Inutile girarci intorno. Quando si è diffusa la notizia del progetto Storm Corrosion, ennesima creatura di Steven Wilson questa volta in coabitazione con Mikael Akerfeldt degli Opeth, il primo pensiero è stato… «ancora?!». Dall’ultimo album solista di Wilson erano passati pochi mesi (e già si parla di un nuovo Blackfield all’orizzonte), idem per gli Opeth. Grace For Drowning e Heritage erano due ottimi lavori (meglio il secondo), omaggi sinceri al progressive del tempo che fu, quello degli albori, delle contaminazioni jazz, dei King Crimson. Per quanto bravi e ispirati però, cosa potevano avere di nuovo da dire Wilson e Akerfeldt a così stretto giro di posta?
La loro alchimia si è sviluppata sottotraccia nel corso di più di un decennio di frequentazione. Un rapporto di cui sono state gettate le basi nel 2001, in occasione della produzione wilsoniana di Blackwater Park, l’apice della commistione tra prog e death metal scandinavo imbastita dagli Opeth; ed è poi proseguito con saltuari incroci (la partecipazione di Akerfeldt a Deadwing dei Porcupine Tree). Ma la sintonia tra i due si è concretizzata soprattutto nell’identità di intenti. Perché se in un primo momento il contatto con gli Opeth ha ispirato a Wilson la tanto contestata svolta heavy di qualche anno fa, successivamente è stato il gruppo svedese a spogliarsi progressivamente dei tratti più spigolosi ed estremi (come il cantato growl) lasciando sempre più spazio alla ricerca di atmosfere vintage. Con il risultato che l’anno scorso entrambi hanno raggiunto la medesima meta. Nel dna di Grace For Drowning ed Heritage era in fondo implicita la possibilità di un incontro tra i due autori. Ecco quindi Storm Corrosion, non a caso presentato come la chiusura di un’ideale trilogia. Presentazione in realtà mistificatoria (e anche riduttiva). Perché l’associazione creativa tra Wilson e Akerfeldt ha partorito qualcosa non solo di diverso dai rispettivi album, ma anche decisamente superiore. Storm Corrosion scardina la chiara matrice stilistica là evidente, per dedicarsi a un percorso all’insegna della contaminazione e della sperimentazione. Dove a essere citati come peculiari punti di riferimento non sono Fripp e soci, ma lavori eretici come Spirit Of Eden dei Talk Talk e The Drift di Scott Walker. Pietre di paragone calzanti anche per le tematiche esoteriche toccate. E qui si spiega forse perché, nonostante le dichiarazioni di rito parlino di un perfetto fifty/fifty nella divisione dei compiti realizzativi e compositivi, l’impressione netta è che sia stato Akerfeldt a invitare Wilson sul suo terreno piuttosto che il contrario. Le atmosfere brumose, gotiche e disturbanti che per larghi tratti avvolgono l’ascoltatore appartengono più agli Opeth che non ai Porcupine Tree. Sin dal pezzo di apertura, Drag Ropes, dove inserti dissonanti lampeggiano su bui sfondi rarefatti, lasciando stupore e inquietudine. Un terreno sul quale però Wilson si è mosso con sicurezza, cercando anche in fase di produzione nuove vie sperimentali e abbandonando di contro alcuni suoi elementi distintivi, diventati ormai maniera (vedi la voce filtrata).
E se gli umori predominanti sono cupi e foschi, malinconia e tristezza fanno apparizioni solo fugaci perché brani come Hag, la già citata Drag Ropes e la title track suscitano piuttosto brividi di inquietudine, con un’aura malata e oscura, insinuandosi sotto pelle e tenendo alta la tensione. Al punto che non sono necessarie spinte dal punto di vista ritmico: la batteria è praticamente assente ma l’uso che viene fatto di piatti, ovetti e percussioni per punteggiare le partiture rende superfluo qualsiasi intervento aggiuntivo. E alla fine c’è anche spazio per un pallido raggio di sole che rischiara il paesaggio in Ljudet Innan. Ambient? Progressive? Avantgarde? Difficile dare una definizione esaustiva, ma in fondo poco importa. Questa difficoltà a catalogarlo è indice della ricchezza del lavoro che Wilson e Akerfeldt hanno confezionato. Spegnete la luce e godetevelo.