Spazio, suono e musica da Stonehenge al web
Le architetture sonore di Andrea Gozzi
Gli appassionati di cultura rock storica e contemporanea conoscono bene il lavoro di Andrea Gozzi. I volumi delle collane Appunti di Rock e Instarock, poi il saggio sugli Smashing Pumpkins sono stati i mezzi attraverso i quali il saggista toscano si è ritagliato un posto interessante nel panorama italiano, sempre a cavallo tra storiografia e ricerca sul campo. Arcana ha pubblicato il suo nuovo libro Architetture sonore. Spazio, suono e musica da Stonehenge al web, che si distacca dagli studi precedenti per mostrare pienamente il suo recente lavoro svolto in Canada per la Faculté de musique – Université de Montréal. Suono, luoghi, culture. Ne parliamo col musicologo, provando a sottolineare alcuni aspetti dell’opera più vicini all’informazione rock cara ai nostri lettori.
Da una parte le collane di storia e approfondimento rock, poi il libro sugli Smashing Pumpkins, ora un saggio che parte da un assunto centrale: la storia dell’uomo è anche una storia dell’ascolto, giusto?
Raymond Murray Schafer, citando Kant, ci ha ricordato che “Le orecchie non hanno palpebre”. Può accadere di essere artefici del proprio destino acustico e quindi scegliere quello che si vuole ascoltare, ad esempio il rock degli Smashing Pumpkins. Tuttavia, il paesaggio sonoro che ci circonda e lo spazio che lo caratterizza – ad esempio durante una performance musicale – è raramente modificabile da parte di compositori e musicisti. L’idea di Architetture sonore è quella di raccontare la storia della musica attraverso gli spazi in cui la si esegue e viceversa: il millenario dialogo tra gli spazi, il suono e la composizione.
Per noi post novecenteschi la musica è sinonimo di musica registrata, dunque figlia di quel luogo intriso di suggestioni e anche mitizzato quale lo studio di registrazione. Eppure non è che l’ultimo – o il penultimo? – stadio di un percorso lungo quanto la storia dell’uomo, nel quale la musica è stata rito, liturgia, intrattenimento, sempre in luoghi funzionali…
Prima dell’invenzione del fonografo nel 1877 da parte di Edison (e Cross), non esistono tracce sonore della storia umana. I musicologi devono utilizzare altre fonti per studiare la storia precedente. Si ricorre quindi alle fonti scritte, alla tradizione orale, agli strumenti musicali superstiti e all’iconografia. Anche gli spazi possono parlare: l’acustica e l’architettura di un luogo (“musica pietrificata” per Goethe) diventano risorse preziose. Nell’impossibilità di accedere ai suoni del passato, persi per sempre perché precedenti all’avvento della registrazione, si possono far raccontare i documenti e far suonare gli spazi. Un luogo e la sua acustica sono veri e propri ipertesti (nell’accezione informatica del termine): una moltiplicazione di punti di ascolto, a ben vedere.
Lo studio di registrazione è invece un iperstrumento, come dice Camilleri, capace di plasmare spazi, ridefinire generi, scolpendo il sound. La figura di chi sta alla barra del timone dello studio decide la rotta di qualsiasi artista, si pensi a Eddie Kramer e i primi due dischi dei Led Zeppelin.
Sempre restando all’ambito rock, puoi indicarci qualche brano “site specific”, qualche composizione nata in funzione di un luogo, che ritieni particolarmente rappresentativa?
Lo spazio è un elemento imprescindibile della performance musicale, contenitore e contenuto dell’opera; che il compositore o il musicista ne sia più o meno cosciente. Gli esempi di particolari luoghi per brani o album specifici compongono una lista sterminata (e grazie per l’idea perché potrebbe essere un altro libro da scrivere! Ride, ndr…). Ti cito però un intero lavoro, spesso sottovalutato, anche dalla stessa band che l’ha composto: è Sonic Highways (2014) dei Foo Fighters. Opera mastodontica per concept e realizzazione: una serie televisiva HBO e un album, registrati entrambi in otto studi leggendari degli Stati Uniti, in cui in ognuno è stato realizzato un brano dedicato ai luoghi raccontati, con featuring di personalità rappresentative della scena musicale evocata. Una mise en abyme totalizzante in cui il luogo è protagonista e cornice. Il messaggio di Grohl è dei più onesti: non importa da dove vieni, da Seattle o Austin, se l’ho fatto io – e anche loro – puoi riuscirci anche tu. È un inno al potere salvifico della musica.
Un valore chiave della cultura rock è l’autenticità. I Beatles dal vivo erano molto più approssimativi rispetto al disco (dunque più autentici?), ma se pensiamo a giganti come Yes e Rush si poteva notare una differenza praticamente minima tra resa sonora del disco e sul palco. Quanto è stata decisiva l’evoluzione delle sale da concerto nel rock?
In Architetture sonore si prendono in considerazione teorie in cui l’invenzione polifonica ha radici nei lunghi riverberi delle chiese (che suonano come un altro musicista, in dialogo) o del perché dello stile di Bach è dovuto ai luoghi di culto protestante, in cui la riverberazione era minore (perché la messa era in tedesco), fino ad arrivare a U2 e Coldplay che, passati a suonare negli stadi, introdussero nei brani sempre più cori (da stadio, ça va san dire). Lo spazio è capace di influenzare non solo la perfomance ma anche la composizione. La popular music ha raramente avuto spazi dedicati e non esistono veri e propri capisaldi come per strutture come il teatro d’opera o le sale da concerto sinfonico, ma tante esperienze eterogenee. Non sempre dove si vede bene si sente anche altrettanto bene e una sala bella a vedersi può non coincidere con il contesto giusto in cui far esibire il gruppo. Una band come i Kraftwerk in una sala d’opera è penalizzata, per il genere in relazione con lo spazio.
Soffermiamoci allora su alcuni luoghi del live. Ci sono tante location note per la perfezione del suono, altre meno valide ma pur sempre gettonate, probabilmente per motivi extramusicali. Secondo te cosa rende una sala da concerto ottimale, quali sono gli elementi immancabili in tal senso?
L’esperienza di un concerto è sempre multisensoriale e sinestetica, dove l’ascolto è una delle più importanti componenti, ma non la sola. Inoltre, non esiste un’acustica “perfetta” tout court. Ogni genere, ogni repertorio necessita di uno spazio differente. Per questo oggi vengono costruite sempre di più sale modulari e modulabili (cioè, ad acustica variabile), che si possono riconfigurare in base al concerto. Spesso gli stessi compositori o band necessitano di spazi diversi per album di anni differenti, per la performance (Pink Floyd per Live At Pompei) o per la composizione, vedi i CSI per le registrazioni di Ko De Mondo. Il teatro di Epidauro, ad esempio, è una struttura in cui il parlato è ben diffuso acusticamente, ma non adatto per fare musica. Citando il direttore d’orchestra Eugene Ormandy: “Io non voglio sentire un ago cadere, io voglio sentire l’orchestra!”. Nella seconda parte del libro tracciamo gli elementi principali e imprescindibili per le migliori esperienze in tre tipologie di sale differenti: il teatro d’opera, la sala da concerto sinfonico e quelle per la popular music.
Quanto è stato importante il tuo lavoro all’estero, in particolare in Canada, per concepire e organizzare Architetture sonore?
Alla faculté de musique, Université de Montréal c’è un dipartimento che si chiama “musiques numériques”. Dall’altra parte della montagna, dentro la McGill University c’è il Centre for Interdisciplinary Research in Music Media and Technology (CIRMMT). Nella prima c’è una comunità di professori in ricerca-creazione, compositori e musicisti con idee avanti anni luce. Il secondo, all’interno degli studi di ricerca, registrazione e acustica virtuale, degni di Star Trek, è abitato da specialisti in tecnologia dell’audio. Entrambi i luoghi stimolano la ricerca e la creatività, cioè a diventare ancora più curiosi, a porsi delle domande, in questo caso con la musica e lo spazio al centro. La collaborazione come ideale quindi, per cambiare (spesso) prospettiva. Un grande contributo al libro è tuttavia italiano, quello di Alessandro Cecchi, che mi ha aiutato a tracciare questa storia, fornendomi la migliore delle bussole durante la mia ricerca dottorale al dipartimento SAGAS dell’Università degli Studi di Firenze.
Hai sottolineato le differenze tra adopted, adapted, dedicated e mobile space, ce le spieghi meglio?
Kronenburg in un fantastico libro dal titolo Live architecture classifica gli spazi della popular music in quattro famiglie: adopted, adapted, dedicated e mobile space. Adopted space si riferisce a luoghi che, durante la progettazione e la costruzione, non erano destinati a ospitare concerti pop. Adapted space descrive spazi di varie dimensioni (da auditorium a bar) progettati per altri scopi, ma adattati strutturalmente per questo tipo di eventi. Dedicated space è uno spazio creato esclusivamente per concerti di musica pop. Infine, mobile space indica strutture mobili, spesso complesse, che vengono montate e smontate per eventi in diversi luoghi. Nel libro sono forniti molti esempi, di taglia e dimensioni diverse, compreso un approfondimento sull’incredibile The Sphere di Las Vegas, dove sono stato a dicembre 2023.
L’Italia ha luoghi da concerto capaci di competere con le grandi location straniere? In soldoni, l’architettura sonora nostrana è aggiornata?
Dipende molto da quale genere musicale. Ci sono fantastiche sale per il teatro d’opera e per i concerti sinfonici. Molte meno per la popular music, come spesso accade in Europa. Sono poche anche le sale modulari e modulabili. Da questo punto di vista non esiste in Italia un CBGB, un Madison Square Garden, una Royal Albert Hall o un Wuhlheide berlinese. Anche la tecnica spesso non è al livello dei tecnici, per non parlare dell’organizzazione dei festival. Vi sono tuttavia professionisti dell’audio all’avanguardia, ma necessiterebbero di migliori strutture. Nel libro raccontiamo anche di sale con acustica virtuale, come il Pavilion Jay Pritzker di Chicago (in cui un luogo all’aperto suona come una sala al chiuso) e la Seiki Ozawa Hall a Tanglewood (in cui la sala si estende virtualmente all’esterno).
Nel periodo del Covid la virtualità degli spazi ha dominato le nostre vite e abbiamo assistito a tanti concerti da remoto: è stata una modalità eccezionale e temporanea o pensi che abbia sancito il tramonto dell’elemento umano?
La storia della musica è (anche) una storia in cui cambiano continuamente i paradigmi. Gli strumenti che creano la musica, che la diffondono e le modalità di ascolto – spazi compresi – definiscono le epoche. La virtualità del web come spazio è un altro luogo, con le sue caratteristiche peculiari alle quali fare riferimento. Come per altri aspetti in cui la tecnologia è centrale, come l’intelligenza artificale, si tratta essenzialmente di strumenti. La macchina – per ora – reagisce ad un input, che è sempre dato da un essere umano. Sono molto più preoccupato del modo di pensare degli umani che potrebbe volgere a voler imitare e strutturare quello della macchina che viceversa. Un dialogo è essenziale, un po’ come cambiare punto di ascolto durante un concerto, nuova prospettiva: “Non si teme il proprio tempo, è un problema di spazio”.