16/05/2007

South By Southwest

Austin, Texas, 13-14-15 marzo 2002

Con le major nascoste dietro al grande fazzoletto september eleven, perfetto per asciugare le lacrime di un pianto tanto corale quanto stolido, la convention più importante d’America è tornata ad essere, se non del tutto almeno quasi, il palcoscenico degli indipendenti. Indipendenti che quest’anno non hanno sofferto la concorrenza delle rock star (e ne bastano tre o quattro, strategicamente piazzate tra il venerdì e il sabato sera, per far suonare qualche centinaia di “young band” di fronte a sale completamente vuote), e che hanno potuto quindi misurarsi più o meno alla pari con la concorrenza. Certo qualche nome di medio calibro c’era, e non potevamo ignorarlo. Cominciamo da questi allora, scegliendo i rampanti inglesi Starsailor, come starter di questi appunti disordinati. Show solido il loro, ben costruito soprattutto nella regia luci e nella progressione scenica, introdotto da una lunga e suggestiva proiezione su grande schermo, e concluso con le esplosioni muscolari di brani come Tie Up My Hands e Good Soul. La band, che era comparsa a sorpresa alle spalle di Ed Harcourt che li precedeva in scaletta per una perfetta She Fell Into My Arms, che ha risvegliato un po’ dal torpore di una esibizione altrimenti monocorde, ha sfoggiato un big sound patinato e in perfetta sincronia con le atmosfere del disco, solo un po’ più enfatizzato. Poche sorprese: il concerto è filato via come un orologio, dando l’impressione che dietro a tutto lo sforzo di promozione, e l’abile regia dello stage, ci sia comunque una band solida, proprio a partire dal frontman, James Marsh, a volte davvero vicino al profilo più romantico di Jeff Buckley.

Lei era la più chiacchierata quest’anno, il suo nome quello che nei cartelloni aveva il lettering più evidente, anche se nessuno o quasi ad Austin l’aveva mai sentita cantare. E lei, Norah Jones, forse consapevole della grande attenzione riservatale dalla stampa e dal pubblico, ha scelto un atteggiamento dimesso, da antidiva, accettando di esibirsi nel locale più disagiato di Austin (senza un’auto non ci arrivi proprio), e di suonare nella difficile cornice di una caffetteria. In entrambe le occasioni Nora ha dato prova della sua già buona qualità di interprete, esibendo una vocalità purissima, e una naturale semplicità di approccio stilistico. In trio, con Adam Levy alle chitarre e Lee Alexander al contrabbasso, entrambi presenti anche nel debutto Come Away With Me, Norah ha flirtato con il blues, il gospel, il soft jazz, dentro a una cornice di suoni tenui e sommessi, perfetto veicolo per la cristallina risonanza del suo canto.

Il party prima, e lo showcase poi, della New West Records, sono stati gli appuntamenti più densi di buona musica e bella gente del SXSW. Tra la gente anche quel simpaticone di Kinky Friedman, in giacca rosa salmone, gigantesco cappello da cowboy e immancabile sigaro, visto in compagnia del sempre presente Bob Neuwirth; tra le band, a parte i Flatlanders di cui raccontiamo a parte, Slobberbone, Jon Dee Graham e la (bella) sorpresa di Vic Chesnutt, su tutti. (Gli altri, per onor di cronaca, sono stati Stephen Bruton, Randall Bramblett, Chuck Prophet, non robetta insomma). Slobberbone, tosti e cattivi come sempre, sono ormai una solida e rodata hard/country/roll band, forse già arrivati alla piena attualizzazione del loro potenziale, ma sempre divertenti, soprattutto live. Jon Dee invece è apparso in forma come mai prima ci era capitato di vederlo. Rock blues, ma anche ruvido romanticismo, nelle sue ballate asciutte e veementi, Graham è tra i tanti songsters di Austin, quello che oggi (ma non solo da oggi) ha tutte le potenzialità per emergere davvero. Peccato (o per fortuna) che non gliene freghi nulla. “Benvenuti al Desperation Derby”, ha esordito, e in risposta a uno del pubblico che gli chiedeva “Chi sei?”, gli ha risposto secco “Sono un nessuno e ne sono contento”. Chesnutt invece, che pochi sono riusciti a vedere, piccolo com’era nella sua carrozzina, è quello che invece tutti, ma proprio tutti hanno ascoltato. La voce esile e a tratti spezzata, Vic ha strappato il sorriso con un paio di ballate sarcastiche e semplici come una filastrocca, nelle cui pieghe però si percepiva il respiro di melodie non dette e ammalianti.

Sempre più simile a Tim Hardin è parso Ron Sexsmith, in versione solitaria: il canadese ha presentato alcune tra le nuove canzoni ancora in lavorazione. Chiudiamo con le due performances in assoluto migliori tra quelle viste quest’anno al SXSW, Fruit e Ruthie Foster. Le prime, Fruit, sono 4 girrls australiane (più un batterista), vincitrici dell’Aussie Award 2001 come emergenti, dal devastante impatto live, in grado di combinare il soul, il funk, il power pop, il rock, giocando con armonie vocali irresistibili, fantasia e padronanza strumentale. Il futuro, per loro, si annuncia gravido di possibilità. La seconda, Ruthie Foster, è una soul/folk girl capace da sola di reinventare la trascendenza del gospel legandola al folk blues, solo accompagnando il suo canto, potente e viscerale, con una chitarra acustica.

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