15/05/2024

È solo rock ‘n’ roll? Un’intervista a Pino Casamassima

Il nuovo libro Diarkos tra rock e controcultura giovanile

 

È solo rock ‘n’ roll? La domanda delle domande, altro che semplice disco dei Rolling Stones. A tale vexata quaestio, ancora più urgente vista la storicizzazione della cultura rock classica, risponde Pino Casamassima nel nuovo libro per Diarkos Is It Only Rock ‘n’ Roll? Breve storia della canzone di protesta e dei movimenti giovanili. Già nel sottotitolo si intuisce il percorso del prolifico giornalista e scrittore: la storia del rock è profondamente connessa a quella dei movimenti giovanili, della protesta e della controcultura. Anche in Italia, con sfumature più o meno marcate per ogni nazione. Ne parliamo con lui.

 

Rispondo io alla domanda, caro Pino, e te la rilancio: non è solo rock ‘n’ roll, non è stata solo musica ma anche politica, arte, costume, società. La cultura rock ha profondamente influenzato la storia del Novecento, possiamo dirlo?

Certamente. Non a caso, come scrivo nell’introduzione, quel libro non è la storia del rock (non ce ne sarebbe stato bisogno, a fronte dei tanti già pubblicati, molti dei quali di pregio), ma una tesi: il rock ha profondamente influenzato i movimenti giovanili e viceversa: basta leggere i testi degli album che erano spesso dei concept, non singole canzonette infilate in un 33 giri.

 

Nel 1965 i Beatles non cantano più di amori adolescenziali e letterine, Bob Dylan e l’influenza della Beat Generation dettano legge. Si trova in questo fermento la nascita della cultura rock?

Ho sempre ascritto i Beatles nell’alveo del Pop. Per quanto riguarda il costume, credo che maggiore influenza su di essi abbiano avuto Dylan e gli Stones: del primo non bisogna spiegare il perché, dei secondi vorrei sottolineare quella cifra trasgressiva a livello estetico ed etico (quindi, politico), come dimostra ad esempio una canzone come Gimme Shelter sui bambini del Vietnam: non a caso, la loro fu la rock roll band di quella guerra. La Beat Generation trovò il suo canto del cigno a Woodstock dopo il funeral party di Frisco di due anni prima da parte della cultura hippy. Dopo Woodstock iniziò un nuovo tempo, segnato dal progressive che sperimentò nuove sonorità anche per l’avvento di nuovi strumenti che utilizzavano una elettronica inesistente nel decennio precedente. Ricordo un concerto di Battiato del 1973, ossia prima che si consegnasse al Pop con notevole vantaggio economico, di sola sperimentazione: uscì vivo da quel concerto per puro miracolo.

 

A proposito di Dylan, la cultura rock aveva bisogno di un’onorificenza come il Nobel?

La cultura rock (ma Dylan è rock…?) no. Lui, sì. Posso testimoniare che passavamo i pomeriggi a tradurre i suoi testi. All’epoca internet era lontano anni luce. Abbiamo imparato più inglese traducendo Dylan e Stones che non al liceo. Il Nobel della Letteratura si è esibito in ben altri riconoscimenti discutibili.

 

All’epoca vigevano forme di connessione sovranazionale, mi viene in mente lo Hippie Trail. In epoca pre-globalizzazione e pre-Internet, quali strumenti usavano i ragazzi di tutto il mondo per comunicare?

C’erano le fanzine e le testate specializzate, oltre ad alcune trasmissioni radiofoniche coraggiose. Il passaparola era lo strumento più efficace, con un traffico di audiocassette terribili sul piano della fedeltà. A proposito di fedeltà, il vinile ci restituiva suoni impossibili per i CD che li avrebbero sostituiti, anche se ora il vinile si sta prendendo la giusta rivincita.

 

C’è stato un momento in cui il rock ha incontrato anche la spiritualità, da George Harrison a Santana. Lo interpreti come una caduta del rapporto con la politica o va inserita anche quella vicenda nel complesso calderone controculturale?

Va inserito nel capitolo moda. Gli Hare Krishna folgorarono anche Claudio Rocchi, ad esempio, dopo quel suo formidabile album di Volo Magico n. 1. I Beatles potevano comprarsi la Luna. I soldi gli uscivano dalle orecchie. La ricerca della spiritualità è un percorso quasi banale, scontato. E quello che facevano i Beatles era Vangelo, una sorta di religione. Da parte mia, sono un non credente dall’età della ragione: nessuna religione.

 

Nel libro non trascuri vicende personali, legate alla tua adolescenza. Era così pericoloso all’epoca avere i capelli lunghi in Italia?

Ma no. L’800 è chiamato “il secolo dei baffi”. I capelli lunghi dei 70 sono l’estetica di un tempo nuovo. Pasolini si esibì con una analisi che districandosi fra cifre sociali e antropologiche nascondeva di fatto un’ostilità bacchettona. Mutatis mutandis, come quella brutta poesia (poesia?) “Il Pci ai giovani!!” sugli scontri di Valle Giulia nel marzo del 68 a Roma. Era pericoloso andare di notte ad affiggere manifesti scritti a mano o volantinare ciclostilati o fare comizi volanti con due altoparlanti messi sul tetto di una Dyane, una 126, mentre con quegli stessi altoparlanti si diffondevano brani degli Stormy Six da cui proveniva il su citato Claudio Rocchi.

 

A proposito di Stormy Six, il rock italiano incontra la politica e le controculture: gli Area, Re Nudo, Parco Lambro, Finardi. Cosa ha avuto di così speciale la musica italiana in quel decennio?

In una mia intervista a Finardi, gli rimproverai Giai Pong per quei passaggi inascoltabili sul piano storico e politico. Mi rispose che lui si sentiva realmente al servizio del Movimento: parafrasando Gramsci, si sentiva cioè organico al movimento rivoluzionario. Vero è che solo anni dopo ci saremmo liberati di una propaganda obnubilante, che ci faceva gridare slogan terribili oltre che storicamente mistificanti. Sto leggendo un libro sulla Cina di Mao. All’epoca sventolavamo il libretto rosso come fosse il testo base per ogni azione politica. In una intervista Demetrio Stratos, in polemica con la PFM, disse che gli Area non facevano canzoni, ma progetti politici. Il clima era quello. Forse politicizzato oltre misura. La festa finì a Parco Lambro del ‘76. Poi fu sostanzialmente emulazione, replica.

 

Recentemente è tornato in edicola «Ciao 2001», che era un riferimento fondamentale per voi giovani lettori: com’era la qualità dell’informazione in quel periodo?

Con «Re Nudo» (ora coraggiosamente rieditato dal mio amico Luca Pollini) «Ciao 2001» era un riferimento imprescindibile. Ricordo quando «Ciao 2001» sparò in copertina l’arrivo degli Zeppelin a Milano, con Jimmy Page in primo piano coi suoi famosi pantaloni a scacchi colorati. Annunciava il concerto del Palalido del 71, quello finito «a schifiu», come dicono in Sicilia.

 

Secondo molti commentatori il grunge è stato l’ultima fiammata creativa nella storia del rock. Dopo Seattle il diluvio?

Non so se ci sia stato il diluvio. Posso solo testimoniare la mia posizione. Io lavoro sempre con playlist di sottofondo. Sono assai poche le cose che ascolto che sono successive a Cobain. Poca roba. Cito solo i lavori di Jack White. Ma, ripeto, è solo una posizione personale. Per quanto riguarda la musica italiana, vorrei evitare di pronunciarmi.

 

Hai scritto tanto sugli artisti, da Lucio Battisti a Kurt Cobain, da De André a Vasco. Come mai la musica trova uno spazio così significativo nella tua produzione?

Perché per la mia generazione la musica era fondamentale, ed è poi rimasta inalienabile a livello culturale, forse perché legata all’ascolto, non al consumo. La mia generazione (io sono del 1953) è crescita in un nuovo Rinascimento, dove musica, letteratura, cinema, teatro, arte erano un unicum indistinguibile. Ci si scambiava i dischi come i libri. Tuttora, col mio amico Ugo, ai rispettivi compleanni ci regaliamo libri. Il mio amico Tullio è per me il critico musicale più preparato che c’è in circolazione. Il suo studio ha le pareti totalmente fasciate da vinili. Alcuni di quei libri “musicali” li ho scritti su commissione di un editore appassionato di musica. Musica pop, molto pop. Non mi avrebbe mai fatto scrivere un libro sui VDGG. Li ascoltavamo quando i Beatles viaggiavano ancora su sonorità da confort zone pop, unitamente a King Crimson e Velvet Underground. Recentemente mi sono tolto una soddisfazione con un articolo su «La Ragione» proprio sui VDGG a 55 anni dalla pubblicazione di The Aerosol Grey Machine del 1969.

Libro Pino Casamassima

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