L’ennesima (la quarta, per la cronaca) candidatura di Bob Dylan al Premio Nobel per la Letteratura, la presenza in Italia di Suzanne Vega impegnata a presentare l’edizione italiana della sua raccolta di poesie e la premiazione dello scrittore/cantante Nick Cave all’ultimo Premio Tenco ci hanno invogliati ad affrontare l’ardua materia. Lo abbiamo fatto con una piccola inchiesta che ci ha permesso di raccogliere le testimonianze di cantanti, poeti e critici letterari. E in più ospitiamo un intervento esclusivo di Pasquale Panella, paroliere di Lucio Battisti, sotto forma di poema e dedichiamo a lui un breve ritratto.
“Ci sono dei cialtroni che pensano che è poesia anche quella dei Baci Perugina.” Come sempre schietto e diretto, Francesco De Gregori non ha alcun dubbio riguardo il rapporto tra poesia e canzone: “Chiunque si intenda di poesia o di canzone dice che sono due cose diverse”.
Già, due cose diverse. L’annosa diatriba – e cioè se la canzone pop(olare) abbia dignità artistica quanta ne ha da sempre la poesia – si dibatte nella storia della musica moderna da quando Bob Dylan fece la sua apparizione nel circo rock. Brani come A Hard Rain’s Gonna Fall (direttamente ispirata alla poesia Howl di Allen Ginsberg) o Desolation Row, che nei loro dieci o passa minuti di durata erano composti esclusivamente di parole con nessuna concessione ai solismi strumentali, crearono, negli anni Sessanta, la sicurezza che, come disse Allen Ginsberg, “la poesia era tornata fra le gente. Non è più nei libri ma la si ascolta nei jukebox”.
Ma nonostante Dylan (il cui lavoro, per carità, non è sempre vicino ai canoni poetici) e altri illustri colleghi come Lou Reed, Joni Mitchell, Leonard Cohen, Paul Simon, David Bowie, Nick Cave, ancora oggi c’è una netta divisione fra chi pensa che la canzone sia poesia e chi rigetta decisamente questo punto di vista. Certo è che le quattro consecutive nomination dello stesso Bob Dylan al Premio Nobel per la Letteratura aggiungono legna al fuoco della sacra polemica.
Ma i cantanti si sono anche cimentati, negli anni, nel tentativo di musicare opere poetiche già esistenti, ed è un altro lato della medaglia. Se due lavori discografici come Non al denaro non all’amore né al cielo (di Fabrizio De Andrè), messa in musica di alcuni estratti dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters e Branduardi canta Yeats, operazione analoga sulle poesie del più famoso poeta irlandese W.B. Yeats sono due autentici casi, unici forse al mondo, la canzone rock è ricca di tentativi di messa in musica del lavoro di poeti più o meno famosi.
I due dischi citati sono opere importanti che, nonostante il lavoro di traduzione nella nostra lingua, hanno fatto parlare di sé anche internazionalmente: non sono molti, infatti, i casi analoghi, e sono la testimonianza di come il linguaggio poetico, con minimi adattamenti, si possa unire ad su una base musicale. Nonostante le critiche che i puristi della poesia hanno puntualmente scagliato, specialmente contro De Andrè.
Sono soprattutto gli anglosassoni, in special modo gli irlandesi, quelli che hanno sempre amato questo genere di operazione, a testimonianza del rapporto stretto là esistente tra mondo della canzone e letteratura ‘alta’. Sicuramente per primo Van Morrison, che non ha lesinato negli anni le citazioni ‘colte’ tratte dal repertorio soprattutto di Yeats (Here Comes The Night, ad esempio, contiene una parafrasi dell’epitaffio, tratto dal poema Under Ben Bulben, inciso sulla tomba del poeta). Nell’album A Sense Of Wonder (1985), seppur non su musica sua, ha quindi inciso il poema Let The Slave / The Price Of Experience di William Blake, mentre la sua versione di Crazy Jane On God (di Yeats) fu bloccata dagli eredi del poeta perché i suoi versi, secondo loro, andavano messi in musica secondo stilemi classici e non secondo “volgari ritmi rock”. A Branduardi la concessione di musicare i versi del poeta fu concessa con meno fatica. Ma i dischi dell’irlandese sono ricchi di citazioni poetiche, arrivando a comprendere Kerouac e Rimbaud in più di un’occasione.
Un altro che ha spesso ‘intinto’ la sua musica nella poesia è lo scozzese Mike Scott: Fisherman’s Blues contiene diversi riferimenti alla poesia di Yeats The Fisherman, mentre The Stolen Child e Love And Death sono due adattamenti in musica di poesie sempre dell’amato Yeats, il quale infine viene celebrato nel disco tributo Now And In Time To Be del ’97 che accosta, a registrazioni inedite della voce del poeta stesso, poesie musicate da Scott, Morrison, Shane MacGowan, Karl Wallinger e Christy Moore. Evidentemente gli eredi di Yeats, negli anni, hanno cambiato idea sul rock…
Da non dimenticare i Virgin Prunes di Gavin Friday, che si erano accostati a Oscar Wilde, citando una lunga parte di The Ballad Of Reading Gaol nella loro Theme For Thoughts. Da ricordare sono anche gli esempi di Leo Ferré e Jacques Brel che hanno musicato poesie di Baudelaire e Rimbaud.
Per quanto riguarda il poeta/scrittore più amato dai musicisti rock americani, Jack Kerouac, basti ricordare lo splendido tributo Kicks Joy Darkness, uscito nel 1997 (vedi JAM 23, dicembre 1996), che comprende interpretazioni di poesie dell’eroe della beat generation incise da un cast altisonante che fra gli altri contava Michael Stipe, Steven Tyler, Joe Strummer, John Cale, Lee Ranaldo, Eddie Vedder, Patti Smith, Warren Zevon, Jeff Buckley ed Eric Andersen.
Francesco De Gregori, spesso soprannominato “il poeta” per la ricchezza del linguaggio delle sue canzoni, avversa con forza il concetto di canzone-poesia: “Il testo di una canzone”, dice, “usa schemi tecnici che sono tipici della poesia: il verso, la ritmica, la ricerca della rima. Nella musica però compaiono elementi diversi, ad esempio ci sono le pause. Non solo. Puoi fare un verso di sette sillabe e subito dopo di nove sillabe. In poesia no, i conti non tornerebbero. In musica sì, perché al posto della sillaba che manca metti una pausa musicale. Rimane quindi il fatto che le canzoni hanno una storia loro. Si può dire, è vero, che oggi le canzoni, soprattutto tra i giovani, abbiano un po’ preso lo spazio che una volta aveva la poesia. Ma sono due oggetti diversi. Io mi incazzo sempre quando mi dicono: ‘Questa canzone è una bellissima poesia’. No, questa canzone semmai è una bellissima canzone. Di poesie brutte te ne posso dare a chili. Se volessi scrivere poesie, perché dovrei faticare con una chitarra? Sono un lavoratore manuale, non sono un intellettuale. I poeti stanno nell’empireo, io sulle dita delle mani c’ho i calli…”.
Preciso. Ma si può controbattere, volendo, punto per punto quanto sostiene De Gregori. Ad esempio, ricordando che la poesia (già quando Omero componeva la sua Odissea, considerato il primo testo di poesia che ci sia giunto dall’antichità), nasceva come canto ritmico e con un preciso sostegno musicale (oggi completamente perso) da eseguire in pubblico (proprio come una canzone a un concerto rock) e non come un testo scritto, perché la scrittura ancora non esisteva neanche e la forma orale-musicale era l’unica forma di comunicazione esistente in campo letterario. Oppure, che oggi certe regole fisse di scrittura, cioè l’uso delle sillabe, della metrica, della rima, sono state completamente scardinate dai poeti stessi, basti ad esempio pensare al lavoro dei poeti della beat generation (Ginsberg, Kerouac, McClure) che si sono ricollegati direttamente all’antica esperienza di forma parola/musica riproponendo il verso libero, facendolo mutuare dal prolungato ascolto di musica jazz e dall’improvvisazione poetica su di esso.
Quando W.B. Yeats, infine, ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, nel 1923, di lui si disse che “un elemento fondamentale della sua poetica è la musicalità, e la canzone gioca una grande parte nel suo lavoro”.
Certo, ha pure ragione De Gregori a sostenere che una poesia nasce per soddisfare un’esigenza e la canzone una assai diversa da essa.
Sul versante opposto a quello di De Gregori è invece Omar Pedrini, fondatore della rock band bresciana Timoria, e oggi autentico ‘musicista umanista’, impegnato com’è a 360° nella poesia, nel cinema, nella pittura oltre che nella musica, inventore del Brescia Music Arts, manifestazione multidisciplinare che appunto unisce e promuove tutte queste forme d’arte. Al festival sono intervenuti fra gli altri artisti come Jovanotti, Battiato, Subsonica, Manuel Agnelli, Massimo Volume per la musica; pittori come Marco Lodola e Daniele Galliano; scrittori come Aldo Nove, Raul Montanari, Tiziano Scarpa e Isabella Santacroce; per il cinema è attivo un gemellaggio con il New York Film Festival.
Per Omar il problema andrebbe spostato sulla qualità delle canzoni: “Se parli di un De Andrè, allora si tratta sicuramente di poesia. Ogni mese dedico due giornate alle scuole, facendo lezioni di letteratura con la chitarra, e gli studenti mi chiedono sempre perché De Andrè o Piero Ciampi non vengono messi nelle antologie scolastiche. Certo, bisogna saper riconoscere la qualità del cantante, perché ce ne sono molti che abusano, scrivono testi che fanno schifo e si spacciano per poeti”.
Nonostante ciò, Omar è consapevole che per scrivere una canzone o scrivere una poesia ci vogliono due metodologie ben diverse fra loro: “Personalmente sacrifico molto della parola quando scrivo una canzone. Le canzoni dei Timoria nascono dalle mie poesie, che non ho mai pubblicato. Quando scrivo una canzone sono però costretto a sacrificare le parole per adattarle alla musica: a volte mi trovo costretto a sostituire dei termini perché voglio che la parola sia musicale. Se in una poesia dico ‘fintanto che’, e nella canzone sta meglio ‘nel momento che’, anche se è più brutto dal punto di vista estetico, lo uso perché musicalmente si adatta meglio. Altri come De Andrè o Guccini erano schiavi del testo; secondo me le loro canzoni senza il testo non reggono. La genialità di De Andrè stava nella parola, anche se ha fatto musiche più che dignitose”.
Oltre a questo, Omar Pedrini si è cimentato anche nel musicare poesie già esistenti, come Siempre nascer di Pablo Neruda nel primo disco dei Timoria, oppure Fuga di giovinezza di Herman Hesse: “Attenzione, però, io specifico sempre che si tratta di ‘liberi adattamenti dalla poesia di…’, perché per musicarle devi per forza cambiarle un po’. Non è un plagio come hanno fatto altri tipo Ron con Shakespeare o Zucchero con Piero Ciampi, senza preoccuparsi di dichiarare dove erano andati a ‘prendere’ certi versi. Se ho potuto mandare qualche fan dei Timoria a comprare un libro di Neruda dopo aver sentito il mio adattamento musicale, ne sono totalmente felice e appagato”.
Per la cronaca, il nuovo disco dei Timoria, in uscita in questo periodo, vede l’illustre partecipazione di Lawrence Ferlinghetti, che ha inciso appositamente una sua “poesia sulla poesia”.
L’opinione di Angelo Branduardi, che ha fatto un intero disco musicando le poesie di un grande classico come W.B. Yeats, tiene conto di un fattore tecnico per lui inalterabile, e perciò finisce per concordare pienamente con De Gregori. Si tratta di un giudizio che non si può ignorare.
“La forma canzone è diversa da quella poetica. Nella canzone non si dovrebbe mai scindere la parte musicale da quella letteraria, tanto che le due cose non dovrebbero poter stare in piedi da sole. Viene da sé che la forma letteraria della canzone non debba per forza essere una poesia. È pur vero che nella poesia c’è una musicalità intrinseca. Gli antichi romani ad esempio declamavano la poesia con una scansione ritmica diversa da quella con cui parlavano in modo tale da farla suonare proprio come una forma musicale. Tecnicamente è però sbagliato mettere delle note su ciò che è poeticamente preesistente, sarebbe come mettere note su qualcosa che è già musicale: un po’ come ascoltare due dischi diversi in contemporanea, il risultato è una cacofonia. Questa è la teoria, naturalmente, poi uno fa la pratica e succede come a me con Yeats, che ho fatto proprio questa cosa ‘sbagliata’. Yeats mi piaceva talmente tanto che lo volevo musicare assolutamente che me ne sono fregato di queste regole.”
Fernanda Pivano, da anni, è la personalità più nota del mondo letterario a difendere a spada tratta il binomio canzone/poesia. Inimicandosi, con questo, l’ambiente accademico. Ma Fernanda è abituata a questo ostracismo: in fondo tutta la sua vita è stata spesa per aprire brecce nella torre d’avorio dei letterati italiani, sin da quando alla fine degli anni Cinquanta si dannava l’anima per trovare un editore che pubblicasse i libri di Jack Kerouac e Allen Ginsberg allora ritenuti osceni. O meglio, più che osceni, di scarso valore letterario, che è un po’ la colpa che sempre si dà alla canzone che vuole vestire gli abiti di poesia.
Negli anni 70 Fernanda fu il sostegno forte (nonché una sorta di consulente letterario) dietro alla coraggiosissima opera di Fabrizio De Andrè, quando musicò l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters nell’album del 1971 Non al denaro non all’amore né al cielo, un vero ‘attentato’ dei canzonettari al mondo dorato della poesia. Oggi con le introduzioni ai libri di Jovanotti e gli elogi a Ligabue, è un po’ il ‘passaporto’ col quale si cerca di sdoganare ancora una volta i cantanti per permettere loro l’ingresso nel mondo letterario. Il suo pensiero a proposito di canzone e poesia è notissimo e altrettanto entusiasta.
“La canzone è oggi l’equivalente di quello che erano i libri di poesia per la mia generazione. I ragazzi comprano i dischi come noi compravamo i libri, e va benissimo così. Da quando Bob Dylan, che merita senza nessun dubbio il Premio Nobel per la Letteratura, ha cominciato a scrivere canzoni che erano poesie, ci si dovrebbe mettere in testa che l’approccio alla poesia è completamente cambiato, è più libero e più vicino ai giovani.”
Niente e nessuno farà cambiare idea a Fernanda, anche se definire Ligabue il Kerouac italiano sembra un po’ eccessivo anche per chi sostiene la sua tesi. Ma la torre d’avorio in cui si nascondono i poeti ‘veri’ ha fatto quadrato ancora una volta, e proprio quest’anno, nel corso di un dibattito tenutosi al Premio Grinzane Cavour, durante una tavola rotonda, il poeta Maurizio Cucchi e il cantautore Gino Paoli, fra gli altri, hanno decretato senza ombra di dubbio l’incompatibilità assoluta fra poesia e canzone, e l’incomunicabilità totale fra i due linguaggi.
Sul fronte letterario, ad ogni buon conto, desta sorpresa la posizione di uno dei più grandi critici della storia del rock, quel Greil Marcus che in libri come Mystery Train, Dead Elvis o Invisible Republic, ha saputo dare dignità letteraria alla musica rock. A proposito della nomination di Bob Dylan al Premio Nobel per la Letteratura, ha dichiarato che se Dario Fo può vincere il Premio Nobel, allora può farlo anche Bob Dylan. Nel senso, cioè, che come quella di Dario Fo non è vera letteratura, neanche quella di Bob Dylan è vera poesia.
La posizione più equilibrata ci sembra quella che esprime Giorgio Checchin, musicista veneto e fondatore del prestigioso Poetry Festival di Conegliano (ad esso hanno partecipato negli anni personaggi prestigiosi come Allen Ginsberg, Gregory Corso, Andrea Zanzotto, Lou Reed e Francesco Guccini; vedi box).
“Non è facile trovare poesia nella canzone d’autore, però in alcuni casi ci sono esempi di livello assoluto. La poesia possiede una sua intrinseca musicalità, un ritmo musicale; è possibile tradurre gli accenti e l’intonazione della poesia in melodia. Non è vero però che la poesia in musica è più innovativa di quella tradizionale, anzi. È molto più tradizionale la poesia presente nelle canzoni: la critica di Zanzotto, con cui io sono d’accordo, è che lo stilema musicale imprigiona le possibilità e la libertà espressiva della parola; Zanzotto non nega che Dylan sia un poeta, sostiene però che Dylan è un poeta ‘vecchio’. L’uso obbligato della rima, ad esempio, radicalizza la musicalità e il ritmo, e in fondo retrodata la stessa storia della poesia che prima di Dylan aveva già scoperto il verso libero che fa a meno di rime e orpelli vari. Ai poeti è consentito un maggior margine di sperimentazione. È qui però che casca l’asino: l’impiego di stilemi poetici tradizionali rende più difficile l’affinamento qualitativo della poesia, obbligato come sei da schemi preordinati. Per questo è raro e difficile trovare esempi di poesia autentica nella canzone d’autore. Quando, però, sei in presenza di testimonianze di poesia autentica nella canzone, quasi sempre si tratta di poesia sublime, proprio perché i suoi metodi espressivi sono semplici e diretti: far poesia semplice comporta il genio.”
Interessante e inedito il parere di Fabrizio Lombardo, uno dei poeti giovani italiani più interessanti, esordiente con la raccolta Carte del cielo e vicedirettore della rivista di letteratura Versodove (www.pendragon.it/versodove) fondata a Bologna nel 1994 con lo scopo di indagare la scrittura contemporanea nei suoi aspetti più vari e la parola in ogni sua contaminazione. Sue poesie sono state tradotte in inglese, francese e slovacco. Lombardo ha iniziato come musicista rock, nel gruppo bolognese degli Esperia (al loro attivo anche un tour come supporter degli Anima). Dall’esperienza musicale Lombardo dice di aver portato con sé nella poesia “l’impianto ritmico, il peso che hanno i cosiddetti ‘inciampi’, gli scarti ritmici tanto che nella mia poesia è entrata una forma di punteggiatura che è una sbarra obliqua, che non è né un punto né una virgola ma proprio una sorta di contraccolpo, come certe cose del drum’n’bass”.
“Non mi vergogno a dire che la mia poesia è piena di riferimenti musicali, proprio perché cerco di portarla al di là del linguaggio stereotipato che ci viene ancora dalla scuola. La poesia, nel momento in cui un lettore la legge, subisce quel grande colpo che è il vuoto, il silenzio che ha attorno e perciò deve riempirlo con la propria voce. Nella canzone invece succede, anche quando il testo è molto bello e affascinante, che c’è sempre in primo piano la voce di qualcun altro, la voce del cantante. Nella poesia sei tu che trovi uno spazio, dopo che il poeta ha trovato il suo, nella canzone qualcun altro riempie questo spazio al posto tuo. È tutta qui secondo me la grande differenza tra canzone e poesia: sono come due territori che si fronteggiano, che si parlano. In campo musicale, poi, vi sono esempi, come nel lavoro dell’ultimo Fossati, in cui si nota una grande ricerca letteraria, ma la musica finisce per soccombere ad essa e il risultato è molto, molto freddo.”
“Non sono d’accordo, però, con chi sostiene che i giovani comprano i dischi come i loro fratelli più grandi compravano i libri di poesia: succede solo in Italia, dove probabilmente neanche i nostri fratelli maggiori compravano libri, perché in Italia i libri non li ha mai comprati nessuno. Ho vissuto un po’ di tempo in Irlanda, e lì i ragazzi comprano il disco degli U2 ma anche il libro di poesie di Yeats e li mettono insieme, sullo stesso scaffale, e così succede in gran parte del mondo. L’esempio di Lou Reed che recita poesie di poeti ispano-americani e di questi che recitano le canzoni di Lou Reed nelle coffee house è qualcosa di distante anni luce dalla nostra mentalità.”
Massimo De Paoli, studioso di letteratura e storico della lingua del Novecento, ha curato per la Garzanti un’antologia di autori di musica rap, usata nelle scuole come antologia di letteratura contemporanea. Il suo punto di vista è questo: “Canzone e poesia sono due generi diversi con regole diverse, con questo però ritengo che la canzone abbia una sua dignità artistica pari e non inferiore alla poesia colta. Intendo quel tipo di canzone che è fortemente debitrice della tradizione poetica codificata, quella che discende dal melodramma e dalla romanza e arriva appunto alla forma canzone. E qui esistono casi di canzoni assolutamente dignitose nella loro forma poetica, con il classico formato in sedicesimi, eccetera. Ma le leggi che regolano la scrittura di una canzone e di una poesia sono assolutamente diverse fra loro. Ma detto questo, non sono d’accordo che l’unica forma di cultura è quella alta, cioè quella che ignora il mondo della canzone, perché oggi la cultura è un qualcosa di massa e che ha abolito le distinzioni fra ‘alto’ e ‘basso’. Due linguaggi diversi ma con uguale dignità.
Paolo Conte, gli Stormy Six di alcuni anni fa: questi sono esempi di testi assolutamente validi dal punto di vista letterario”.
Alla fine, crediamo, ognuno resterà della sua idea. Bob Dylan diceva che “una canzone è qualunque cosa sia in grado di camminare con le sue gambe” e che “una poesia è una persona nuda”. Il resto non conta.
Probabilmente si tratta semplicemente di “allargare l’area della coscienza”, essere cioé capaci di cogliere quei momenti di poesia (rari, ma ci sono) presenti nel rock e quei momenti di poesia che hanno sconfinato nella musica. “Jack Kerouac capiva il jazz e come combinare la sua voce con la musica” ha scritto James Austin, responsabile per la Rhino Records del cofanetto The Jack Kerouac Collection. “Non leggeva le sue poesie, lui faceva una performance. La sua voce diventava l’equivalente del sassofono di Charlie Parker o della tromba di Dizzy Gillespie.”
Ann Charters, nella sua biografia Kerouac, ha colto il punto: “Jack si identificava di più con i geni musicali come Bud Powell, Charlie Parker, Billie Holiday, Lester Young, Gerry Mulligan e Thelonious Monk di quanto fece con qualunque esponente dell’ambiente letterario e di tutti i libri che aveva letto. Mexico City Blues (una raccolta di poesie, nda) è direttamente legato al jazz. Il suo metodo di composizione spontanea voleva fare la stessa cosa con le parole di quanto aveva ascoltato fare dai musicisti di bop con i loro strumenti. Quando Miles Davis suonava, Kerouac udiva le antiche sentenze poetiche di Marcel Proust”.
Magari, se Omero fosse vivo oggi, chiamerebbe i Sonic Youth ad accompagnarlo mentre recita l’Odissea…