Dunque, fino a qualche anno fa un disco usciva se almeno lo decideva un’etichetta. Che investiva in proprio sull’artista. Il quale, dal canto suo, doveva aver mostrato delle doti a qualcuno.
C’erano i magnate o i talent scout che ci capivano di musica. E non c’era quasi niente intorno, nessuna struttura parassita. Poi magari qualcuno cannava in pieno, come la Decca che, con tanto di lettera, suggeriva a quattro ragazzi di Liverpool di cambiare mestiere. Ci sta.
L’argomento rischia di diventare esteso, perciò vorrei circoscriverlo. Rimaniamo sul tema dei filtri.
C’era un produttore che investiva, c’era uno studio di registrazione e qualcuno che finanziava. C’erano anche meno dischi, costava parecchio produrli e distribuirli.
Immaginatevi (o ricordatelo) un mondo senza Internet, MP3, You Tube e Spotify: prima di ascoltare un disco, ci si doveva affidare al pensiero autorevole della critica musicale. C’erano giornalisti che ci capivano di musica e cultura, o che comunque identificavi come soggetti con idee precise e affidabili, magari per affinità ai tuoi gusti. Che promuovevano e bocciavano, senza sudditanze. Le recensioni servivano per comprare o meno i dischi, c’è poco da fare…
Uno tsunami inarrestabile di tecnologia, marketing e dilettantismo allo sbaraglio ha tolto qualsiasi filtro e qualsiasi mediazione.
Fare un disco oggi non costa quasi niente. E volendo, quel niente lo puoi pure raccogliere attraverso il crowdfunding. Le piattaforme non vanno troppo per il sottile e prendono cani e porci, cosa vuoi che rischino? Tanto la promozione la fa l’artista o pseudo tale di turno attraverso i suoi canali e il video da bimbominchia per incoraggiare il finanziamento del proprio Cd tocca a lui. Il sito ci guadagna sempre.
Etichette, editori, produttori, riviste musicali, manager… tutto saltato.
Rimangono i talent e gli uffici stampa, ma a loro cosa gliene frega di promuovere un artista o un prodotto imbarazzante spacciandolo per la nuova versione della storia di Cenerentola? Non è certo a loro che viene chiesto un filtro.
Tantopiù che si troverà sempre qualcuno che scriverà sul proprio blog o sulle migliaia di infestanti webzine una “recensione” roboante del disco in questione. Magari giusto per avere un accredito al concerto, o per sentirsi come Lester Bangs.
E che dire dei locali? Un tempo c’erano i vari Bloom o i Velvet (ciao indimenticabile Thomas!). C’era qualcuno che investiva con passione; e con competenza ti proponeva la band giusta da sentire. I Nirvana in Italia mica ci sono arrivati per caso.
Oggi un locale, se va bene ti fa suonare gratis, tanto c’è la fila fuori di U2 wannabe. Al massimo ti dà da bere. Alla peggio ti chiede un contributo per la promozione.
Maledetta promozione. Hai tolto i filtri generando un marasma di prodotti inutili, che vagano come spermatozoi nell’inconsapevole sogno di arrivare per primi.