26/11/2007

ROCK’N’RODEO

Quando senti la voce di Ryan Bingham hai la sensazione che la sabbia possa entrare nella gola di un uomo e restarci per sempre. C’è una sincerità nelle sue parole che avverti palpabile, come se l’opzione di essere meno che vero non venga contemplata. Ti ritrovi così ad ascoltare un ragazzo che dall’altra parte del mondo sgrana le parole una ad una, neanche fossero perle di una collana perduta, con quel chiacchierare lento che suona come una cantilena sfilacciata e ipnotica, tipico del Sud.
Dopo un paio di album autoprodotti, Ryan Bingham ha dato alle stampe per i tipi della Lost Highway un disco da quattro stelle quattro. A sentire lui non c’è poi da spenderci troppe parole sopra, ma la sensazione di trovarsi davanti a un talento puro è proprio forte a meno di non voler considerare personaggi come Marc Ford e Joe Ely due che non capiscono nulla di rock’n’roll e questo, al di là di tutto, suona come una bestemmia. Ascoltando Ryan snocciolare le sue risposte ti colpisce l’umiltà e il fegato che ha dentro, insomma nulla di più e nulla di meno di quello che ci vuole per prendere in mano una chitarra e attraversare il confine: da una parte all’altra dell’orizzonte. Tutto questo per dire che se il rock’n’roll è un credo, una formula potente e in fin dei conti intramontabile, in grado ancora oggi di far battere i cuori dimenticati e lasciati a scoppiare in vasi di cristallo grattati all’ultimo dei rigattieri, allora Ryan Bingham è davvero il vostro uomo.
Chiacchierare con lui è come ripassare le lezioni dei maestri: da Steve Earle a John Mellencamp ci stanno dentro davvero tutti.

Parlaci delle tue radici. Da dove vieni?
Sono nato a Hobbs, New Mexico, giusto al confine fra i chicano e gli yankee. I miei nonni avevano un ranch e così mi sono abituato fin da ragazzo alla vita dura, insomma ero un piccolo redneck e lavoravo, diciamo così, nell’azienda di famiglia. Ho trascorso parecchi anni girando uno Stato dopo l’altro però sempre a cavallo del confine: dal West Texas alla California e poi in Messico per ritornare dove sono nato. Da ragazzo non avevo mai pensato che la musica sarebbe diventata il mio futuro. C’era il rodeo più che altro e una vita spesa da una città all’altra, sempre sulla strada, dormendo in un furgone o nelle arene polverose. Insomma, il concetto era un po’ come quello di viaggiare da un capo all’altro dell’orizzonte per uno show, solo che in quel caso il premio era, molto probabilmente, spezzarsi i denti contro i tori.
Il tuo disco s’intitola Mescalito: c’è un particolare motivo che ha determinato questa scelta, volevi rappresentare un’immagine…
È un modo di dire tipico dello slang messicano per definire l’uomo della medicina nella vecchia tradizione indiana.
La copertina del disco è di particolare impatto e sembra un pass partout per introdurre l’ascoltatore al mondo raccontato nelle tue canzoni.
Credo che più che altro esprima bene chi sono e da dove vengo. In effetti, da un certo punto di vista, mette in luce anche il mio modo di scrivere canzoni. Del resto comporre brani per me è proprio come sedersi per terra e scrivere di quello che vedo o che ho sperimentato nella mia vita. Non mi metto certo davanti a un tavolo a pensare cosa raccontare: quello che mi esce fuori non è filtrato, piuttosto è come se lo estraessi direttamente dal mio petto, dalla mia vita.
Marc Ford, che ha prodotto il disco, è uno dei migliori chitarristi rock in circolazione. Come è stato lavorare con lui?
Beh, ho letteralmente consumato i dischi dei Black Crowes. Marc Ford ha costruito tutte le parti elettriche di chitarra in modo semplicemente perfetto, non ha forzato in nessun modo il carattere dei brani, era come se fosse in grado di colpire il pezzo al cuore. Abbiamo registrato in un grande garage, in uno spazio molto ampio, con i microfoni piazzati tutto attorno. Non abbiamo inciso esattamente live, però ogni musicista poteva vedere gli altri e credo che ciascuno di noi non abbia mai ripetuto la sua parte più di una volta: only one or two takes.
C’è stata grande attenzione da parte di Marc nel catturare quell’incredibile feeling, quel calore che respiri nei solchi dei vecchi dischi anni 60 e 70, insomma seguendo gli insegnamenti della vecchia scuola.
Tutto era molto puro, reale, e chi ascolta avverte queste sensazioni perfettamente, credo.
Joe Ely ha dichiarato che sei la next big thing della musica rock: è una bella responsabilità per te o sbaglio?

Veramente sì (ride, nda). Joe è un uomo meraviglioso, lui è di Lubbock, sta a circa un paio d’ore da qui, è una persona di esperienza, saggia, con cui è bello parlare, e poi, inevitabilmente, nella sua musica ci sono gli stessi suoni e le stesse suggestioni che ci sono nella mia, più o meno.
Quali sono gli artisti che hanno maggiormente influenzato la tua musica?
Moltissimi, tutti quelli della tradizione del rock’n’roll: da Woody Guthrie a Bob Dylan e poi tutta la musica che ho ascoltato attraverso i dischi di mio padre o di mio zio. Penso ai Rolling Stones, ai Led Zeppelin, alla Marshall Tucker Band, ai vecchi dischi di western swing, e poi una marea di blues: Blind Willie McTell, Robert Johnson, Muddy Waters…
Che storia c’è dietro al brano Borracho Station? Ha un suono mariachi ed è una canzone molto particolare, affascinante, cantata per metà in inglese e per metà in spagnolo…
Ho vissuto per un po’ di tempo a Laredo, Texas, lungo il confine messicano. La prima volta che ho preso in mano una chitarra è stato quando ho sentito suonare il ragazzo che stava nell’appartamento a fianco al mio che faceva musica mariachi. Più tardi, grazie al mio amico Barry Tubb, che è un attore, mi sono ritrovato sul set del film Le tre sepolture diretto da Tommy Lee Jones. Lì c’era una fattoria dove la troupe riposava e ovviamente alle prime luci dell’alba, quando tutti andavano via per girare il film, io me ne restavo lì da solo sul portico di quella vecchia casa. Una mattina uno della troupe, un ragazzo messicano, mi si è avvicinato e abbiamo cominciato a parlare. Io avevo la mia chitarra e cercando di masticare un po’ di spagnolo ho cominciato a buttar giù un testo in una lingua che però era tutt’altro che corretta. Lui è stato così gentile da darmi la giusta traduzione di quello che stavo cercando di dire. La canzone parla proprio di questa storia: di una persona seduta sul portico di una fattoria che guarda le montagne davanti a sé e si mette a cantare. È stato un modo molto felice, se vuoi, di descrivere una situazione sbocciata per caso.
Una delle canzoni più elettriche del disco è senz’altro Bread And Water ed è anche una di quelle che meglio rappresenta una delle due anime della tua musica: quella più aggressiva e ad alto voltaggio. C’è però anche un tuo lato più intimo e acustico. Quale di queste due componenti ti appartiene di più, quale senti più tua?
Sinceramente non lo so, direi che ho praticamente cominciato a suonare elettrico proprio attraverso lo straordinario lavoro fatto da Marc Ford in occasione della produzione e registrazione del disco. Fino ad allora avevo soltanto suonato chitarre acustiche e quindi per me era un altro mondo che si apriva. Comunque, oggi come oggi, ti dico che mi piace suonare in entrambi i modi specie nei live, alternando brani acustici ed elettrici.
Come riesci a mescolare così bene gli stili più diversi? Dal rock al blues, dal country al mariachi?
Non so, credo che semplicemente sia il frutto dei luoghi in cui ho vissuto. Il country è la musica folk dei cowboy e del West Texas e lo stesso è per lo swing, poi ho suonato anche un po’ in Louisiana e questo, inutile dirlo, ha aggiunto il blues alla mia musica. E poi naturalmente c’è il confine messicano e le sonorità mariachi e tejane. A questo aggiungi la musica che ascoltavo a casa, quella di cui parlavamo prima, e il gioco è fatto. Ho preso tutte queste cose ed esperienze e i suoni c’erano già finiti dentro, non li ho combinati o mescolati. Semplicemente non potevano restare fuori.
Fra ottobre e novembre sei in tour con i Drive By Truckers, come vivi un’esperienza così?
È sicuramente un grande onore ed è fra l’altro un cambiamento pazzesco. Trovarti un po’ alla volta a fare i tuoi concerti con otto, dieci persone davanti, e poi vedere il pubblico che cresce, magari arrivi a trenta persone e ancora, d’improvviso, ti ritrovi in tour con i Drive By Truckers, un disco nuovo in uscita e un tutto esaurito dopo l’altro davanti a oceani di persone e arene enormi in cui suonare. Ok, è pazzesco, non posso aggiungere altro. Quello che mi motiva ancor di più è poter credere che i loro fan possano apprezzare le canzoni che suoniamo noi.
Pensi che sarà possibile venire in tour in Europa?
Fosse per me verrei anche adesso ma sarebbe troppo presto. So che comunque ci sono buone possibilità per arrivare in tour magari ad inizio 2008, verso gennaio o magari febbraio.

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