Parton, che un paio di anni fa lo aveva invitato a duettare con lei su Blowin’ In The Wind. La superstar della country music si è sentita rispondere con un gentile “no, grazie”. Dicono che si sia offesa non poco.
Adesso padre e figlio si ritrovano a camminare per le stesse strade senza nome. Quelle inforcate su Modern Times da Bob Dylan e quelle di Jakob in Seeing Things vanno nella stessa direzione, quella di un’America antica e ancora forte negli ideali che la costruirono. La loro devozione a virtù appartenenti a un mondo antico li identifica, virtù cancellate dal mondo della pop music moderna. Entrambi appartengono a “un tempo immemorabile”. Entrambi, stanno riportando tutto a casa.

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