C’è uno scambio di battute, a distanza, che circola da qualche tempo, fra Paul McCartney e Bob Dylan. Praticamente ciò che resta degli anni 60, con buona pace degli Stones, in termini di genialità musicale e non solo. Certo, Paul aveva al suo fianco un certo John Lennon, anche se nella seconda parte della carriera dei Beatles i due giocavano su tavoli separati, è storia risaputa. A ogni buon conto, discutendo con Jann Wenner nel 2006 a proposito dei Beatles, Dylan a un certo punto se ne uscì così: «McCartney mi mette soggezione. È probabilmente l’unico che mi fa questo effetto. Può fare qualunque cosa. Non rallenta mai… Tutto gli viene in maniera incredibilmente spontanea». Dal canto suo, poco tempo dopo, alla domanda «immagina di essere intervistato da un musicista che ammiri veramente, chi sarebbe?«Macca ha risposto senza esitazione: «Bob Dylan. Intanto perché è ancora vivo e questo aiuta, altrimenti sarebbe Elvis, ma sì lo ammiro davvero, ritengo che sia un genio». E proprio pochi giorni fa, in una nuova intervista: «Mi piacerebbe collaborare con lui perché lo ammiro».
Un bello scambio di complimenti per due artisti che non si sono mai frequentati granché, ma interessante per avviare un discorso su chi sia veramente, nel 2008, il 66enne ex membro dei Beatles, troppo spesso confinato nel limbo della muzak più scadente. Il problema di Paulie è sempre stato, dopo la fine dei Beatles, l’incapacità a far coesistere nei dischi la sua anima di coraggioso sperimentatore con quella di buon musicista da classifica. Ma anche nei suoi lavori per così dire più sperimentali, vedi i precedenti episodi del Fireman, c’era una chiusura ostinata alla sua altra metà, con collage sonori estremi e a dirla tutta piuttosto pretenziosi e fini a se stessi. Electric Arguments allora, alla bella età di 66 anni, riporta McCartney all’epoca d’oro dei Beatles, coniugando esperimenti e canzoni con un risultato davvero apprezzabile seppure ovviamente non paragonabile a quello ottenuto nei 60s. Eppure l’attacco della tosta e iniziale Nothing Too Much Just Out Of Sight non può far che venire in mente una Helter Skelter, o quanto meno qualcuna delle jam (vedi la Beatles Anthology) di epoca White Album. E soprattutto l’ascoltatore non può mancare di avvertire che lì dentro c’è un musicista che si sta divertendo come un pazzo, cantando a squarciagola e con toni rochi, macinando riff heavy blues e buttando dentro, con l’aiuto di Youth, tutto quello che gli viene voglia di buttarci, con una curiosità sonica che alla sua età non era lecito aspettarsi.
Addirittura, Macca non si vergogna di nascondere la sua anima poppettara: Sing The Changes è innocua e divertente come tante silly love songs che il musicista ha distribuito ad ampie mani nel corso degli anni. Poi affronta angolazioni che non gli conoscevamo: Travelling Light è old english folk, un po’ Donovan un po’ Fairport Convention, ed è deliziosa. C’è il rock’n’roll, nudo e crudo, di Highway, il country sbilenco e sgangherato di Light From Your Lighhouse e ci sono gli echi spectoriani della formidabile Dance ‘Til We’re High: il tutto “cucito” con forme sonore aperte, stratificazioni soniche, inserimenti apparentemente bizzarri e che invece mostrano un gusto e un’abilità che tanti moderni filosofi della sperimentazione musicale possono solo sognarsi. Non basta saper manipolare una macchina: questa è musica, e allora ci vogliono i musicisti anche per questo tipo di operazioni. I deejay stiano pure a fare lo scratch. Infine una mezz’ora di puro trip cosmico, diviso in quattro movimenti: dalle tinte pastorali del primo spezzone (Is This Love?) ai cori quasi gregoriani su base dance di Lovers In A Dream passando per i groove spacey di Universal Here, Everlasting Now e infine Don’t Stop Running, sorta di mantra dispiegato per 10 ossessivi minuti di pura magia in cui è possibile scorgere dei fantasmi tra le quinte, quelli di George e John, e quelli di un passato lontano quarant’anni che il musicista ha ritrovato, per caso, nella tasca di una giacca dimenticata in soffitta: non smettere di correre Paul.