22/03/2007

Sleater-Kinney

Giovani donne crescono

Una cosa è stare in una band di ragazze, un’altra è durare. Nessuna delle girl band che hanno percorso il cammino della musica alternativa dagli anni 90 ad oggi ha osato tanto. Le Sleater-Kinney sono partite dai tumulti delle riot grrls, che sbraitano la loro ribellione contro il motto “sta’ zitta e obbedisci” ma citano Dickens e Catullo.

Carrie Brownstein e Corin Tucker, le due frontwomen, chitarriste e cantanti del gruppo che più tardi avrebbe accolto l’attuale batterista Janet Weiss, sono cresciute sotto le ali protettrici del queercore femminista più radicale nella piccola Olympia, nello Stato di Washington, incidendo il proprio esordio a metà degli anni 90 per la minuscola Chainsaw, di proprietà di Donna Dresch delle pioniere Team Dresch. Ma il femminismo, ha detto Carrie Brownstein in una chiacchierata informale con i fan, “è una lente attraverso la quale analizzo la società. Non è, in ogni caso, un club di cui faccio parte”. In più di dieci anni e nei sette album all’attivo, le Sleater-Kinney hanno mostrato il loro lato più leggero e quello d’assalto, giocato con il pop adolescenziale dei Sixties e doppiato la “tempesta e assalto” del punk più rabbioso; infine, per il loro ultimo disco, il granitico The Woods (vedi Jam 116), hanno lanciato l’ultima scommessa: lavorare con un nuovo produttore, Dave Fridmann, demiurgo dei Flaming Lips, con il quale hanno imbastito le session di registrazione più difficili della loro carriera. Se i contrasti e le difficoltà di comunicazione emerse durante il lavoro con Fridmann hanno portato il gruppo sull’orlo del collasso, i 48 minuti di The Woods rischiano di rimanere quelli davvero topici per la loro carriera. Cerebrali e spigolose, le Sleater-Kinney urlano adesso forti di una nuova religione, il sound selvaggio del garage, gli assoli di chitarra da museo hendrixiano, insomma tutti i topoi più classici del rock al maschile. Una contraddizione? Niente affatto. Sleater-Kinney sono sicure che il sesso forte debba accompagnare la presa di coscienza delle “ragazze arrabbiate” e non hanno mai voluto giocargli contro.

Oscuro, aggressivo e labirintico, The Woods non si vergogna di sguinzagliare una fiducia sfrontata nei propri mezzi, compreso il vibrato da campo di battaglia di Corin Tucker, da sempre il marchio di fabbrica del gruppo. Il titolo del disco (“La foresta”) intende suggerire l’isolamento dello studio di Fridmann a Cassadaga, nello Stato di New York, in cui il lavoro è stato registrato quasi interamente dal vivo. “Volevamo un titolo che potesse riflettere la corposità del disco” ha spiegato Janet Weiss alla rivista on line Playlouder “qualcosa di spaventoso e fosco e che trasmettesse sensazioni di insicurezza. Volevamo che il disco non rimanesse passivo. Doveva essere ruvido e diverso”. In The Fox, il brano d’esordio, Corin Tucker snocciola una sorta di filastrocca per bambini, in cui una volpe astuta prova a manovrare un’anatra ingenua.

Non sembra proprio il cammino che le tre musiciste hanno avviato con i loro fan. A tutt’oggi suonano soltanto nelle sale all ages, quelle in cui anche i giovanissimi possono entrare perché non si serve alcol, e chattano con fan alle prese con crisi adolescenziali, studenti che chiedono lumi su corsi universitari (Brownstein è laureata in sociolinguistica) e ragazzi padre incerti su quale cammino offrire alle figlie pre-adolescenti. Nel frattempo, rimangono fieramente fedeli ai dettami del mondo indipendente, anche se il loro recente passaggio alla Sub Pop, dopo gli anni di militanza accanto alla piccola, ma autorevole, Kills Rock Star, ha fatto storcere qualche naso. È chiaro: per loro è il momento di andare avanti, tagliare definitivamente i ponti con il passato da eroine di provincia. E sorpresa: il trio ha prodotto il suo lavoro più abrasivo quando il rock duro sembra non avere più niente da dire. Un caso? Forse. Sta di fatto che già con All Hands On The Bad One, uscito nel 2000 dopo l’introverso The Hot Rock, il gruppo virava a 180 gradi rispetto al passato in direzione di un pop agile e raffinato, con la batterista Janet Weiss a riempire le armonie vocali più eleganti, esuberanti e giocose della loro carriera. You’re No Rock’n’Roll Fun, nasconde, dietro una filastrocca infantile e caramellosa quanto basta, la spada che le Sleater-Kinney infilzano contro la boria dei gruppi di soli uomini. “Non sei proprio divertente / Sei come un’opera d’arte / Che non si può toccare / Hai sempre la testa fra le nuvole / Sempre lì a scrivere le tue canzoni / Ma quando mai te ne tornerai con i piedi per terra?”.

Da parte loro, il trio condisce storie di gossip adatte il giusto a stuzzicare l’interesse. Brownstein e Tucker infatti sono uscite assieme per qualche anno sin dai tempi del loro esordio nel 1994, ma la relazione tra le due è giunta al bivio durante le incisioni di Dig Me Out (1996), disco con il quale il gruppo è uscito definitivamente alla ribalta. One More Hour dettaglia il momento della rottura senza pudori di sorta. La band comunque continuerà ad esistere, segno che le esigenze del lavoro insieme e l’amalgama degli intelletti conta più di ogni ripicca personale.

Sarà il tour successivo alla pubblicazione di All Hands On The Bad One ad agire come cartina di tornasole dei problemi personali che continuano ad agitarsi al loro interno. In modo ancora più inusuale, il gruppo decide di ricorrere alla terapia per trovare le ragioni della propria crescente insoddisfazione. Il passo successivo consiste nel ritrovare i necessari spazi vitali e distanziarsi l’una dall’altra, almeno un per un po’. Janet Weiss torna a lavorare al progetto Quasi con l’ex marito Sam Coomes; Corin, che nel frattempo ha sposato il filmmaker Lance Bangs (autore per i R.E.M. del documentario Road Movie) saluta l’arrivo del figlio Marshall; Brownstein attende tempi migliori. I concerti del 2003 con i Pearl Jam servono a familiarizzare il gruppo con gli spazi delle grandi arene. Costrette ad architettare nuove risorse per coprire le decine di metri che le separano dal pubblico, le Sleater-Kinney imparano ad allungare i suoni, in improvvisazioni che durano cinque minuti e più. The Woods nascerà così. Vedere Rollercoaster che risuona di Creedence Clearwater Revival con il ritornello rubato a Patti Smith. Vedere le progressioni discendenti di Wilderness e lo stacco a tutto braccio preso dai Kinks, come anche le percussioni da sabba di streghe di What’s Mine Is Yours. Vedere, infine, il piglio zeppeliniano degli 11 minuti di Let’s Call It Love nel quale gli assoli di Brownstein si stemperano in un contrappunto strumentale possente, provocatorio, arrogante e rissoso.

Non che le storie raccontate nei dieci brani trasmettano un immaginario più conciliante. Dal diario-confessione di un’adolescente che si getta dal Golden Gate Bridge, al quadro inquietante di violenza domestica della conclusiva Night Light. Pensare a The Woods come a un’opera rigida e monolitica sarebbe, in ogni caso, un errore. Modern Girl sfrutta la progressione di una perfetta canzone pop con suoni liquidi e un’armonica distorta da Alice nel paese delle meraviglie, con Brownstein che canta di una ragazza “che si è circondata di libri e computer per poi capire di sentirsi vuota dentro”.

Per le Sleater-Kinney The Woods sembra una nuova chiamata alle armi, il coraggio di abbandonare il cinismo che “inibisce come artisti o cittadini. Stiamo sgusciando fuori dai ruoli che ci sono stati assegnati” spiega Brownstein. “La gente stava cominciando a classificarci. Volevamo soltanto essere libere”.

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