02/04/2013

Ron Sexsmith

Tra il gusto melodico di Paul McCartney e l’irresistibile malinconia di Don Williams. Uno dei suoi album migliori

«Questo è l’album che ho sempre voluto realizzare», ha confessato Ron Sexsmith in un’intervista apparsa sul suo sito. «Avevo i pezzi giusti, la produzione giusta e finalmente anche la mia voce combaciava con quella che sentivo nella mia testa». Ai fan di vecchia data «potrebbe sembrare un ritorno alle atmosfere di Other Songs o cose del genere, ma credo di essere migliorato sia come cantante che come autore».

Partiamo dal titolo: Forever Endeavour simboleggia l’infinito sforzo creativo compiuto dell’artista nel tentativo di dare vita a un’opera che gli sopravviva e gli regali un pizzico di immortalità; ma è anche un gioco di parole che richiama l’espressione forever and ever (per sempre). Tutto è cominciato nell’estate del 2011, quando Sexsmith ha scoperto di avere un nodulo in gola. Per qualche mese – il tempo necessario a sottoporsi a tutti gli esami del caso – «ho continuato a pensare: “Questo potrebbe essere il mio ultimo album, l’anno prossimo potrei trovarmi nel bel mezzo di una battaglia col cancro”. Questo spiega il carattere filosofico delle canzoni scritte in quel periodo: lo spettro della morte si era intrufolato nella mia mente; non sono riuscito a pensare ad altro fino a quando gli esami non hanno confermato che il tumore era benigno. Non ero in uno stato di panico, ma il tempo era al centro dei miei pensieri, perché non sapevo quanto me ne restava». Poi, alla fine dell’estate, mentre si trovava a Los Angeles il songwriter canadese ha incontrato il suo storico produttore: «I nuovi brani erano perfetti per Mitchell Froom». Così, nel mese di novembre, nello studio di Froom a Santa Monica sono iniziate le session di Forever Endeavour, con la collaborazione di un manipolo di valenti musicisti tra cui Greg Leisz (pedal steel guitar), Pete Thomas (batteria) e Bob Glaub (basso), più gli archi del Calder Quartet.

La prima cosa che colpisce è la voce di Sexsmith, limpida e venata di un’intensa vena malinconica: sembra di ascoltare una splendida raccolta di ballad di Paul McCartney. Il tutto impreziosito dagli illuminati arrangiamenti di Froom: la voce e la chitarra acustica di Ron costituiscono le solide fondamenta sulle quali di volta in volta si innestano i raffinati commenti sonori degli altri strumenti. Come nell’evocativa Nowhere To Go, in cui il corno francese e gli archi si amalgamano alla perfezione con la delicata sezione ritmica e con l’inconfondibile pedal steel di Leisz. Nella splendida Nowhere Is fanno capolino congas e fiati; in Blind Eye una chitarra elettrica si inserisce in punta di piedi nelle ariose traiettorie degli archi; e se Me, Myself And Wine si tinge di dixieland, Back Of My Hand, con le sue armonie vocali e gli intrecci di chitarre, è più beatlesiana che mai. «Non c’è niente in questo disco che non sia stato scritto», spiega Sexsmith. «Le parti di basso, le percussioni, non c’è niente di improvvisato. È stato molto interessante, non avevo mai lavorato così prima d’ora».

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