Già nel singolo (We No Who U R) e nel trailer, messi in circolazione all’inizio di dicembre, si poteva intuire una sorta di ritorno all’età di mezzo, quella di The Boatman’s Call, quando il nostro voltò le spalle ai propri incubi viscerali per avviarsi sui sentieri di un’inquietudine più sottile, almeno fino alle urgenze d’impatto prodotte da Dig, Lazarus, Dig!!! prima e dall’incarnazione Grinderman poi. L’impressione trova conferma in tutti i brani del nuovo disco, permeati da un songwriting lento e solenne, da suoni ovattati, delicati e spiazzanti, in un contesto che proietta atmosfere raffinate ed evidenzia una cura quasi maniacale dei controcanti. Dimenticate le asperità che lo hanno reso celebre nei primi album post Birthday Party: assente l’effetto sorpresa che aveva caratterizzato la svolta soft post Murder Ballads, il nuovo disco pare quasi una versione più intrigante di Nocturama, con un utilizzo reiterato del fade out.
«Push The Sky Away è il bimbo-fantasma in incubatrice e i loop di Warren il suo debole e tremante battito cardiaco», rimarca Cave, che per l’occasione si libera delle case discografiche e fa uscire l’album, in diverse edizioni lussuose a seconda delle tasche dei fan, per la sua Bad Seed Ltd (anche se, notizia di questi giorni, dopo il divorzio con la Mute, pare che l’album sarà distribuito dalla piccola e attiva Kobalt).
Giacciono nel limbo da qualche settimana queste mie prime impressioni, scritte poco prima della recensione definitiva che potrete leggere nel numero di Jam di febbraio. Il management, che ci aveva elargito ben cinque ascolti possibili del disco via streaming, ha rallentato qualsiasi pubblicazione troppo precoce rispetto all’uscita del disco; nel frattempo è stato pubblicato un secondo video (Jubilee Street) e sono stati annunciati quattro concerti evento a Parigi, Berlino, Londra e Los Angeles, dove i Bad Seeds saranno affiancati da una sezione d’archi e da un coro. Nel corso delle serate, i registi Iain Forsyth e Jane Pollard proietteranno anche un cortometraggio inedito sul making of: il breve film entra nei dettagli più intimi sulle modalità di lavoro dei Bad Seeds, alternando immagini in studio, interventi di Nick, della band e del produttore Nick Launay. Insomma, la confezione del tutto è di quelle super sontuose.
Il ritorno alle atmosfere pacate prende le mosse dalla ricongiunzione degli ex Grinderman con l’involucro più ampio e tradizionale dei Bad Seeds, che consiste semplicemente col rientro di Thomas Wydler alla piena operatività e di Conway Savage ai controcanti. La regia di Warren Ellis ha previsto ogni dettaglio, proteggendo Nick dalla gestione diretta dell’ultima fastidiosa incombenza: dopo Blixa Bargeld, a essere accompagnato alla porta è stato l’insofferente Mick Harvey, portatore di un ingombrante passato e di un ruolo da manager ormai inutile e logoro, anche perché da tempo preso in carico dal vero mentore di Cave, il leader dei Dirty Three. Ellis, che possiede carta bianca su qualsiasi aspetto, ha invitato il gruppo a La Fabrique, uno studio di registrazione creato all’interno di una magione del 19° secolo nel Sud della Francia con le pareti disseminate di dischi di musica classica in vinile e lì, in un clima rilassato, Cave ha tirato fuori il suo storico bloc notes, il diario Moleskine e un nuovo tablet, dando così inizio ai lavori di vestizione dei testi.
Di seguito, quindi, le mie impressioni di ascolto brano per brano. Le elucubrazioni psicanalitiche circa le chiavi di lettura dello scatto di copertina (a opera di Dominique Issermann) le lascio invece a chi le sa fare e vuole azzardarsi in tale arduo compito. Io, per ora, mi tengo le mie… Se vi interessano, scrivetemi pure in privato ([email protected]).
We No Who U R
Il singolo è già noto a tutti: la canzone, niente di memorabile, procede con una struttura dondolante piuttosto tipica del Cave autore classico. I suoni colpiscono: flautati, rarefatti e vintage. Nick torna a cantare in primissimo piano, accompagnato dall’impercettibile e impeccabile controcanto della giovanissima Marta Murphy.
Wide Lovely Eyes
La voce è sempre in primo piano su un tappeto strumentale delicato ma straniante, con echi elettronici e cori gospel attenuati. Brano non originalissimo, alla Cave fine anni ’90, quasi un traditional, simile all’approccio U2 del periodo Rattle And Hum. Ellis ricama soffici note col Rhodes.
Water’s Edge
Il basso legnoso richiama l’incedere tipico delle ballate di Henry’s Dream… un violino delicato agisce in sottofondo, la batteria è libera. L’insieme genera una buona tensione. Il brano resta sospeso, incombente: lacrime di pianoforte cadono su suoni che procedono come brancolando. Grande interpretazione, tra le cose di Let Love In e The Boatman’s Call.
Jubilee Street
Incipit con un drumming marziale che ricorda gli Spain; un ottimo arpeggio di chitarra e incisi di tamburello dipanano la canzone nei territori di un atipico blues. L’approccio è quello dello storytelling più scarno: voce carica di pathos e sempre al centro della scena. Verso la metà, la canzone si apre a un arrangiamento elegante e sontuoso di archi, per poi tornare, scarno ma rinvigorito, ripetendo il medesimo crescendo nel finale. Mood molto cinematografico e primo brano ad accendersi e scaldare un po’ l’atmosfera.
Mermaids
Lirismo e classicità: la chitarra elettrica è soffice ma effettata, il piano elettrico costruisce l’ossatura di un arrangiamento elegante caratterizzato da splendide armonie vocali. Il più carezzevole del lotto.
We Real Cool
Molta tensione fin dall’inizio, con le pulsazioni di un basso agitato in bella evidenza. Archi drammatici, appena accennati, accentuano la drammaticità con effetto quasi alienante rispetto al tappeto ritmico, che resta ossessivo. Un riferimento potrebbe essere legato all’omonimo breve poema di Gwendolyn Brooks.
Finishing Jubilee Street
Lo spunto che elabora Jubilee Street parte dai frattali improvvisativi in cui evolve un brano, da sempre una modalità tipica dei Bad Seeds, testimoniata già nella lunga B-side del singolo Loverman, tratto da Let Love In. Nel caso, ne sapremo qualcosa in più quando, anche noi, potremo gustarci il making of. Lo svolgimento qui diventa racconto diretto. Un ottimo disegno melodico, dondolante e corale, funge da baricentro, con il compito di inframmezzare lo spoken word di Cave.
Higgs Boson Blues
È il brano forse più bello del disco: su un incedere quasi alla Dirty Three (chitarra elettrica scarna e batteria anarchica) la rauca e struggente voce narrante di Nick si inoltra per sette minuti in una preghiera blues non convenzionale, che nulla ha a che fare con le 12 battute, ma richiama fortemente il Neil Young di Ambulance Blues e gli incubi notturni di Tonight’s The Night. Finale in crescendo e poi in diminuendo, grande impatto corale.
Push The Sky Away
Altra canzone decisamente straniante: un organo psichedelico imponente e riverberato conduce a una delle linee melodiche più sottilmente belle mai concepite da Cave. L’effetto stordimento è attenuato da cori soffici e struggenti che si uniscono al cantato di Nick Cave con esiti di grande resa e opportuno finale in fade out.