Costruito da Bill Graham nel 1986, esso rappresenta da quasi vent’anni il modello ideale di location per concerti rock. Sotto le due vele della tensostruttura, che disegnano l’inconfondibile skyline, 6mila posti a sedere numerati, dai quali si vede e si sente benissimo. Sopra, nella zona del prato, altri 10mila posti che garantiscono visuale buonissima e acustica eccellente.
Definito “Cadillac degli anfiteatri” (Wall Street Journal), “una benedizione culturale” (San Jose Mercury News) e “la più bella tenda del mondo” (San Francisco Chronicle), Shoreline dalla nascita ad oggi ha ospitato gli eventi pop-rock più importanti e significativi della Bay Area. Tra questi, il Bridge School Benefit Concert, il più affascinante concerto acustico del mondo, voluto da Neil Young per sostenere l’omonima organizzazione fondata proprio nel 1986 da sua moglie Pegi e da James Forderer (come gli Young, genitore di un bambino cerebroleso) con la consulenza scientifica della Dottoressa Marilyn Buzolich, esperta di comunicazione verbale. Il loro sogno, magnificamente raffigurato nel nome e nel logo (la silhouette del Golden Gate) era proprio quella di costruire un ponte comunicativo in grado di unire questi adolescenti, fortemente svantaggiati, con il resto del mondo. In 18 anni di lavoro, la Bridge School ha ottenuto risultati formidabili restituendo dignità a vite isolate e spesso prive di speranza.
È la stessa Mrs. Young a spiegare con il giusto orgoglio le attività della scuola quando, alle 17 in punto del 25 ottobre scorso, sale sul palco di Shoreline. Dietro di lei, su una pedana, ci sono la maggior parte dei ragazzini della Bridge School (affiancati dai loro insegnanti o dai loro genitori). Pegi li presenta uno a uno, facendoli diventare protagonisti. Già, perché il concerto che ogni anno si tiene per raccogliere fondi per la scuola, è un po’ il ‘loro’ evento. E così, quando la signora Young invita “il più grande amico della Bridge School, mio marito Neil” a unirsi a lei (dando ufficialmente inizio alla XVII edizione del Festival) non stupisce che il loner canadese si esibisca in una toccante versione acustica di Sugar Mountain suonata e cantata proprio in mezzo al gruppo dei ragazzi sulle sedie a rotelle. Per proseguire, poi, il suo mini set introduttivo con Mother Earth e un’affascinante Comes A Time insieme a Pegi e a tre indiani Lakota che danzano al suo fianco.
I primi ospiti sono i Dashboard Confessional, band della Florida il cui sound è strettamente legato al songwriting intimista di Chris Carrabba. Il loro ultimo lavoro (A Mark, A Mission, A Brand, A Scar) è uno dei più efficaci esempi di quel sottogenere musicale che negli Usa chiamano emo (sta per “emotional”). Un filone del rock, ai confini con il neo-punk, in cui l’aspetto introspettivo dei testi e delle atmosfere è particolarmente enfatizzato. A dire il vero, il set di Dashboard Confessional risulta piuttosto monocorde ad eccezione di Hands Down, brano carino che apre il menzionato album del gruppo.
Certamente più interessante, è la performance dei Wilco. Disposta a semicerchio (un po’ sullo stile dei vecchi gruppi di country & bluegrass), la band di Jeff Tweedy, prima di iniziare, sente il dovere di ringraziare Neil Young: “Senza di lui non saremmo mai esistiti”. Dal vivo, il gruppo ricalca suoni e atmosfere alla Harvest sia quando si esibisce in brani inediti quali Bob Dylan’s Beard o l’evocativa Company In My Back, sia quando si getta in una carrellata di brani più noti come California Stars (dall’album tributo a Woody Guthrie inciso insieme a Billy Bragg) o in pezzi dell’ultimo cd Yankee Hotel Foxtrot come la bellissima Jesus, Etc. o l’ispirata I’m The Man Who Loves You. C’è un briciolo di delusione nel pubblico quando si ascolta New Madrid un pezzo degli Uncle Tupelo: qualcuno sperava che Jay Farrar (che si mormorava essere in città) si sarebbe unito al vecchio compare Jeff Tweedy: nessuno ha saputo confermare se la notizia fosse leggenda o realtà.
Una bella realtà è stata di sicuro l’esibizione dei Counting Crows, per la prima volta ospiti del Bridge. Originari della zona di San Francisco (e spesso criticati per le loro poco raffinate doti tecniche, specie dal vivo), Adam Duritz e soci danno vita a una mezz’ora elegante e coinvolgente. Che ha il suo momento di punta in una fantastica cover del celebre brano dei Grateful Dead Friend Of The Devil. “San Francisco ha tante grande tradizioni”, dice Duritz nel presentare il brano, “questo è il nostro omaggio a una delle più grandi leggende della Bay Area.” Anche se, ancor più suggestiva, risulta If I Could Give All My Love Or Richard Manuel Is Dead, sofisticata ballad dedicata alla memoria del pianista di The Band. E addirittura convincenti sono le interpretazioni unplugged di Mr. Jones e Rain King che dimostrano le eccezionali doti vocali di Adam Duritz.
Ma, quando si parla di voci, nessuno oggi può competere con il blend timbrico e le straordinarie armonie di Amy Ray e Emily Saliers. Le Indigo Girls, armate di chitarre acustiche, banjo e mandolino, attaccano con un’infuocata Closer To Fine e proseguono con Moment Of Forgiveness, track d’apertura del loro ultimo album. Una trascinante Chicken Man anticipa il momento clou della loro performance: Galileo, luminosa perla del loro songbook, viene qui impreziosita dalla guest appearance di David Crosby. Dopo le Indigo, il set degli Incubus, nonostante le qualità interpretative del frontman Brandon Boyd e qualche trovatina interessante (come una cover di Teardrop dei Massive Attack), passa quasi inosservato. E poco fa l’orecchiabilità di hit come Drive o Wish You Were Here.
Ormai la platea si è completamente riempita. Sono quasi le nove e mezza quando il presentatore annuncia: “Per la sesta volta al Bridge. Pearl Jam!”. Stone Gossard, Mike McCready e Eddie Vedder (con una curiosa capigliatura, bianchissima) salgono sul palco e, subito, danno vita a un’emozionante versione di Masters Of War seguita dal loro ‘classico’ Daughter, che vede la line up completata dalla ritmica di Jeff Ament e Matt Cameron. Mai come in questa configurazione semi-acustica, il ruolo di Vedder risulta centrale. La sua voce, potente e precisa, cambia timbrica, intensità e colore per sottolineare le atmosfere dei diversi brani tra i quali si segnalano una sorprendente cover di I Believe In Miracles dei Ramones e una nuova, suadente ballata intitolata Man Of The Hour. Piacciono molto 25 Minutes To Go (di Johnny Cash) e soprattutto Last Kiss (di Frank Wilson) che Eddie dedica a quella che chiama “la mia fidanzatina”. La ragazza in questione, Maricor, studentessa della Bridge School che frequenta il terzo anno alla UC Berkeley, è visibilmente emozionata: quel pezzo, come sottolinea Vedder, è il suo preferito. Con gesto estremamente affettuoso, Eddie, finita la canzone, va da lei e la bacia; così come abbraccia un altro ragazzino sulla sedia a rotelle confermando lo speciale rapporto che si è instaurato tra la band di Seattle e questa manifestazione.
Pochi minuti di attesa e sul palco di Shoreline sale una leggenda della musica americana: accompagnato dall’armonicista Mickey Raphael, Willie Nelson inizia il suo concerto con Crazy e snocciola alcuni evergreen del suo infinito repertorio: Always On My Mind, On The Road Again, Funny How Time Slips Away, Night Life, The Great Divide. Piace il mini-tributo a Hank Williams (I Can’t Help It e Jambalaya) prima del conclusivo gospel I Saw The Light cantato con la partecipazione del pubblico.
Sono ormai le undici e un quarto. Tutti sono pronti per il momento più atteso del festival: “i migliori di sempre”, dice l’annunciatore. Sul palco, da sinistra a destra, Graham Nash, Stephen Stills, Neil Young, David Crosby. Il brano d’inizio, Human Highway è eseguito in modo esemplare: due chitarre acustiche e armonie vocali perfette. Seguono The Lee Shore, Helplessly Hoping e Our House. Ma il bello deve ancora venire: a un’impeccabile esecuzione di Harvest Moon si succedono una spettacolare Déjà Vu e una eccezionale (e partecipata) For What It’s Worth. Il bis (con la partecipazione di tutti i protagonisti) è l’emblematica Teach Your Children.
A chiudere il tutto, Pegi sale sul palco per il ringraziamento finale: l’abbraccio tra lei e Neil chiude la prima serata del 17esimo Bridge. Il giorno dopo, replica, sostanzialmente inalterata.
Arrivederci a tutti al 2004.