30/03/2007

Strange Little Girls

TORI AMOS
Le parole non dette
di Barbara Volpi

“Volevo fare un album che fosse una sorta di generazione primaria, che scaturisse dall’incontro tra sperma e ovuli, tra il maschile e il femminile intesi non soltanto come modi diversi di vedere la realtà, quanto come forze primordiali che regolano la vita e che sono presenti, seppur in misura diversa, dentro ciascuno di noi.”

Così esordisce Tori Amos quando le chiediamo cosa abbia ispirato il suo ultimo album Strange Little Girls, un disco di cover che spaziano in senso temporale dal 1968 (Happiness Is A Warm Gun dei Beatles) al 1999 (97 Bonnie & Clyde di Eminem), reinterpretate in modo assolutamente personale e sorprendente dalla sacerdotessa del canto libero e spirituale.

A sentirla parlare, questa bella americana naturalizzata inglese (ora vive con il marito in Cornovaglia), dall’incarnato trasparente e dai grandi occhioni dolci che brillano di una profonda conoscenza, pare la personificazione vivente di una qualche divinità muliebre, di una femminilità arcaica e selvaggia che racchiude in sé la sciamana, l’amica, la puttana e la madre o, come dice lei, “Maria Maddalena e la Vergine Maria”. Sacro e profano, sopraffazione e liberazione, il ruolo di vittima e di carnefice, si sono sempre rincorsi nell’esistenza di Tori, in un gioco di ruoli mai definiti nella cui fluidità sta la possibilità di viversi totalmente e senza maschere. D’altra parte dietro l’apparente fragilità della Amos si nasconde la forza imperiosa di una donna che ha conosciuto la devastazione dello stupro e il suo riscatto, che ha vissuto relazioni sentimentali intense e mai scontate, che ha provato sulla propria pelle l’azione nefasta di una religione dogmatizzata, colpevolizzante e machista (il padre è un autoritario pastore metodista), che ha vissuto nel suo corpo la vita (alcune gravidanze) e la morte (terminate in aborti spontanei).

Dopo il viaggio planetario verso gli archetipi della femminilità di To Venus And Back (in cui venivano trattati i temi della lotta tra cuore e mente, delle aree d’ombra presenti nell’animo umano, del rapporto padre e figlia e della morte) esacerbati da un suono sempre più sperimentale ed elettronico, nel nuovo album la Amos estende lo scontro di potere tra i sessi in un possibile incontro, in una riconciliazione attuabile attraverso la comprensione degli opposti e il cambiamento di prospettiva. A una tale rappacificazione ha contribuito il miracolo di un’inattesa maternità, che ha smussato angoli profondi spalancando nuovi spazi di ricezione e disponibilità.

“Proprio quando non me la aspettavo più la vita è arrivata con il suo più bel regalo e sono rimasta incinta. Per evitare il rischio di altri aborti ho subito diluito gli impegni professionali e mi sono rifugiata nella mia casa sul mare in Florida cercando di aprirmi ad accogliere questo incredibile dono. La perdita degli altri figli mi aveva inaridita, mi sentivo come una primavera che non avrebbe mai potuto raggiungere l’estate per dare i suoi frutti, trasformata all’improvviso nel più rigido e sterile degli inverni. Ho cercato piano piano di abbandonarmi alla maternità rallentando i ritmi della mia vita per coglierne gli aspetti più essenziali. In questo senso mia figlia, che ora ha quasi un anno, è stata una vera purificazione.”

Per Tori Amos, donna e musicista, la maternità non ha soltanto il senso di genesi terrena, ma anche di genesi artistica, come se la potente forza creatrice universale non facesse differenza tra creature in carne ed ossa e creature-canzoni. “Non era nelle mie intenzioni fare un disco, ma mentre ero immersa nella vita con la mia bambina mi sono arrivate nella mente delle immagini che volevano venire alla luce. C’è bisogno del seme per fare un figlio, ma anche per creare arte e quei flash erano come dei piccoli embrioni volevano nascere. Ho capito che essi mi conducevano in un luogo dove non c’era frammentazione tra maschile e femminile, dove anche gli uomini potevano diventare le madri dei propri brani, servendosi della stessa energia germinatrice. Allora ho pensato ad alcuni pezzi meravigliosi scritti da cantanti maschi e mi è venuta l’idea di un album che avesse potuto parlare con il loro linguaggio, che avesse potuto esprimere il punto di vista maschile sul mondo. Per far ciò ho fatto una piccola indagine tra i miei amici, una sorta di tavola rotonda per conoscere quali fossero state le canzoni che più li avevano influenzati negli anni, quelle che veramente avevano segnato un momento importante o di cambiamento; ne è risultata un lista di dodici pezzi molto diversi tra loro che io ho cercato di far rivivere a modo mio. Durante tale processo mi sono resa conto che in ciascun brano era contenuta una personalità femminile che chiedeva di essere ascoltata: in 97 Bonnie & Clyde, la truculenta storia di un uxoricida che fa a pezzi la moglie, la figura che emerge è quella della madre di Bonnie che si interroga su chi la figlia avrebbe potuto diventare, che comprende come il sentimento d’amore per la defunta possa sopravvivere persino alla morte; in Heart Of Gold sono due sorelle a parlare, forse due gemelle, che si muovono nel mondo con due menti e un cuore.”

“Analizzando tutte le liriche”, continua, “ci si rende conto che alla fine alcune ragazze avrebbero anche potuto essere ragazzi senza modificare la sostanza delle vicende, come se ogni realtà mutabile potesse essere definita a seconda della prospettiva di osservazione. Nel mondo di Strange Little Girls non esiste una distinzione tra verità e fantasia, tra veglia e sogno, come se tutti i frammenti di sussistenza fossero perfettamente intercambiabili e concreti. Nella visione di testi scritti da uomini, ma approcciabili da un punto di vista femminile, esiste l’esaltazione e l’annullarsi delle differenze, come se ad elevarsi fosse un’unica entità artistica formata dagli opposti, dallo yin e dallo yang.”

Viene da chiedersi se una tale carrellata di personaggi femminili non derivi da un’estrapolazione quasi psicanalitica dei vari animi viventi all’interno di Tori, ma lei precisa: “In parte è vero, ciascuno di noi è un’accozzaglia di personalità diverse e a volte conflittuali che quando vengono represse acquistano una tale irruenza da far impazzire la gente. La vera libertà sta nel non nascondere nulla a se stessi, nel dare respiro alla nostra molteplicità, mantenendo una sorta di consapevolezza che supervisioni e connetta le varie voci anche dissenzienti. Comunque nell’album questo processo è avvenuto casualmente: lavorandoci su si è aperto un canale attraverso il quale le strange little girls si sono rivelate”.

Ad uno sguardo più attento si può comunque notare che anche in quest’ultimo lavoro i conflitti di potere non sono del tutto risolti, come se un velo dell’antico malessere fosse annidato ancora da qualche parte. “Non è più malessere ma serena presa di coscienza. Il diventare madre esaspera la percezione del mondo e quello in cui viviamo è colmo di violenza che deriva da rapporti di potere. Prendiamo la religione: secondo la mia educazione integralista un Dio virile e prepotente mi costringerebbe in un ruolo in cui un’asessuata monogamica si accoppia soltanto per procreare, annullando completamente ogni altra sfumatura, da quella erotica a quella artistica. Questa è violenza. Quando il cattolicesimo ha insinuato il senso di colpa nella sessualità costringendo gli uomini a farsi la guerra per millenni pur di infilare la spada – simbolo fallico – in un altro essere umano invece di fare l’amore con le loro donne, questa è violenza. Più le donne si evolvono decidendo di vivere liberamente tutti i loro aspetti – quello di madre, di amante, quello professionale, o espressivo -, più l’uomo medio si sente minacciato: e così negli Stati Uniti oggi le aggressioni contro le donne e i gay sono aumentate in modo esponenziale, perché la violenza è l’unico strumento conosciuto per riappropriarsi di un’identità vacillante, per stabilire un contatto.”

“In Strange Little Girls ciò avviene invece attraverso un interscambio di ruoli, attraverso un dialogo che si compie tramite la musica. La cosa peggiore è che la cultura ha istigato nel DNA femminile il senso di colpa per essere brave e capaci; ecco perché tante donne accondiscendono e diventano complici della violenza, quasi fosse una sorta di espiazione per le loro doti e i loro desideri. Quando il personaggio di I’m Not In Love è venuta a trovarmi urlava come una donna che non voleva venire sopraffatta di nuovo, che nel dire ‘non sono innamorata’ non negava l’amore, ma si riappropriava di se stessa vivendo totalmente i suoi feticci, come le prostitute sacre delle civiltà del passato, dove la pornografia non era ghettizzata nell’inferno del sopruso e del peccato. Io ho sperimentato sulla mia pelle sia la violazione cui ci si sottopone volontariamente quasi per un istinto un poco masochistico, sia quella annientante dello stupro e posso dire che non c’è nulla di nobilitante in tutto ciò, è solo mancanza di rispetto.”

“Con mio marito abbiamo una relazione assolutamente equa, per mantenere la quale ci vuole una continua comunicazione e non è affatto facile. Vorrei che gli uomini imparassero a non confondere l’amore con il potere e potessero conservare l’integrità dell’anima. Ciò che mi fa orrore è che le vittime del ricatto potere-sesso diventano sempre di più i deboli e gli indifesi, soprattutto i bambini. La violenza è la zona d’ombra della nostra società iper-tecnologizzata, il vero cancro dei nostri tempi. Quando in I Don’t Like Mondays si dice ‘I want to shut the all day down’, l’immagine è quella di una realtà da guerriglia urbana, quasi militarizzata, come quella dell’America odierna, dove i ragazzini uccidono i loro coetanei e dove il killer diventa il vicino di casa. Oramai manca un posto dove stare completamente al sicuro, un’area dentro di noi non contaminata da questo modo di negoziare nei rapporti umani.”

Se non fosse per il tono estremamente pacato con cui la Amos parla di questa sorta di collasso dell’umanità, se non fosse per quella luce lunare che sprigiona anche dalle parole più dure, verrebbe da pensare che nella visione della cantautrice non ci sia via di scampo; in realtà lei, come tutte le sopravvissute, conosce la speranza: “Basterebbe riuscire a mettere da parte qualche volta il proprio ego ponendosi nei panni altrui per riuscire ad avvicinarsi veramente agli altri: finché ciascuno di noi non comprende che ogni punto di vista personale è assolutamente relativo, che non esiste una ragione assoluta e che la realtà è poliedrica, continueremo a scannarci a vicenda. Dovremmo imparare a capire di cosa siamo fatti invece di continuare a delineare linee di confine che ci separano dal nostro prossimo. Io sono stata giovane negli anni Settanta, un’epoca di grandi ideologie; i movimenti collettivi mi fanno paura perché esiste sempre una forma di indottrinamento in essi, un tentativo di trasformare tutti quanti in pecore proprio come cercano di fare i mass media. Io credo nella presa di consapevolezza individuale e pare che ora sempre più individui la stiano raggiungendo. Però, proprio come nella canzone di Joe Jackson Real Men, ‘things are getting better but nobody is really sure’, per cui resto possibilista”.

Ogni volta che Tori cerca di spiegare un concetto importante si serve delle parole delle canzoni, come se non ci fosse una disgiunzione tra il suo pensiero e quello delle sue ‘creature’. “Le parole sono come pistole e lasciano tracce indelebili, per cui non le dico mai a caso. Come viene sottinteso nel brano dei Depeche Mode Enjoy The Silence qualche volta è meglio il silenzio; le cose non dette creano suggestioni potenti.”

È così che Tori chiude la sua conversazione, sorseggiando una tazza di tè, scrutandomi nel profondo degli occhi fino quasi a toccarmi l’anima.

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SUZANNE VEGA
Dialogo tra fruscii di foglie
di Eleonora Bagarotti

Non è la prima volta che incontro Suzanne Vega. Come molti sanno, lei è stata in Italia parecchie volte nel corso dell’ultimo anno. Suzanne si trova a Varazze per il Festival Just Like A Woman e attende l’orario del suo show all’ombra degli alberi del confortevole hotel che la ospita. Mi siedo accanto a lei mentre osserva sua figlia Ruby, una bambina vivace e rubiconda, sguazzare allegramente nell’acqua della piscina. Io e lei siamo entrambe pallide. “Non amo il sole”, mi dice quasi subito, “però mi piace il fruscio dell’aria nelle foglie per cui, a meno che non disturbi troppo il microfono del tuo registratore, mi piacerebbe chiacchierare qua fuori.” L’idea si rivela ottima, forse perché gli alberi e l’orizzonte lontano del mare appena increspato favoriscono l’intimità del nostro dialogo. Del resto, con intimità Suzanne Vega si è sempre raccontata nelle sue canzoni e nelle sue poesie. Ogni volta che descrive un uomo, un pensiero o una metafora, filtra tutto attraverso se stessa.

Nel caso del suo ultimo disco, il bellissimo Songs In Red And Grey, l’intimità è più specifica e riguarda, più o meno sottovoce, la fine del suo matrimonio con Mitchell Froom, che è stato in passato anche il suo produttore. Con garbo, cercando di non infierire troppo nella sua privacy, le spiego che il suo disco mi è piaciuto e quando l’ho ascoltato, avendo anch’io vissuto di recente la fine di un amore, l’ho trovato particolarmente acuto e vibrante. Comunque non eccessivamente triste o sentimentale.

“Mi fa piacere che la pensi così. Infatti è un arco di tempo piuttosto lungo e solitario, ho cercato di scrivere canzoni che narrassero l’esperienza che stavo vivendo. Un’esperienza fatta anche di sofferenza ma credo che le mie canzoni, alla fine, non siano un messaggio di tristezza. O, almeno, non solo quello. Pensavo proprio a quante persone al mondo si ritrovano a vivere la stessa elaborazione del lutto e gli stessi stati d’animo. Perché, vedi, dal mio punto di vista c’è stata la fine di un matrimonio ma non la fine di un amore” e mentre lo dice osserva Ruby, avuta da Froom.

So che stasera canterai dal vivo in anteprima alcune canzoni del nuovo album. Quale pensi sia l’aspetto più importante del tuo recente lavoro, quello che vorresti il pubblico cogliesse, sia sentendoti dal vivo che ascoltando il disco?
La mia evoluzione di donna e di artista. Intendo dire che le esperienze ti cambiano anche se non sempre si tratta di esperienze positive. A volte lo sono come, ad esempio, lo è stata la maternità.

In che senso tua figlia Ruby ha cambiato il tuo essere cantautrice?
Nella misura in cui ha cambiato il mio essere donna, anche in senso pratico. Ti faccio un esempio: io tendo a vivere nella mia testa, tra me e me, i momenti nei quali compongo le mie canzoni. Avere una figlia, è qualcosa che sconvolge una serie di cose della tua vita, compreso questo stato di pace. I bambini hanno bisogno di tante cose, di molta attenzione, sono vivi e ti impongono di esserlo altrettanto con loro. Ora, questo ha semplicemente mutato alcune caratteristiche della mia scrittura, così come ha mutato alcuni parametri della concezione del mondo circostante. Penso di essere diventata più semplice e diretta e anche di esprimere un maggiore feeling. Credo che queste cose si sentano in Songs In Red And Grey.

C’è come una specie di filo conduttore tra le nuove canzoni, che mi ha ricordato alcuni tuoi classici precedenti anche dal punto di vista di alcuni arrangiamenti.
C’è una linea che attraversa l’album e che rimanda ai due paralleli, il presente e il passato, ma alla fine lo fa per esprimere l’essere qui, ora. Per dire “tu appartieni al presente, sei giunta fin qui da quel percorso, ma vivi il presente o rischi di non stare bene e di diventare pazza”. A mio avviso, questo è un concetto fondamentale.

Anche dal punto di vista più strettamente musicale?
Sì. Mi sono rivolta a Rupert Hine, del quale ho apprezzato molto il lavoro fatto con i Massive Attack. Lui si è rivelato particolarmente prezioso nelle parti elettroniche, in Penitent e Solitaire è stato favoloso.

Due canzoni che stasera proporrai con il bassista Mike Visceglia.
Sì, e il risultato mi piace molto. Mike suona il basso come fosse un’intera orchestra mentre in Solitaire, la canzone si regge sul ritmo, viene a sedersi accanto a me su uno sgabello e tiene il tempo solo con le mani. L’effetto dell’esecuzione è davvero molto particolare, a noi piace molto.

C’è qualche canzone del tuo ultimo disco che ami particolarmente?
Penitent e Maggie Mae. (Si ferma a riflettere per qualche istante, nda.) Non ho ancora deciso quale sarà il mio prossimo video. Per me, quella dei video è una questione delicata. Solitamente, partecipo in prima persona al lavoro del regista e attivamente alla stesura della sceneggiatura. Questo è un lavoro al quale tengo molto. Mi piace anche Machine Ballerina. Penso che la canzone che mi rappresenta di più sia Last Years Troubles, ma non desidero soffermarmi ancora sulla questione della fine del mio matrimonio con Mitchell.

Quali sono i cd che hai portato con te nella valigia?
Sting (risponde senza esitazione, nda). Trovo che Brand New Day sia un ottimo lavoro, mi è piaciuto tantissimo e lo ascolto spesso. Forse, potrei scegliere anch’io di vivere in Italia, come Sting. E ascolto sempre qualcosa di Dylan. È ancora talmente bravo. Comunque, adoro la vecchia musica. Ho una vera e propria passione per Dusty Springfield e per le sue canzoni. Per rilassarmi, ascolto musica classica.

Conosci qualche cantautore italiano?
Nell’ultimo anno, ogni volta che ho soggiornato in Italia, mi sono stati regalati moltissimi cd di autori italiani, ma non ho ancora avuto il tempo materiale per ascoltarli tutti. Mi piace Carmen Consoli. In realtà, al di là del campo musicale, c’è una giornalista e scrittrice italiana che conosco bene e ammiro moltissimo, anche per il suo impegno: Oriana Fallaci.

A proposito di impegno, ci troviamo in provincia di Genova a pochi giorni dal G8. Cosa ne pensi del movimento no global?
Penso che noi uomini abbiamo davvero bisogno di una consapevolezza più ampia rispetto alla prospettiva individuale, alla quale tendiamo a causa della nostra natura egoistica. Credo sia necessaria una voce più vasta, formata da più voci unite. È interessante avere un’opinione che vada controcorrente, è una cosa storicamente necessaria. Politicamente, il mio essere americana in questo momento, talvolta è fonte di grande imbarazzo. Se penso a Bush, per esempio. (Sorride e alza lo sguardo al cielo, nda)

Questa domanda è stata rivolta a Suzanne Vega poco prima dei drammatici avvenimenti di Genova. Il 20 luglio, a pochi giorni dal nostro incontro, la Vega e Visceglia hanno fatto tappa a Cosenza, esattamente il giorno successivo alla morte di Carlo Giuliani. Lo show di Suzanne, quella sera, avrebbe dovuto aprirsi proprio con un pensiero rivolto a questo drammatico fatto, ma proprio nell’istante in cui il promoter locale è salito sul palco per aprire la serata, una quindicina di protestanti è salita sul palco recando la scritta “Stop the police assasinations”, impossessandosi del palcoscenico e chiedendo che il concerto venisse cancellato. Nessuno sapeva cosa fare. I protestanti volevano parlare con Suzanne, che ha rifiutato di comunicare con loro perché non condivideva questo tipo di comportamento prevaricatore.
Dopo due ore, la polizia è intervenuta e ha allontanato i protestanti, che ancora facevano resistenza, dopo una piccola zuffa. Nonostante il suggerimento di cancellare lo show per motivi di sicurezza da parte delle forze dell’ordine, Suzanne si è rifiutata di farlo poiché un pubblico di 2mila persone aveva continuato ad attendere, attonito e dispiaciuto, che il concerto potesse svolgersi. Così, coerentemente con la professionalità e la forza d’animo che contraddistingue questa giovane donna, dalla fragilità solo apparente, Suzanne è salita sul palco e si è esibita in un concerto che si è rivelato, a tratti, particolarmente emozionante.
Fortunatamente, non vi sono stati altri incidenti durante lo show, ma Suzanne Vega e Mike Visceglia sono rimasti scossi e turbati dall’episodio.

Ti reputi una cantautrice impegnata?
Semplicemente, non scrivo solo per me stessa ma anche per gli altri. Sono una madre, una figlia, un membro della comunità umana e moltissime altre cose. Se si resta troppo solitari, anche nella scrittura, si diventa pazzi. Per me conta moltissimo l’essere coinvolta, sentirmi parte di un tutto (si toglie gli occhiali da sole e picchia la mano sul tavolo, nda). Esserci, esserci, esserci.

Com’è il tuo rapporto con la notorietà?
Direi buono in quanto non rientro tra le persone davvero famose. Nessuno viene a suonare il campanello di casa mia, per esempio. La notorietà è qualcosa che ho desiderato raggiungere. E la mia è una celebrità tranquilla. Mentre ero sull’aereo per venire in Italia, ad esempio, parlando del più e del meno con la persona che era seduta accanto a me, mi sono presentata dicendogli il mio nome e cognome. Solo allora, il vicino mi ha osservata meglio, nei dettagli e ha esclamato “Ma certo, Suzanne Vega!” Tutto questo è assolutamente tollerabile.

Ti manca New York quando sei lontana dalla tua città?
Sì e no. Ti dirò che New York entra nelle mie canzoni fino a un certo punto, anche se è una parte radicata di me, lo so bene. Quand’ero agli inizi, ho vissuto per un periodo di tempo in Inghilterra ed è un paese che mi ha influenzata moltissimo come artista. Forse non sono come Lou Reed, un artista che apprezzo molto. Soprattutto, penso che Lou sia un grandissimo scrittore, i suoi testi sono imbattibili. Per artisti come lui, credo che New York sia davvero indispensabile. Sembrerà strano ma, a differenza di Bob Dylan, che ho scoperto in profondità solo qualche tempo dopo, Lou Reed è stato una folgorazione fin da quando ero giovanissima. Un amico mi chiese se volevo andare con lui a un concerto di Reed. Io non conoscevo affatto la sua musica, né sapevo bene chi fosse. Lou Reed si presentò in modo piuttosto sgarbato nei confronti del pubblico, sul quale lanciò sigarette accese per tutta la durata della performance. Però fui colpita dalle sue canzoni, che mi sembrarono assolutamente brillanti, con dei testi acuti, senza tanti giri di parole, talvolta violenti. Si può dire che io abbia deciso proprio quella sera di scrivere delle cose così come le vedevo, in modo onesto.
A proposito, sai quando Lou farà il suo nuovo album? Sono impaziente.

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Nel corso della chiacchierata, Suzanne Vega ha via via abbandonato un po’ di timidezza. Si è tolta gli occhiali e mi ha mostrato l’espressione dei suoi occhi, chiarissimi e dalle mille sfumature.

Ha iniziato a sorridere e a parlare con maggior scioltezza. Poco dopo, ci siamo unite al suo simpaticissimo road manager, Glynn Wood, al bassista Mike Visceglia e a sua figlia Ruby, che è venuta a conoscermi. Mi ha raccontato che le piacciono i Backstreet Boys mentre mamma Suzanne sorrideva, dicendo: “I Backstreet Boys possono risultare simpatici a una bambina come Ruby, ma più che a musicisti assomigliano a istruttori di ginnastica. Io non seguo affatto la musica commerciale e non so se, effettivamente, risulti simpatica ai teenager a ragion veduta o che altro. Certo, posso dire che personaggi come Britney Spears o Eminem non mi sembrano geniali”. La musica commerciale, dice, non le interessa né la disturba. Semplicemente non la degna di alcuna attenzione, il che mi appare come una buona e pacifica filosofia di vita.

All’imbrunire, Suzanne è salita, pallida e vestita di nero, sul palco illuminato di una tipica piazzetta della località marittima, tra le fievole luci dei lampione e il riflesso del cielo stellato sopra di noi. In quel momenti, mi è parsa bellissima, perfino un po’ somigliante a Nicole Kidman, ora che porta i capelli lunghi sciolti lungo le spalle.

Sensibilissima ad ogni sospiro e parola del suo pubblico, Suzanne Vega ha parlato soavemente tra una canzone e l’altra. Dal vivo, le sue ultime canzoni sono ancora più suggestive. Lei ha imbracciato la chitarra acustica con familiare duttilità e sciolto la sua limpida voce lungo malinconiche linee melodiche. A un certo punto, ha letto qualcuna delle sue poesie, tratte dal libro Solitude Standing (Minimum Fax), in coppia con il traduttore Valerio Piccolo, che le ha riproposte in italiano.

Alla fine, una volta appoggiata la chitarra, si è presentata tra gli applausi con le braccia che dondolavano nell’aria fresca della notte, avanti e indietro, e proposto l’incantevole Tom’s Diner.

Mentre camminavo sulla via del ritorno, sentivo più forte il fruscio del vento tra le foglie. Accidenti, Suze. Ancora una volta, hai sfiorato le corde profonde del nostro animo.

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