16/05/2007

Rock Girls nel 2000

Quelle ragazzine dai capelli rossi
di Ezio Guaitamacchi

Non sono più soltanto il sogno proibito di Charlie Brown. Da Nicole Kidman e Julia Roberts in giù le ragazze dai capelli rossi stanno spopolando e almeno nella musica sono ormai accessibili a tutti.

Meno incazzate delle loro zie femministe degli anni 70 ma di certo più determinate, concrete e quindi, tutto sommato, più pericolose per i maschietti, queste rock girls del 2000 si stanno imponendo in modo inequivocabile. Chet Helms, d’altronde, è uno che la sa lunga e la sua dichiarazione sulla validità della musica al femminile corrisponde a realtà. Anche dal punto di vista commerciale: in America il sorpasso è ufficialmente avvenuto nel 1997. Da quell’anno in avanti il fatturato delle vendite discografiche di artiste donne è superiore a quello dei colleghi uomini. Ma a loro, alle ragazze, non ditelo: vi risponderebbero che “un genere al femminile non esiste: è come se voleste paragonare Bob Dylan a Jimi Hendrix o Miles Davis a Mick Jagger: cos’hanno in comune oltre al pisello?”.

Chi parla è Polly Jean Harvey da molti considerata la legittima erede di Patti Smith e quindi una sorta di nuova regina del rock. PJ ha ragione: l’industria (cioè i maschi) ha voluto sfruttare l’indubbia creatività femminile di fine millennio vendendola con un’etichetta sbagliata. Ma non ha fatto i conti con le protagoniste.

“Se una volta c’era solo Joni Mitchell che cantava con sensibilità femminile tematiche femminili viste da un’ottica femminile, oggi siamo in tante”, aggiunge Tori Amos, una rossa che non riesce a nascondere la propria fascinosissima sensualità neppure dietro un gigantesco pianoforte a coda.

“È tempo d’indipendenza”, tuona la romantica Sarah McLachlan, anche lei con riflessi rossastri nei capelli. E a questa dichiarazione fa seguire i fatti. È proprio questa dolcissima songwriter canadese ad avere nel 1997 un’idea brillantissima: vanno di moda i festival itineranti? Ebbene, ne creo uno di sole donne. E così nasce il Lilith Fair, una piccola Woodstock al femminile che per tre anni (con un successo straordinario) gira, in lungo e in largo, gli Stati Uniti prima e il mondo poi presentando ogni sera un cast formato dalle più intriganti protagoniste della scena musicale: da Emmylou Harris a Meredith Brooks, da Alanis Morissette (una che nei testi delle sue canzoni parla in modo esplicito) a Chrysse Hynde. Vecchie e nuove regine della musica si propongono a un pubblico eterogeneo unite dalla voglia di far musica e da una sensibilità tutta al femminile.

Agli uomini rimane, per ora, un solo primato: quello delle band. Per il resto le donne stanno facendo man bassa in tutti i filoni: rock, pop, jazz, blues, country, soul, alternative sono dominati da figure femminili. Le classifiche vedono sempre più ‘ragazze terribili’ ai vertici e anche secondo la critica le femmine stanno sbaragliando il campo: è Diana Krall il volto nuovo del jazz vocale, Lauryn Hill il vero idolo degli afroamericani, Angélique Kidjo la Mama Africa del 2000, Macy Gray la regina del nuovo soul. E se un’altra rossa travolgente (Shania Twain) ha riscritto le regole della nuova country music, sono tutte donne le portoghesi che rinnovano l’antica tradizione del fado: dall’incantevole Dulce Pontes fino a Cristina Branco, ultima rivelazione di una musica senza tempo.

Tutte, indistintamente, hanno coraggio da vendere. Tanto che alcune di loro (le folkettare Indigo Girls, la rocker Melissa Etheridge o la country-pop star k.d. lang) hanno fatto della loro esplicita omosessualità motivo d’orgoglio personale e tematica artistica per battaglie sociali. Non cadendo in quella trappola che per anni ha visto le rock girls presentarsi come bombe sexy, sfruttando (molte lo fanno ancora) una, per così dire, ‘spiccata personalità’…

A dire il vero una certa dose di coraggio le donne della musica l’hanno sempre avuta. Sin da quando Mamie Smith ha inciso a New York il primo disco di blues della storia il 10 settembre 1920 (per la cronaca: lato A Crazy Blues, lato B That Thing Called Love). O quando, pochi anni dopo, le prime regine della country music (Maybelle e Sara Carter) hanno dato alle stampe Single Girl, Married Girl, un brano che parlava esplicitamente dei problemi che le donne dovevano affrontare nella società di quei tempi. E che sottolineava il coraggio di Sara e Maybelle, sia come autrici (nessuno prima di loro aveva osato affrontare pubblicamente le problematiche famigliari del mondo femminile) sia come donne al tempo stesso madri e artiste.

Ma è la storia della musica popolare a parlare al femminile. Sin dai tempi più antichi la donna ha avuto un ruolo definito nelle diverse forme d’espressione pur rimanendo in posizione defilata rispetto all’uomo. Se alcune testimonianze visive d’arte rupestre africana, di graffiti degli aborigeni australiani o di incisioni dell’antico Egitto forniscono indicazioni importanti, la conferma è data dalla morfologia di alcuni strumenti musicali specificamente ideati e costruiti per essere suonati dalle rappresentanti del gentil sesso: dall’antica vinha indiana alla più recente autoharp dei Monti Appalachi, dal koto giapponese al dulcimer medioevale. In ognuno dei casi citati gli strumenti hanno una dimensione, una forma, una timbrica e un volume sonoro che li rendono particolarmente congeniali alle caratteristiche femminili o a quello che quasi duemila anni di cultura patriarcale intendono come tale e cioè un misto di delicatezza, sensibilità e leggiadria.

Non solo. In parecchie tradizioni si sviluppano repertori interpretati da donne e stili vocali prevalentemente femminili: dai “weaving song” scozzesi cantati durante il cucito alle conturbanti canzoni delle jalis mandingo del Mali, dai canti polifonici bulgari agli inni per la fertilità delle donne native americane. Per non parlare di quei generi musicali, come ad esempio il fado portoghese, la folk music anglo-americana o il gazhal indiano nei quali l’emozione, l’intensità e la raffinatezza che le voci femminili sono in grado di trasmettere sono talmente superiori a quelle dei maschi da averne in pratica azzerato l’importanza.

Proprio la musica popolare considerata più tradizionalista e conservatrice (la country music nordamericana) ha una storia di attenzione assoluta per le artiste donne e per i problemi del mondo femminile. Ne sono testimonianza concreta Kitty Wells, regina dell’honky tonk, che nel 1952 incidendo It Wasn’t God Who Made Honky Tonk Angels, ha aperto la porta alle canzoni con tematica femminile. “Preparare la strada per le altre ragazze è stato il mio più grande contributo alla musica country”, era solita dire. E non a caso a seguirla subito dopo è arrivata la leggendaria Patsy Cline che pur incorporando un modello diverso (quello della ragazza che esprimeva la sua gioia di vivere attraverso una voce formidabile) insieme a Kitty è riuscita con semplicità ed efficacia ad allacciare un filo di comunicazione diretta con il pubblico delle donne americane che dopo la seconda guerra mondiale stavano imparando a conoscere l’indipendenza economica e sociale. E, di conseguenza, a sentirsi personalmente più forti e libere. Per questo l’America in quegli anni diventa una società più mobile, con meno radici ma anche meno tabù: sesso, divertimenti, musica e danze non sono più vissute come attività peccaminose.

Dopo Kitty e Patsy, Loretta Lynn e Tammy Wynette diventano l’immagine più credibile di quella scuola di country music sincera, genuina ma anche apertamente schierata dalla parte della donna che ancora oggi vanta numerose allieve. Si chiamano K.T Oslin, Martina McBride, Dixie Chicks, Alison Moorer o Gillian Welch e sono le moderne Thelma & Louise di Nashville e dintorni.

Coraggio non significa solo opposizione e antagonismo (temi, questi, cari a Courtney Love e a tutte le riot grrrls arrabbiate che hanno costituito il versante femminile del grunge di Seattle). Lo afferma Ani DiFranco, una che anche se non ha i capelli propriamente rossi (si diverte a cambiare i colori a seconda dell’umore…), potrebbe essere addirittura la leader del movimento: “Non si può parlare dei problemi della società ed essere solo arrabbiati”, ci ricorda Ani. “Bisogna saper essere propositivi”.

Non è un caso che la DiFranco sia personaggio di spicco del neofolk americano, il genere musicale che nel nuovo millennio (e nei dieci anni che lo hanno preceduto) si è segnalato (insieme al rock d’autore) come il territorio artistico più sensibile alla tematica femminile.

Segnali estremamente positivi si erano già colti nella seconda metà degli anni 80. A New York, proprio nella zona del Greenwich Village che nei favolosi Sixties (tra i vari Bob Dylan, Phil Ochs, Ramblin’ Jack Elliott e Eric Andersen) aveva visto spuntare le voci incantevoli di Joan Baez e Judy Collins, muove i primi passi un’altra ragazzina dai capelli rossi.

Il suo nome è Suzanne Vega e con una folk song, Luka, che parla di abusi a un minore (e che una ventina di anni dopo ammetterà essere autobiografica) commuove il mondo. Con la Vega si riscoprono non solo il gusto per la ballata folkie e per la canzone introspettiva: Suzanne ha una sensibilità femminile a 360 gradi che esprime non solo nei testi. La sua delicatezza nel toccare certi temi, il suo stesso look e perfino il suo gusto estetico (acustico e non) fanno scuola e influenzano tante cantautrici non solo folk che verranno dopo di lei. Come ad esempio Liz Phair, cantautrice rock che con il suo debutto indipendente del 1993 (Exile In Guyville) sembrava essere l’amica più in gamba che ogni ragazza potesse avere. Con provocazioni pungenti (“Voglio essere la tua regina dei pompini”) e riflessioni altrettanto crude (“Mi avvalgo a mio vantaggio di tutti gli uomini che incontro”) Liz Phair risultava al tempo stesso intelligente, sexy, sarcastica e stimolante. Ma anche pericolosissima per tutti i maschi (che non riuscivano a capirla).

Come lei la rossissima Tori Amos ha tracciato un solco indelebile nel nuovo songwriting al femminile di fine millennio. Sensuale, dolcissima e altrettanto esplicita, Tori incorpora magnificamente la dicotomia Maria Maddalena/Madonna che per millenni ha gravato sulla psicologia femminile. Anche se c’è pure chi, non volendo mutare gli equilibri esistenti, si ‘accontenta’ di stare all’ombra del marito. Forse perché crede nel detto secolare che sostiene che “dietro a ogni grande uomo c’è una grande donna”. Come Patti Scialfa, moglie del Boss più famoso del rock: anche lei, guarda caso, con i capelli rossi.

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BONNIE RAITT
Lady Plays The Blues
di Ezio Guiatamacchi

Come in Formula 1, anche in musica quando si parla della “rossa” non possono sorgere equivoci. Bonnie Raitt è la Ferrari del blues, l’unica donna a suonare con convinzione, competenza e passione “la musica del diavolo” ai massimi livelli. Solo lei infatti, sorta di Eric Clapton in gonnella, pur essendo bianca, quacchera e di buona famiglia, ha saputo interpretare meglio di una nera del Delta le famigerate, fangosissime dodici battute.

Nata a Burbank, vicino a Hollywood, in California, l’8 novembre 1949, Bonnie cresce in una famiglia musicale: sua mamma Marjorie Haydock è una stimata pianista e suo padre John una stella dei musical di Broadway (attore protagonista, tra gli altri successi, di Pajama Game e Carousel). A 8 anni, la piccola Raitt riceve in regalo una chitarra acustica Stella e la sua vita cambia in modo radicale. “La mia passione era così travolgente”, ricorda, “che suonavo sino a che le mie dita sanguinavano. Ho imparato, nota per nota, tutte le canzoni di Joan Baez.”

Ironia della sorte, proprio la Baez quasi 40 anni dopo firma la prefazione della biografia Bonnie Raitt, Just In The Nick Of Time (Birch Lane Press Book, 1995) sostendendo con sincerità che “mi sono sempre sentita una stupida quando provavo a cantare un blues. Per Bonnie è tutta un’altra cosa. Lei sembra nata per cantare il blues. Ha la voce adatta. Anche se io la ammiro in modo particolare per le ballate: perché le esegue in modo originale, ci piazza dentro una spruzzatina di blues e ne dà un’interpretazione davvero commovente”.

Proprio la dosatissima mistura tra ballate folk, passione per il blues e gusto tutto californiano per il country-rock nasconde forse il segreto artistico della Raitt. E la sua assoluta originalità. Frutto di anni di studio, dedizione, pazienza. “Quando ero piccola mancava l’informazione che c’è oggi. Nessuno allora suonava il bottleneck in tv. Non sapendo come fare, ho preso una bottiglietta di Coricidina, ho tolto l’etichetta e ho provato a suonare la slide. Ma non avevo la minima idea di cosa significasse usare un’accordatura aperta.”

Nel 1967 la Raitt si trasferisce a Cambridge, Massachussetts, si iscrive al Radcliffe College che abbandona prestissimo per coltivare la sua passione musicale. Cominicia a esibirsi in piccoli folk e blues club della zona sino a che un suo vecchio amico (Dick Waterman) la mette sotto contratto e le presenta alcuni bluesman leggendari come Howlin’ Wolf, Sippie Wallace e Mississippi Fred McDowell.

“Ero diventata una specie di assistente del road manager. Aiutavo nella logistica, portavo i bagagli, verificavo che cibo e liquori fossero pronti nei camerini e soprattutto stavo appresso ai miei idoli. Che ben presto sono diventati i miei migliori amici.”

La sua reputazione anche come performer nel frattempo sta crescendo. Tanto che la Warner Brothers le offre un contratto: dal 1971 al 1986 Bonnie incide 9 album, quasi tutti acclamati dalla critica e dai suoi colleghi. Ma i suoi dischi vendono poco. E la sua casa discografica, senza alcun preavviso, la licenzia.

Ritrovatasi di colpo sulle soglie del baratro (con una vita sentimentale a pezzi e una dipendenza da alcol e droga giunta a livelli imbarazzanti), la Raitt ha un guizzo d’orgoglio che le permette di risalire la china. “Non sono mai stata interessata alle droghe pesanti o agli allucinogeni”, ricorda oggi Bonnie, “anche se quando vivi a L.A. non è così strano mescolare whiskey e cocaina. Sono cresciuta a fianco di grandi bluesmen e quasi tutti erano dediti all’alcol: per me è stato quasi naturale prendere il vizio. Ad un certo punto ho capito che avrei fatto la fine dei Lowell George, dei Paul Butterfield o dei tanti amici musicisti morti per abuso di droga o alcol. È stata dura venirne fuori ma il solo fatto che ora sia qui a parlarne mi fa capire di avercela fatta.”

La Raitt ce l’ha fatta anche dal punto di vista artistico: il 1989 è il suo anno. Nella villa di Mendocino, sulle scogliere del nord California, compone un pugno di canzoni che sgorgano “just in the nick of time” (proprio nel momento giusto). Don Was le dà retta. La Capitol le fa un nuovo contratto. Il resto è storia: la “rossa” finalmente s’impone a tutti i livelli. Nick Of Time vince 3 Grammy e vende più di 4 milioni di copie. E per Bonnie inizia una carriera artistica finalmente in discesa: il successivo album Luck Of The Draw vende altri 4 milioni di copie e vince 3 ulteriori Grammy e sia Longing In Their Hearts (1994) che Fundamental (1998) ottengono ottimi risultati sia di critica che di pubblico.

I riconoscimenti si moltiplicano (vince anche un Grammy per il duetto I’m In The Mood con il grande John Lee Hooker) e addirittura il 3 marzo del 2000 entra ufficialmente a far parte della Rock’n’Roll Hall Of Fame. Nel suo discorso di insediamento, Bonnie ci tiene a sottolineare la sua femminilità quando afferma di essere “particolarmente orgogliosa di questa onorificenza anche perché io non mi metto soltanto una chitarra a tracolla. So come si fa a suonarla. E spero che il mio sia un esempio che convinca tante donne a uscire dalle cucine e a buttarsi nella mischia. Anche perché faccio parte di una generazione femminile di transizione e il mio bisogno di non sentirmi sminuita o, peggio ancora, controllata mi ha spesso fatto scontrare con la stupida dicotomia maschio/femmina nell’arte. Quello in cui viviamo è ancora un mondo di uomini. Ma certamente non lo sarà per molto”.

A giudicare dai proseliti, Bonnie ha perfettamente ragione: Sue Foley, Susan Tedeschi o la nuova giovanissima blues sensation Shannon Curfmann (anche lei una rossa di capelli che imbraccia una Stratocaster.) hanno riferimenti inequivocabili. E c’è sempre una nuova ragazza, più giovane, più brava e più bella, pronta a diventare the next big thing.

“Credo che esista ancora oggi, almeno in America, una specie di regola non scritta: i brani di artiste donne programmati dalle radio non debbono superare una certa percentuale. Credo sia un retaggio del maschilismo ancora imperante nel mondo della musica. Nelle stazioni Fm più ‘progressive’ ci sono parecchie dj donne che sono certa hanno invece facoltà di scelta. Io stessa senza il supporto delle radio e di moltissime dj donne non avrei avuto una carriera di successo. Infatti negli anni 70 quando questa regola cui facevo cenno prima era molto più rigida, nella stessa ora di trasmissione non potevi avere Linda Ronstadt, Emmylou Harris, Joni Mitchell e poi Bonnie Raitt. Ecco perché io non ho mai fatto parte di quel club.”

Analizzando la musica degli ultimi dieci anni anche Bonnie conviene sul fatto che “paradossalmente oggi è più facile per le ragazze. Non è semplice per un artista maschio attrarre su di sé le stesse attenzioni che le donne riescono in questi tempi a catalizzare. Il Lilith Fair ha avuto un’importanza enorme. Ha dimostrato, intanto, che uno spettacolo (o addirittura un festival) possono proporre più donne la stessa serata. E poi che la serietà, l’impegno e la purezza degli intenti vengono recepiti dal pubblico. Che poi premia questo tipo di iniziative. Io ho avuto la fortuna di partecipare al Lilith Fair e mi sono resa conto di persona che è stata un’esperienza diversa. Probabilmente irripetibile. Credo che il Lilith Fair abbia scritto la parola fine sulla discriminazione tra maschi e femmine nella musica, per lo meno su quella che avviene su un palcoscenico. Sarebbe bello vedere la stessa cosa nelle case discografiche, tra i promoter, sui mass media e addirittura nelle riviste specializzate”.

Ma Bonnie ha altre convinzioni radicate. “Una donna non ha bisogno di suonare uno strumento per diventare una star. Lo testimoniano Whitney Houston, Celine Dion o Britney Spears. Ma anche quelle che compongono le loro canzoni come Lauryn Hill o Madonna. Certo, se la chitarra diventa il riferimento principale, è auspicabile che la si sappia suonare veramente. E questo, negli ultimi anni, è accaduto. Sono tante le ragazze che hanno preso seriamente lo studio della chitarra. Qualche nome? Luscious Jackson, Meredith Brooks, Sheryl Crow. Anche Shawn Colvin e Patty Larkin sono chitarriste bravissime: il loro songwriting è una diretta derivazione della loro cultura sulla sei corde acustica.”

Qualche anno fa, Bonnie (insieme alla Fender) ha realizzato un programma (Fender Boys And Girls Club) il cui obiettivo principale era quello di insegnare ai bambini a suonare la chitarra. “È stato un onore per me poter essere testimonial di questa iniziativa lodevolissima. Era commovente ricevere, a fine concerto, un paio di bimbe che avevano seguito il mio show e mi facevano domande sulla tecnica chitarristica. Oggi il programma si sta ulteriormente sviluppando e altre aziende (così come altre star donne) stanno aderendo all’iniziativa.”

Da sempre impegnata a favore di diverse cause sociali e umanitarie nonché attivista convinta (nel 1979 ha dato vita al celebre concerto/disco/film No Nukes con Bruce Springsteen, Jackson Browne e Graham Nash), Bonnie è personaggio stimato dalla cultura americana. Il suo impegno più recente e concreto è quello con la Rhythm And Blues Foundation a tutela del patrimonio culturale della black music ma anche degli interessi economici (royalties) che avrebbero dovuto essere pagati agli artisti neri. Spesso defraudati e che oggi vivono in condizioni vergognose.

Oggi come ieri, il blues vive dentro di lei. Lo dimostra il suo nuovo, bellissimo album Silver Lining (vedi la recensione come album del mese a pag. 76) nel quale fa capolino il suo interesse artistico più recente.

“Sto seguendo l’esempio di amici come Ry Cooder, Taj Mahal, David Lindley, Peter Gabriel, Paul Simon”, rivela Bonnie, “come loro, ho intenzione di mescolare le mie esperienze e la mia sensibilità con le musiche del mondo. Oggi è possibile avere accesso alle tradizioni musicali che provengono dai luoghi più sperduti del pianeta. È naturale rimanerne affascinati. La world music è un tesoro nascosto, un filone pressoché inesauribile che mi sta entusiasmando ogni giorno di più. Poco tempo fa, sono stata nel Mali: un’esperienza strepitosa che sto pensando di ripetere, organizzando una serie di viaggi musicali dai quali trarre contatti utili per il mio futuro musicale.”

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SHERYL CROW
Leaving Las Vegas
di Paolo Vites

Èscappata lontano dalla sua personale Las Vegas per inseguire un rock’n’roll dream ma alla fine, per Sheryl Crow, questo può aver richiesto un prezzo, sembra, troppo alto. Eppure tutto quello che la ragazza ha sempre chiesto era una cosa sola: “All I wanna do is have some fun”. Così cantava nel suo disco d’esordio, quel Tuesday Night Music Club che fu un piccolo miracolo nella scena del rock d’autore dei primi Novanta. Una richiesta che ha ripetuta spesso, nelle sue canzoni, comprese quelle del nuovo disco. In Steve McQueen eccola far capolino ancora una volta: “I wanna rock’n’roll this party, I wanna have some fun”. “E lo voglio ancora. Voglio ancora divertirmi”, mi dice sorridendo. Eppure il suo splendido sorriso così come i suoi occhi intensi sembrano incapaci di trattenere un velo di profonda tristezza.

Così mi appare Sheryl Crow, nei camerini di Quelli del calcio dove si è appena esibita. Potrei dire che la tristezza è il risultato delle solite domande beote che gli ha appena fatto Gene Gnocchi, ma non credo sia così. Me lo conferma lei stessa appena le chiedo come mai il nuovo disco ha subito tanti ritardi e tanti cancellamenti: “Fondamentalmente perché avevo deciso di smettere di fare questo lavoro. Avevo deciso di smettere con i dischi”. Ouch. non è un bel modo per cominciare una intervista. Sheryl Crow potrà avere dei difetti (artisticamente parlando, ma con quello che passa il convento del rock contemporaneo una come lei, e il nuovo disco, probabilmente il suo sforzo migliore in assoluto, lo dimostra, è meglio tenersela stretta.) ma è una donna che non si è mai nascosta e che non ha mai mentito, nelle canzoni e nelle sue prese di posizioni. A costo di venir stroncata dall’intellighenzia della critica. Ad esempio quando il bel disco dal vivo (Live From Central Park) che vedeva una sfilata di super star degne di un remake di Woodstock, è stato accusato di pretenziosità e di incapacità da parte della Crow a reggere il confronto con gli ospiti invitati a duettare con lei.

“Run baby run”. La ragazza ha corso molto e spesso ad alta velocità, negli ultimi anni. Da una parte un lifestyle che, probabilmente, quando era una ragazzina, laggiù nel Missouri e ascoltava il suo disco preferito (Let It Bleed degli Stones, nda) e faceva sogni di rock’n’roll non riusciva nemmeno a immaginare: love story con leggende del rock, duetti e ospitate in quasi ogni disco uscito negli ultimi anni (non c’è – quasi – colonna sonora o disco tributo che non la veda presente, segno che produttori e discografici la ritengono indispensabile). Dall’altra tanta solitudine e amarezza: se leggete bene i testi delle sue canzoni (soprattutto quelle del nuovo album) c’è sempre il doloroso rammarico per una relazione finita in malora. In Lucky Kid Sheryl ci va dentro pesante: “Ti voglio sentire urlare pietà / (.) E vederti in ginocchio / Come tu hai fatto con me / (.) Hai rovinato ogni cosa / E adesso sei una tale noia”.

A quarant’anni Sheryl forse sente di aver perso definitivamente la possibilità di una relazione stabile. Magari di avere dei figli. Non sono cose da poco, specialmente per una donna. Il sogno di rock’n’roll ha chiesto in cambio qualcosa di troppo grande. Sembra di percepirlo in quel suo sguardo melanconico e soprattutto dal senso di “been there, done that, fucked up” che traspare dalle sue parole. “Lucky Kid”, mi dice, “è dedicata a un tale con cui ho avuto una relazione che si è trascinata per alcuni anni. Che sia una questione di kharma”, si lascia sfuggire, per poi bloccarsi quasi subito: “Ma insomma è andata così. Ogni tanto, anche in una canzone, fa bene incazzarsi”.

Sheryl Crow sembra arrivata a una svolta importante per la sua carriera, ma soprattutto per la sua vita. Donna forte, ultima erede di quella stirpe di ragazzacci in gonnella che ha avuto le sue capostipiti in prsonaggi come Stevie Nicks (“Stevie Nicks ha creato un nuovo tipo di cantante donna”, mi dirà in seguito, “ed è stato con lei che ho cominciato ad apprezzare le donne che fanno musica. Non ho mai sentito alcun tipo di interesse per personaggi come Joni Mitchell, di cui comunque adoro i testi che scrive, sino a che ho scoperto Stevie Nicks. Lei ha inventato quel tipo di cantante femminile un po’ maschiaccio, con una forte attitudine country e blues allo stesso tempo”), capace come poche di mettere a nuda se stessa e le sue tormentate relazioni in ogni sua canzone, spargendo con coraggio il dylaniano ‘sangue in ogni solco’ dei suoi dischi.

Spesso pagando un caro prezzo, quando la rivista di turno ha cercato di scoprire in tale canzone un riferimento a una love story con Eric Clapton e in un’altra magari con Jakob Dylan: “Quando scrivo, scrivo senza pensare a chi ascolterà. Scrivo essenzialmente di cose personali, ma cerco sempre di arricchire il tutto con dell’immaginazione, per far sì che la canzone sia più forte, liricamente. Ma, certamente, non è facile fare questo lavoro, specie oggigiorno. La gente vuol sapere ogni cosa e tu cerchi di tenere le cose a un livello discreto, per far sì che la persona di cui stai scrivendo non venga coinvolta pubblicamente. Ma mi è impossibile non scrivere della mia vita.”.

Così come, sembra, Sheryl Crow è venuta a patti con quell’etichetta (‘”derivativa”, “ciò che resta del classic rock”), che fino a ieri aveva cercato di sfuggire: “Questo è un disco di classic rock. Assolutamente. Un vero disco di classic rock. Era ciò che volevo fare. L’ho fatto tenendo a mente tutti i meravigliosi dischi che ascoltavo alla radio negli anni Settanta: Neil Young, Steve Miller, i Fleetwood Mac. Soprattutto quel gran bel rock melodico”.

Poi, strizzando l’occhio, aggiunge: “La mia musica migliore deve ancora venire”.

Sheryl Crow oggi sa anche essere ironica con se stessa. Ne ho la prova a un certo punto, quando le dico che il brano Soak Up The Sun, in cui appare alla voce Liz Phair, mi ricorda l’incedere tipico di certe canzoni di Liz Phair. Sorride maliziosa, e precisa, scoppiando a ridere: “Beach Boys, piuttosto.”. Spiazzato. Altro che Liz Phair, dichiarando così la sua consapevolezza che nei suoi dischi c’è roba presa qua e là in giro per la storia del rock. Umile, Sheryl Crow. Per questo la si apprezza di più, adesso. “Ero in studio che cercavo di lavorare a un pezzo e continuavo a sentire qualcuno che giocava a basket, là fuori. A un certo punto sono uscita per vedere chi diavolo fosse, ed era lei, Liz, che stava giocando a basket contro il muro delle studio. Insomma. vieni dentro a cantare con me, le dissi. Ci conosciamo da tempo, abbiamo fatto un tour insieme tempo fa”.

La sua simpatica accettazione a quello che è la sua musica salta fuori anche quando accenno a quello che è senza dubbio non solo il brano più bello del disco, ma una delle cose migliori mai incise da lei, la title-track C’mon C’mon. Ma anche questa volta mi spiazza: quando le dico quanto mi piaccia quell’attacco di chitarre a dodici corde acustiche ed elettriche, lei dice: “Già, alla Rod Stewart.”. Uh? Avrei detto Tom Petty, ma va bene così. “È solo un’altra canzoncina che parla di un rapporto.”. Finito male, ovviamente…

Se la lunga schiera di special guest che impreziosisce C’mon C’mon (Lenny Kravitz, Liz Phair, Emmylou Harris, Natalie Maines, Stevie Nicks) alla fine non è poi così rilevante, ad eccezione dello splendido duetto con Don Henley in It’s Not Easy e della brillante chitarra di Doyle Bramlhett in un paio di brani, colpisce vedere il nome della simpatica attrice Gwyneth Patrow, alla voce in It’s Only Love: “Siamo ottime amiche, le piace molto la musica e le avevo fatto ascoltare quel brano diverse volte, a casa mia, mentre ci lavoravo. Sa cantare molto bene, così abbiamo inciso questa cosa.”.

La bella It’s So Easy, scritta con la sorella Mathryn (“Abbiamo scritto sei canzoni insieme, a tutt’oggi”) era nata inizialmente per essere data a qualche cantante country che la incidesse: “Ma non avevamo ancora deciso a chi darla. Alla fine mi piaceva così tanto che decisi di inciderla io. Ho chiamato Don Henley (per cui Sheryl, a inizio carriera, faceva da corista, nda) e gli ho chiesto se voleva cantarla con me”. Ottima scelta, perché quando attacca la voce di Henley sembra di sentire un classico degli Eagles.

Questo mi introduce al discorso di Sheryl Crow produttrice: non solo per se stessa (come ha fatto anche questa volta e come ha sempre fatto escluso Tuesday Night) ma adesso anche produttrice per altri artisti. Come è stato lavorare con Stevie Nicks per il suo recente disco? “Molto divertente. Oltre a essere care amiche, è una cantante e un artista di grande talento. Ci abbiamo messo forse troppo tempo, ma ero spesso in tour. Produrre un altro artista è stato poi totalmente diverso dal produrre me stessa. Per C’mon C’mon, ad esempio, ho passato parecchio tempo a lavorare sui nastri. Per un altro artista devi cercare di mantenere il clima, organizzare ogni dettaglio, far sì che le cose vadano in ‘quella’ direzione”.

Negli ultimi anni Sheryl Crow si è guadagnata il soprannome di ‘prezzemolino del rock’, perché è praticamente impossibile non trovarla in qualche disco tributo o in qualche colonna sonora: “Amo Juanita, il brano che ho inciso per il disco tributo a Gram Parsons. È quello che preferisco dei tanti dischi tributo a cui ho partecipato perché cantare con Emmylou è stato bellissimo, per il modo in cui siamo riuscite a unire le nostre armonie vocali. Mi è piaciuto moltissimo anche fare Mother Nature Son per la colonna sonora di I Am Sam. Parlando in generale quello che preferisco dei dischi tributo a cui ho preso parte è senza dubbio quello a Gram Parsons”.

Prima di salutarla le chiedo di aiutarmi a capire perché non ci sono più uomini, oggigiorno, capaci di fare un gran disco. Completamente sbaragliati dalle donne del rock? Ridacchia: “No, non credo sia vero che gli uomini non facciano più bei dischi, credo piuttosto che oggi le donne siano più popolari. Ma ci sono ancora dei bei dischi fatti da uomini. L’ultimo di Bob Dylan ad esempio. Oppure Gold di Ryan Adams, che è molto bello. Credo che oggi la gente si sia abituata ad ascoltare donne che sono più confessionali di quanto lo siano mai state, ma credo sia una specie di trend. Se pensi agli anni Settanta c’era gente come Cat Stevens o James Taylor che svolgeva perfettamente quel ruolo. Adesso è il turno delle donne. Tutto qui, credo.”.

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