È nato in Giamaica, da ragazzo ha vissuto a Londra, nel 1969 si è trasferito in Israele e solo pochi mesi fa ha inciso il suo ultimo album a Memphis. Cittadino del mondo, appassionato e cultore di soul e rhythm’n’blues, Roy Young è talento allo stato puro. La sua è una storia strana, per certi versi misteriosa. Cresciuto in un capanno delle Blue Hills, senz’acqua corrente né energia elettrica, da giovane non sembra interessato alla musica delle sue radici. “Il reggae a quei tempi non esisteva ancora” spiega. “Alla fine degli anni 50 in Giamaica si ascoltavano prevalentemente ska e rocksteady. Musiche interessanti ma che, su di me, non esercitavano alcun fascino. Piuttosto, ero stregato dai suoni che uscivano dalla radio di una signora che viveva nei pressi di casa mia. Riusciva a captare le onde di una stazione di Miami che trasmetteva il meglio della black music dell’epoca: Sam Cooke, Dells, Drifters, Temptations. Quando abbandona i Caraibi per sbarcare a Londra, Roy Young ha 15 anni. “In poco tempo, in Inghilterra ho avuto la fortuna di vedere dal vivo tutti i miei idoli: Wilson Pickett, Otis Redding, Sam & Dave, Aretha Franklin, Solomon Burke. Otis è quello che mi ha impressionato di più: era la quintessenza del soul”.
Quando racconta, Roy parla con entusiasmo e convinzione, doti che travasa direttamente nella sua musica, un folgorante caleidoscopio di emozioni. Ho la fortuna di averlo ospite dei miei RockFiles, negli studi di LifeGate Radio. Sentirlo, vederlo a pochi metri è un’esperienza: la sua voce sofferta ma caldissima travolge, il suo debordante feeling commuove, la sua formidabile espressività artistica fa davvero vibrare le corde dell’anima. Quando lo senti interpretare Trouble In Mind di Big Bill Broonzy o Dust My Broom del grande Robert Johnson pensi che, forse (almeno per una volta) si può fare un’eccezione alla severa regola che dice che, per poter cantare il blues con passione e credibilità, bisogna essere nati sul Delta del Mississippi. Per Roy, la Swinging London non ha voluto dire solo Beatles e Rolling Stones. “Andare allo Ealing, al Marquee, all’100 Club o in altri locali leggendari era garanzia di musica di qualità e divertimento assicurato”. Eppure, nonostante vivesse nella mecca del rock, Roy accetta una proposta indecente. “Un giorno ho incontrato quello che sarebbe diventato uno degli uomini più ricchi del mondo, Haim Saban. Prima di inventare i Power Rangers e trasformarsi conseguentemente in un tycoon dei mass media, Saban faceva l’impresario teatrale. Nel 1969 doveva portare una band a Tel Aviv, aveva saputo che cantavo e mi ha chiesto di fare un’audizione. Poco dopo, sono partito per Israele”.
La carriera di Roy prende una strada diversa: suona ovunque sino a quando, alla fine degli anni 70, dopo aver fatto brevemente ritorno a Londra, strappa un contratto discografico alla Emi. “Ho avuto l’opportunità di incidere nello Studio 2 di Abbey Road, lo stesso che usavano i Beatles. È stato uno sfizio, lo so, ma ricordo ancora l’emozione di quei giorni”. Sempre a Londra, un anno dopo, è in arrivo un’altra emozione. Nella hall di un albergo Roy scorge Marvin Gaye. Prende il coraggio a due mani e, sfidando le resistenze della security, avvicina il grande soul man americano. “Marvin è stato gentilissimo. Ha avuto parole di elogio e di incoraggiamento nei miei confronti: è stato un incontro importante”. Dopo di ciò, per più di 20 anni Roy Young rimane un nome di culto della black music. Tanto che due fratelli australiani in vacanza in Israele riescono a scovarlo. “Mi sono venuti a trovare e mi hanno fatto sentire le canzoni che avevano scritto: volevano assolutamente che le cantassi io. Ma a me non piacevano. E così, con gentilezza ma anche con determinazione, ho detto loro che non se ne sarebbe fatto niente. Prima di andarsene, però, mi hanno chiesto: ci puoi fare sentire un ritmo, un riff, un motivo che ti piace? Così, mentre gli canticchiavo qualcosa, mi hanno registrato. Poi sono spariti. Sette anni dopo, mia moglie riceve una telefonata: erano i fratelli Frankel, i due ragazzi australiani, che dicevano di avere un contratto discografico per me, di aver almeno 40 canzoni pronte e anche qualcuno che poteva arrangiare il tutto. Io e mia moglie siamo partiti e abbiamo registrato questo disco in Australia. Quando ero a Melbourne, i Frankel mi hanno portato da un tizio che dicevano avrebbe fatto al caso mio. Con mia grande sorpresa, ho scoperto che questo anziano signore era Gil Askey, trombettista leggendario del giro della Motown”.
Dopo aver registrato i pezzi del disco, giunge il contratto anche con un’etichetta americana. Tom Silverman, il discografico newyorchese, convince Roy ad andare a Memphis e a registrare un album sotto la direzione di Willie Mitchell, producer di Al Green e di altre star del soul dei 60s. Nasce così Memphis (vedi JAM 142), un lavoro bellissimo, nel quale la voce straordinaria di Roy Young colpisce dritta al cuore. La sua è preziosissima musica vintage, che dispensa emozioni e trasuda classe.
Avesse 40 anni di meno, fosse biondo, bianco e con le tette, Roy Young potrebbe essere una delle più interessanti novità dell’attuale panorama musicale (remember Joss Stone?). Per ora, rimane una chicca per intenditori. A meno che…