25/03/2008

SHINE A LIGHT

I Rolling Stones secondo Martin Scorsese

Cosa accomuna i Rolling Stones e Martin Scorsese? La risposta istintiva è: la grandezza. In fondo, i primi sono per antonomasia the greatest rock’n’roll band in the world, sopravvissuti a quattro decadi di mode, turbolenze e successi, mentre il secondo ha Oscar, Golden Globe e Palme d’oro da mettere in giardino come nanetti. Vero, ma non del tutto esaustivo. Shine A Light, pellicola figlia dell’idillio newyorchese tra il gruppo e il regista di Taxi Driver, palesa infatti una comunanza che poggia su basi più ampie, ma al tempo stesso di rara unicità.
I 122 minuti del documentario-testimonianza delle serate rotolanti del 29 ottobre e del 1° novembre 2006 al Beacon Theatre, costituiscono infatti il manifesto anni Duemila di una visione michelangiolesca dell’arte, ormai appannaggio di pochi. Se per gli Stones fare musica non significa aggiungere note al silenzio, ma costellare di pause una linea melodica, per Scorsese il cinema non è spegnere il buio con immagini, ma sottrarre quelle superflue alla luce. In questo senso, Shine A Light, prima ancora di essere un lungometraggio su una banda rock al lavoro, simboleggia il punto d’incontro tra identità sospinte da quel “less is more”, che Keith Richards mise nero su bianco in un’intervista di anni fa.
Così, Scorsese, nel seminare più di venti telecamere ad alta definizione nel teatro di Broadway nato nel 1928 come sala cinematografica, oltre a sfidare l’idiosincrasia di Mick Jagger per i corpi estranei tra lui e il pubblico, dà forma ad un disegno ben preciso. Affondare i canini nella giugulare degli Stones, succhiare l’essenza e sputarla in faccia agli spettatori. Fermare l’attimo che vale una vita, scovare e rivelare un dettaglio ad ogni inquadratura. “Questa band è diversa dal resto del mondo?”, pare urlare il regista alla sua roboante troupe di collaboratori (su tutti, Robert Richardson e John Toll, Oscar per JFK e Braveheart). “E allora voglio che si veda solo una cosa: quella differenza”. Pertanto, in ossequio ad una cifra stilistica che ricorda parecchio The Last Waltz, altra celebre opera musicale firmata dall’uomo dal senso dell’immagine cresciuto lungo i marciapiedi di Little Italy, i campi larghi non hanno diritto d’asilo. L’obiettivo fruga incessantemente tra le rughe e le falangi dei quattro rocker, alla ricerca nervosa e spasmodica di quanto possa spiegare come mai Keith Richards, quando sputa il mozzicone pendulo tra le labbra, o Mick Jagger, se accarezza il fondoschiena di una corista, ricevano oggi un applauso più fragoroso di quello che si leva per i loro gesti artistici di rilievo.
Il risultato è senza precedenti nella nutrita filmografia degli Stones. Se Sympathy For The Devil e Gimme Shelter, per citare due tra i titoli più pregevoli, approfondiscono in maniera interessante  pagine specifiche della vicenda del gruppo, Shine A Light va oltre, offrendo una lettura dalla A alla Z degli Stones e del loro status di eccellenza. Lo fa sin dalle prime battute, in cui Jagger (più che mai amministratore delegato della band) e il regista battibeccano a distanza sui dettagli costruttivi del palco, su quanto invasiva sarà, per il pubblico nel teatro, la realizzazione del film e su una set list richiesta da Scorsese settimane prima e che gli arriverà solo a concerto iniziato. Intendiamoci, niente di facile da credere, ma una seducente rappresentazione del lessico di uomini da centinaia di migliaia di euro a serata.
Analogo ragionamento vale per la lunga sequenza preshow, dedicata al meet & greet tra la band, l’ex presidente Bill Clinton (poi sul palco, per battere il calcio d’inizio dell’esibizione, quale “regalo di compleanno”) e il suo sterminato codazzo, comprensivo dell’anziana madre e di bimbi intimoriti dalla maschera piratesca di Richards. Apparentemente, la parentesi più comprimibile e meno utile del film, ma da antologia per il piglio serioso tenuto da Jagger nello spiegare all’illustre ospite “ok, la tua scorta occuperà la prima balconata” e per la battuta regalata alle telecamere da Keith, pochi minuti prima dell’arrivo del già governatore dell’Arkansas: “Hi Clinton, I’m debauched” (debosciato, che suona “debushed”, giocando con l’assonanza sul cognome dell’attuale presidente).
Una volta che il riff di Jumpin’ Jack Flash scuote Upper Manhattan, tuttavia, le cose si fanno maledettamente serie e Scorsese coglie i momenti rivelatori del codice genetico degli Stones con una continuità da far impallidire il più freddo cecchino della Nba. Quello da lacrimuccia, ma che è nel contempo il vero segreto della longevità del caravanserraglio Stones e vale da solo il prezzo del biglietto, arriva su Far Away Eyes. Sul soffice tappeto ricamato da Wood alla pedal steel (in uno dei pochi attimi in cui non si abbandona a frizzi e lazzi che ormai, va detto, somigliano troppo a una pantomima di se stesso), Jagger canta e Richards deve unirsi a lui per il coro del ritornello. Ognuno ha di fronte un’asta con microfono, ma il pirata non ci sta e va verso il compagno. Gli butta un braccio sulla spalla e, unendo la sua fronte a quella di Mick, infila i versi che seguono con un’intensità e una tenerezza da ridurre Romeo e Giulietta a due imbranati. Finché esisteranno i Glimmer Twins, ci sarà speranza.
Come se non bastasse, in un tourbillon emotivo, “Marty” Scorsese si prende poi il lusso di mettere fine a una diatriba che tiene banco dalla notte dei tempi, ovvero: chi è il miglior chitarrista dei due nella line-up? Durante Connection, la musica sfuma, le immagini dissolvono e, in una sorta di transfer a una dimensione parallela, aperto da un dogmatico Richards con le parole “solo sul palco riusciamo ad essere veramente noi stessi”, la coppia a sei corde, a turno, risponde cuore in mano al cruciale interrogativo. Ronnie: “Sono io il più bravo e lui lo sa bene”. Keith: “Immaginavo che lo avrebbe detto, ma il fatto è che io conosco la verità, ovvero che siamo entrambi piuttosto scarsi, però in due valiamo più di dieci”. Le linee del volto sfingeo di Richards migrano quindi in una gustosa risata e il pubblico nel cinema lo segue a ruota, ma c’è da essere seri: sullo schermo è appena passata la confidenza che le colonne di Rolling Stone, Uncut o Mojo non hanno mai avuto l’onore di ospitare. L’atmosfera torna gigiona quando l’intervistatore incalza il papà di capitan Jack Sparrow: “È vero che Ronnie ha avuto il posto soprattutto perché ti tiene botta nel far festa?”. Risposta: “È uno tosto, ma io lo massacro”. Questa, invece, l’avevamo già sentita, ma fa sempre il suo effetto, per cui via alla seconda risata collettiva.

In fondo, il non prendersi troppo sul serio, una volta giù dal palco, è indiscutibilmente l’altro ingrediente dell’elisir di lunga vita dei Rolling Stones. Scorsese l’ha capito al volo ed è per questo che, oltre allo spezzone di poc’anzi, non ha girato ulteriori interviste. A punteggiare in modo lapidario le diciannove canzoni del concerto sono infatti frammenti di servizi giornalistici degli ultimi quarant’anni, in cui i nostri fanno a gara a chi la spara più grossa e a farsi il bidet con il politically correct. I fan più attenti li avranno riconosciuti tutti: le interviste tratte da Charlie Is My Darling (primo film sulla band), il Dick Cavett Show, la conversazione parallela tra Jagger e Richards per France 2 nel 1990, il siparietto di Mick alla tv giapponese negli anni 80 e via dicendo. Perle di tv “rotolante” viste innumerevoli volte prima (ricompaiono, più o meno puntualmente, ad ogni speciale sul gruppo, normalmente alla vigilia di un tour). Però, shakerate dal regista italo-americano, assumono una luce diversa. È come se, a ogni occasione in cui un giornalista ha posto una domanda idiota a un Rolling Stone (sul gradino più alto del podio, guarda caso, “sarà il vostro ultimo tour?”), gli avesse allungato la vita, spingendo d’ufficio quelle fesserie televisive nell’iconografia del gruppo. Una sensazione, a dir poco, impagabile.
Il volto dei quattro reduci dell’avventura iniziata nei dintorni di Londra nel 1962 non è però esclusivamente angelico. Testimonianze eloquenti potrebbero essere rese, in merito, da Mick Taylor (chitarrista sceso da bordo nel 1974), o da Bill Wyman (bassista andatosene nel 1993), entrambi vittime della ricorrente cleptomania di Jagger e Richards, primatisti mondiali nell’accaparrarsi i crediti di parti musicali composte dai compagni. Ecco, se una critica va mossa a Shine A Light, essa riguarda il fatto che, nel rappresentare la magnificenza del gruppo, ricorrendo anche a materiale d’archivio, il film dimentica (per usare un eufemismo) figure che al raggiungimento di cotanta grandeur hanno contribuito concretamente. Andando a memoria, il primo manager Andrew Loog Oldham (e dove sarebbero arrivati i nostri, se costui non avesse inventato il dualismo con i Beatles?), il chitarrista Brian Jones (chi procurò i primi ingaggi al gruppo?), oltre ai già menzionati Taylor (i fraseggi di Exile On Main Street non hanno bisogno di spiegazioni) e Wyman (artefice, assieme al batterista Charlie Watts, della mitologia di una sezione ritmica “che insegue le chitarre”). Non occorreva dedicare loro metà film, sarebbe bastata una foto nei titoli di coda.
Va bene, non sono più della partita e la pellicola di Scorsese guarda agli Stones dei nostri giorni, ma fingere che non siano esistiti è esercizio che Mick Jagger (tra i più accaniti sostenitori del “revisionismo” della storia delle Pietre, vedi la struttura del libro According To The Rolling Stones) non può pretendere dal pubblico.
Però, anche su questo aspetto, tremendamente delicato, Scorsese riesce a risultare pungente. Lo fa con una scelta audace, vale a dire mostrando il rovescio della medaglia di Pietra. Nelle immagini dello show al Beacon non v’è infatti censura alcuna dei fotogrammi che scodellano assenza di altruismo e indelicatezza, in particolare del frontman. Nel presentare una suggestiva As Tears Go By, Jagger pesca dal cassetto dei ricordi: “È una canzone che eseguiamo per la prima volta, perché quando l’abbiamo scritta eravamo un po’ imbarazzati e l’abbiamo ceduta a un’altra persona”. Andrebbe tutto bene, non fosse che quel “terzo individuo” risponda al nome di Marianne Faithfull, compagna del cantante nei Sixties e che di lui rimase anche incinta (perdendo poi purtroppo la bimba, che avrebbe dovuto chiamarsi Corinna, durante la gravidanza). Sarebbe stato facile e probabilmente risolutivo, per il regista, ghigliottinare quei centimetri di pellicola e il fatto che ciò non sia accaduto rende onore, una volta di più, alla validità del prodotto finale.

Spostando l’analisi sul versante musicale, a Shine A Light va riconosciuto pure il merito di consentire un ragionamento definitivo sulle apparizioni di altri artisti negli spettacoli di Jagger e compagnia. I fan identificano la musica della band con le quattro persone che la compongono, al punto da non aver mai sopportato intrusioni, seppur nobili, sul palco. Va da sé che quando è successo, lo si è dovuto nove volte su dieci all’equazione squisitamente discografica: “Gli Stones vendono; tu suoni con loro; da domani venderai di più anche tu”. Impossibile spiegare altrimenti come Justin Timberlake possa essere finito fra Jagger e Richards (nel 2003, a Toronto). Nel caso del Beacon, se ciò vale per la comparsata di Jack White (la Loving Cup cui presta voce e chitarra non riesce ad andare oltre lo status di “decorosa”), mentre Christina Aguilera smentisce con forza il pregiudizio che chiunque ha entrando in sala (la ragazza, oltre a forme che calamitano all’istante le mani di nonno Mick, possiede corde vocali capaci di blueseggiare in scioltezza su Live With Me). Ma è Buddy Guy a regalare un vero “life defining moment”, per dirla con parole care ad Andrew Oldham.
Il terreno su cui il bluesman della Louisana e i discoli inglesi scorrazzano assieme è Champagne And Reefer. A poche battute dall’inizio, quando la temperatura è già a livelli da forno crematorio grazie alla scintilla scoccata seduta stante tra il frontman e l’ospite, Scorsese oltraggia tutte le leggi della cinematografia e butta una telecamera in faccia a Guy per un tempo esagerato. Forse 5 secondi, forse di più, sta di fatto che tra le poltrone del cinema sembra un mese. Lo sguardo di quell’uomo fulmina qualsiasi coppia di bulbi oculari incontri sulla sua traiettoria. Sul palco, da quel momento, c’è una presenza in più: Belzebù, venuto a mostrare come, tra le anime di cui ha fatto incetta, vi siano anche quelle dei quattro sudditi di Sua Maestà. Il brano portato alla notorietà da Muddy Waters fila come una F1 su un rettilineo. Non è più musica, è qualcosa che sfugge di mano a tutti (Scorsese compreso). Se ne renderà conto per primo Richards, che alla fine del pezzo non riuscirà a fare altro che slacciarsi la chitarra e allungarla al bluesman, dicendogli “It’s yours”, in un monumentale omaggio.
Guardando strettamente agli Stones, per una Sympathy For The Devil e una Just My Imagination che non sfigurano, ma sono state suonate meglio in altre serate di quello stesso tour, appaiono da menzione d’onore le versioni di Some Girls (con eloquente strizzata d’occhiolino tra Keith e Watts, mentre Jagger canta “Some girls give me children / I never asked them for”) e She Was Hot (in cui i vocals della provocante Lisa Fisher innalzano il brano di due spanne rispetto al contesto dell’album su cui uscì nel 1983). I cavalli di battaglia finali Start Me Up, Brown Sugar e Satisfaction confermano la statura del gruppo (anche se, alla lunga, lo stuolo di bellocce indaffarate ad agitarsi nelle prime file è fastidioso, poiché diventa evidente che sono lì per lavoro, senza manco conoscere i nomi dei musicisti sul palco) e la scaletta dello show, con notevoli differenze rispetto alle esibizioni negli stadi di quel periodo, già basterebbe a far parlare di evento nell’evento.
Anche per l’onestà nel mettere in mostra gli alti e bassi che una rock band, anzi che la rock band per eccellenza, può attraversare in una serata, Shine A Light – con la sua capacità di rispondere a un’infinità di domande che tanti, dal fan più accanito al semplice appassionato, si erano posti invano sino ad oggi in fatto di Rolling Stones – sorpassa di anni luce qualsiasi precedente tentativo di rivelare cinematograficamente la quintessenza del gruppo. Demolisce un trascorso di esperienze finite grossolanamente in alcuni casi (Cocksucker Blues, mai uscito, di Robert Frank è quello più lampante) e riuscite solo in parte in altri (vedi il live Ladies And Gentlemen, di Rollin Binzer, del 1972). Martin Scorsese non solo pianta la freccia dritta nel cuore del bersaglio, ma va oltre persino nelle conseguenze. A titoli di coda iniziati, prima che spunti la foto di Ahmet Ertgun (cui il film è dedicato, poiché scomparso proprio a seguito delle conseguenze di una caduta occorsa nel backstage del Beacon), un dubbio si impossessa dello spettatore: ci sarà un prossimo passo, per gli Stones, a quarantasei anni dal primo vagito? Rischia, stavolta, di non essere solo una curiosità insulsa da cronisti a caccia di scoop a basso prezzo, o di un gestaccio di Richards da buttare in prima pagina, ma non importa. Anche se la risposta dovesse disgraziatamente essere “no”, anche se quello immortalato tra le pareti del Beacon finisse col trasformarsi nel secondo ultimo valzer messo in scena da Marty, Shine A Light consegna alla band (e al mondo) un lasciapassare verso l’infinito.

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