23/03/2007

Strange Messenger

L’arte di Patti Smith

“C’è sempre tempo per imparare, c’è sempre speranza nel futuro: questo è quello che credo.” Parlare, seppure al telefono, con Patti Smith, è come andare a un suo concerto: alla fine hai ricevuto una tale iniezione di ottimismo e di energia che la vita ti sembra tutta un’altra cosa. Le sue parole, lente, meditate, giungono dolcissime, quasi come se stessi parlando con un’amica che non vedevi da anni, ma che ti conosce benissimo. Mi dirà, a un certo punto: “Dopo aver parlato con te e aver visto in che direzione vanno i tuoi pensieri, sono certa che il nuovo disco ti piacerà… Te lo prometto”.

Ma in fondo, per quelli come me che sono cresciuti negli anni 70 con i suoi dischi, Patti Smith è davvero un’amica ritrovata: “Non me ne sono mai andata, non sono mai stata via, ero sempre con voi. Quando cambiavo i pannolini ai miei figli, pensavo a voi”, disse durante uno dei suoi primi comeback show, nel 1995.

L’abbiamo cercata, l’abbiamo attesa per tanti anni, noi che l’avevamo salutata quella sera del 1979 in quel drammatico concerto di Firenze senza renderci conto che sarebbe stato il suo ultimo per tanti, lunghi anni. “Oh my gosh”, dice, quando le rammento quel momento e il caos di quella serata. “Ma fu molto bello… Quella sera stavo dicendo addio a tutto quanto, volevo dirvi che tutto apparteneva a voi, che il rock’n’roll appartiene alla gente e che è la gente che deve decidere in che modo il rock’n’roll debba evolversi o meno. Non devono essere gli uomini d’affari, i discografici, le ricche rockstar a deciderlo, dovete essere voi.” People have the power…

Venticinque anni dopo, e ascoltate queste parole dalla sua stessa voce, tutto, adesso, per me, ha un senso perfetto. È stato un lungo viaggio, ne è valsa la pena, e lei è ancora con noi: “Here I am!”, mi dice ridendo, ed è chiaro che è una promessa che questa volta non si spezzerà mai più.

La nostra conversazione ruota attorno alla serie di eventi che prenderanno vita a Ferrara nelle giornate dal 20 al 22 marzo (vedi box a pag. 50), ma con Patti Smith il tema della conversazione, naturalmente, è la vita stessa.

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Strange Messenger: The Visual Art Of Patti Smith prende in esame un centinaio di tuoi dipinti, schizzi, fotografie…
Si tratta di una retrospettiva che presenta materiale a partire dal 1967 sino a oggi. Il mio ideale era diventare una pittrice, anche se mi interessava anche la scrittura. Ero molto più prearata a diventare “un’artista”, che a quello che invece sarei diventata, cioè “una cantante”. In ogni caso, si tratta perlopiù di lavori che ho fatto diciamo privatamente, più per me stessa, ma che comunque riflettono la mia vita, i miei pensieri, le mie esperienze.

Tutti ti conoscono soprattutto come musicista, alcuni come scrittrice. Adesso ti conosceremo come pittrice. Come preferisci essere chiamata?
Credo che “artista” sia la definizione migliore. Non ho mai studiato la musica in modo professionale, non mi considero neanche una vera e propria musicista, mi considero una performer, scrivo canzoni e le canto, ma definirmi “artista” è un buon modo per raccontare tutto quello che faccio: fotografia, pittura, scrittura e musica. Sì, artista (scoppia a ridere, nda) è un buon termine…

A Ferrara avremo modo di vederti ‘al completo’: la mostra, un reading e un concerto…
Sì, una vera e propria carrellata su Patti Smith (ride, nda). Vedi, credo sia una cosa molto “italiana”… Leonardo Da Vinci potrebbe essere un buon riferimento, nel senso di una persona che ha tentato di esprimersi in tanti modi diversi. Ma ci sono tanti altri esempi di personaggi che hanno esplorato differenti strade, penso a William Blake…

Ma in quale di questi campi è più facile, per te, esprimerti?
Esibirmi in concerto è il modo più facile di esprimermi. La cosa più difficile è probabilmente scrivere ma è anche la cosa più importante. Sai, non è mai stato un progetto pensato a tavolino, quello di diventare una cantante, di esibirmi davanti a un pubblico, ma sembra che sia una cosa a cui ero comunque destinata, un qualcosa che è diventato importante e di cui non posso fare a meno. Certamente è il mio modo di esprimermi più naturale: stare davanti alle persone, parlare, cantare… è qualcosa che riesco a fare, semplicemente.

Una volta hai detto che un artista ha le stesse responsabilità di chi va a lavorare in ufficio dalle 9 alle 5. Sono cresciuto con l’idea che un artista debba rifiutare il concetto stesso di andare a lavorare…
Vengo da una famiglia operaia, ho lavorato in fabbrica da ragazza. Ma il fatto di dovermi guadagnare da vivere non è mai stato un compromesso: ho sempre pensato a me stessa come a un’artista. Alcuni pensano che dover lavorare o dipendere da qualcun altro sia un compromesso con il tuo desiderio di essere un artista. Il fatto di dover lavorare non mi faceva perdere il mio senso di sentirmi un’artista. Ognuno deve scegliere la sua strada ma è importante che la gente capisca che non è lo stile di vita che ti rende un artista. È solo sentirsi chiamati, che sia da parte di Dio o da qualcosa dentro di te, comunque tu voglia chiamarlo, che rende ciò che fai arte. Chiunque può vivere una vita da bohemien, ma questo non ti rende un artista. La gente fa confusione. È come il rock’n’roll: drogarsi non ti rende un musicista, la gente si fa attrare dallo stile di vita… Ok, un certo stile di vita può essere divertente, eccitante, ma è solo il tuo lavoro che rende una persona un musicista o qualunque altra cosa.

Come mai il titolo Strange Messenger?
Questa mostra è stata curata dall’Andy Warhol Museum di Pittsburgh circa tre anni fa, ed è stata loro l’idea di chiamarla così, in riferimento alla mia canzone omonima. Quella particolare canzone, esattamente come Rock’n’Roll Nigger, parla di qualcuno che sta al di fuori della società, ma che cerca di contribuire ugualmente alla società. In particolare, la canzone Strange Messenger parla degli abolizionisti che durante la Guerra Civile si batterono contro la schiavitù. Questo ‘messagero’ è dunque qualcuno che ha un messaggio da comunicare alla gente, ma è ugualmente qualcuno di ‘strano’ per loro, qualcuno che non appartiene al mainstream.

Andy Warhol era a conoscenza del tuo lavoro come pittrice?
No, Andy mi conosceva come musicista, come un personaggio della scena rock. Probabilmente sapeva che avevo altri interessi, visto che lavoravo con Robert Mapplethorne, ma non credo abbia mai visto un mio dipinto.

Ci sono anche fotografie, in questa mostra, come quella che si chiama Robert’s Cross…
È la foto di una croce che apparteneva a Robert (Mapplethorne, nda), me la regalò poco prima di morire. Ho cercato di fotografarla in modi diversi, cercando di studiare diversi tipi di composizione. Alla fine l’ho messa di fronte a uno specchio, così che si vede rovesciata. È il mio modo di ricordare Robert…

Ci sono poi due dipinti, dedicati alle Twin Towers: uno si intitola Cake e l’altro Tragedy.
Ho preso ispirazione da questa immagine di ciò che rimaneva delle Twin Towers: quella specie di scheletro mi faceva venire in mente la Torre di Babele, ma anche una di quelle grosse torte nuziali che sembrano quasi delle torri. Ho lavorato a lungo su questo dipinto, e continuavo a vederlo come una specie di torta. Ma è più che altro una pura osservazione su quelle rovine. L’altro dipinto si chiama invece Tragedy. È nato da uno scritto che feci, riflettendo su quanto era accaduto quel giorno. Sai, uno dei dirottatori era un ragazzo molto giovane, che doveva sposarsi. Così cominciai a pensare alla sua fidanzata, a questa povera ragazza che aveva perso il suo innamorato. Tutti parlano delle vittime americane, naturalmente, ma anche i dirottatori hanno perso le loro vite. Erano anche loro esseri umani con delle famiglie. Questa tragedia è stata una tragedia anche per quella ragazza che doveva sposarsi, ma nessuno pensa a lei, a questa ragazza libanese che ha perso il suo futuro marito. Anche questa è una tragedia, non solo gli americani morti. Così Tragedy è dedicato a lei. Sai, nel mio lavoro cerco di pensare a tutti. Anche ai familiari dei dirottatori, e penso che anche loro vadano ricordati.

Una tragedia è una tragedia per tutti…
Esatto!

Quanto tempo ti prende la lavorazione di un tuo dipinto?
A volte mi ci vogliono dei mesi, altre pochi minuti. Spesso mi ci vuole parecchio solo per pensare a quello che voglio dipingere, è un lungo processo creativo. Ad esempio, uno di quei dipinti delle Twin Towers contiene anche dei passaggi dal Vangelo che ho riprodotto a mano, mi ci è voluto quasi un anno per finirlo. Ma ogni lavoro è unico: alcuni nascono velocemente, altri richiedono molta contemplazione, preghiera, tutto quello di cui uno ha bisogno per fare un lavoro ma alla fine non ha davvero nessuna importanza quanto tempo richiedono.

I tuoi autoritratti, invece, mi ricordano un po’ quelli di Amedeo Modigliani…
Oh, Modigliani… Quando ero ragazza era il mio pittore favorito. Ho letto tutto quello che potevo leggere su di lui e amo ancora i suoi dipinti, studiando Modigliani ho potuto scoprire la pittura cinese, e poi Simone Martini e Giotto… Mi piaceva così tanto che ho voluto studiare chi aveva influenzato lui, specialmente Simone Martini, un pittore fantastico che non avrei scoperto se non avessi studiato Modigliani. È importante cercare di scoprire da dove un certo pittore sia giunto, studiare chi ha influenzato Picasso, ad esempio. Ho sempre studiato e continuo a studiare il mondo dell’arte.

Parlando di Twn Towers e di quella tragedia, una volta hai detto che se l’America deve essere il guardiano del mondo, allora deve imparare a essere più aperta e compassionevole…
La presente amministrazione non ha né l’umiltà né l’intelligenza di capire la complessità delle altre culture. George Bush non capisce le culture diverse: non si rende neanche conto che non è in grado di capire. Oggi molta gente in America sta ponendo delle domande, specialmente se queste armi di distruzione di massa c’erano davvero. Credo che tutto questo si ritorcerà contro Bush. Gli americani cominceranno a porre sempre più domande, certamente più di quanto facessero un anno fa. La tragedia dell’11 settembre è stata qualcosa di davvero duro per l’America… L’America è un Paese giovane, non abbiamo esperienze diretta di questo tipo di tragedia, come ce l’ha l’Europa. L’America non capisce questo genere di cose, fu un vero shock, e per molti americani non è stato neanche possibile capire quanto poco intelligente è stato quello che ha fatto Bush. Fortunatamente, specialmente nelle scuole, tra i giovani, si cerca adesso di capire cosa veramente succede nel Medio Oriente, e in futuro la gente potrà essere più coinvolta, anche se al momento è davvero una situazione dolorosa, specialmente per quelli che come me si sono opposti alla guerra in Iraq.

Ad aprile uscirà il tuo nuovo disco. Puoi anticiparmi qualcosa? Devo dirti che considero il tuo ultimo lavoro, Gung Ho, uno dei tuoi più riusciti…
Se ti è piaciuto Gung Ho questo ti piacerà senz’altro, anzi, è ancora meglio… Lo abbiamo prodotto da noi, con la mia solita band, e tocca diversi argomenti. C’è una canzone che ho scritto per mia madre, che è morta recentemente, ce n’è una per mia figlia, che ha 16 anni, c’è una canzone molto lunga dedicata a Gandhi, un altro brano moto lungo che si chiama Radio Baghdad che parla dei bombardamenti sull’Iraq. Molte cose diverse insomma, sono molto orgogliosa di questo disco. C’è anche una cover di un brano di una cantante molto popolare in America negli anni 30, Marian Anderson, e che dà il titolo al disco (Patti me lo dice ma mi fa promettere di non scriverlo, perché è ancora top secret, nda). Ti posso dire che è una canzone che ha un profondo significato per noi, perché veniamo da un lungo cammino, fatto di proteste e marce per la pace, e dà il senso di quello che siamo. Mia figlia fa il suo debutto al piano in questa canzone.

Ogni tuo concerto, per il pubblico, è un’esperienza direi trascendentale, capace di cambiarti la vita… Ma cosa vuol dire, per te, esibirti?
Ci sono tante cose che un pubblico ti può dare, magari quando sei un po’ stanco ti dà l’energia di cui hai bisogno. Il pubblico ti aiuta a tenere la mente aperta, a metterti in discussione… Ci sono sempre più giovani che vengono ai nostri concerti in cerca di risposte, cercano una forma di comunicazione, ed è quello che interessa anche a me, poter comunicare. Il rock’n’roll per me è sempre stato una forma di comunicazione valida per ogni cosa, dalla rivoluzione al divertimento. Voglio che la gente venga ai miei concerti pronta a ricevere qualcosa. Le nostre esibizioni sono diverse ogni sera: canzoni diverse, diverse improvvisazioni. A volte è l’atmosfera della città stessa che aiuta a ‘creare’ un concerto.so con lei. Ma anche del suo nuovo, imminente disco e di tante altre cose…

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