Il terzo disco della band di Providence è stato registrato nello stabilimento di Central Falls, un tempo appartenuto al sindaco corrotto Buddy Cianci. La pasta sauce factory, circa 4 mila metri quadrati d’estensione, è dunque un retaggio della comunità italiana dello stato più piccolo degli States, quel Rhode Island scoperto nel 1524 da un navigatore ed esploratore nostro compaesano, Giovanni da Verrazzano. Ma di “italianità”, a parte le pile di cartoni di pizza accumulate durante le session, non c’è traccia ulteriore nella storia di questo disco. Semmai c’è l’America più arguta e sperimentale. Quella che tenta di immaginare in chiave visionaria (nel linguaggio del disco c’è spazio per autostoppisti paranormali, funi ammaestrate, velivoli, tumori, macchinari ronzanti, autostrade deserte, manichini, cremazioni, make up di formaldeide) i tesori nascosti della sua tradizione musicale per riportarli a galla nella nuova corrente Americana. Ma c’è anche una quiete naturalista e organica in questo lavoro di ricerca e rivalorizzazione. I suoni appaiono spesso rarefatti, quasi stagnanti, e si smuovono lentamente da sotto gli intonachi della fabbrica ammobiliata a recording studio nel freddo invernale dei suoi ampi vani. Ci sono voluti 2 mesi interi, a cavallo del 2010, fra dicembre e febbraio, per registrare Smart Flesh, a cui si è aggiunta una coda di incisione in uno studio più piccolo allestito in un garage. Le temperature rigide, emerse dalle cronache del blog dei Low Anthem (che oggi sono ufficialmente un quartetto, a Ben Knox Miller, Jeff Prystowsky e Jocie Adams, si è aggiunto il nuovo membro Mat Davidson) non hanno fermato l’ensemble di multistrumentisti e il fonico Jesse Lauter che con un po’ di accorgimenti per evitare di diventare la prima band assiderata della storia hanno ultimato e autoprodotto l’opera, missata in larga parte da Mike Mogis (Bright Eyes, Monsters Of Folk) e masterizzata da Bob Ludwig.
Il risultato del lavoro di questa originale comune post industriale di artisti sprigiona fascino e curiosità, anche se l’ascolto, bisogna sottolinearlo, non è immediato. In questo senso, al passo del recupero nostalgico degli ambienti appartenuti al capitalismo e di strumenti dimenticati, le 11 nuove canzoni dei Low Anthem procedono con la sontuosa eleganza del pavone, di cui rimandano mistero e intelligenza. E col quale condividono l’orgoglio di chi sa d’esser bello solo per chi può attendere. Lo strascico che s’apre durante l’ascolto di Smart Flesh svela pian piano il gusto del ricerca musicale della band, disposta a fare aste su eBay o a setacciare soffitte e vendite private in giro per il paese pur di accaparrarsi un pezzo da aggiungere al ventaglio della collezione di strumenti bizzarri o antiquati. Tamburi sovradimensionati, dulcimer, autoharp, campane tibetane, banjo, steel pan, crotali, corni di ogni specie, quattro organi a pompa, scacciapensieri, la sega musicale, lo stilofono e un elaborato schema per il reamplificare alcune frequenze nelle varie stanze del complesso industriale si sommano alla cura per le armonie vocali e a un eclettico e gustoso citazionismo. Se Burn ricorda infatti una immaginifica versione slowcore della dylaniana It Ain’t Me Baby che va a braccetto col primo Leonard Cohen (un piccolo sussulto arriva quando il testo recita «If still there’s a song deep in this marrow / Who let’s you draw that last shivering arrow / What kind of smarting loon / Believes that he can shoot the moon»: sembra che lo spirito del canadese da giovane si sia impadronito di Miller) con un sottofondo alla Black Heart Procession, la strumentale Wire riporta al mondo classico e il cui merito, per l’arrangiamento, va a Joice Adams, unica donna del gruppo e compositrice classica in senso stretto. Dopo i fasti solenni del singolo Ghost Woman Blues, una laconica piano ballad che si esprime grazie alla microfonazione multiangolare e la consolatoria Apothecary Love che parla di disturbi mentali con commovente comprensione («When you met me you were numb from the voice in your head / Conspiracy delusions that your boyfriend kept fed / I swear I want nothing, just give me your hand / I’ve got the cure for the shape that you’re in»), si eleva Boeing 737 col suo incedere maestoso e passionale a là Band Of Horses. Hey, All You Hippies!, puro vintage Dylan/Band sound in chiave Basement Tapes segue l’autunnale Matter Of Time, una Everybody Hurts dei R.E.M. trascritta nei sepolcri e ispiratissima dal vivo, come testimonia uno showcase radiofonico che si trova in rete. Love And Altar è un blues quasi rurale cantato da voci fantasmatiche, mentre I’ll Take Out Your Ashes ci riporta al folcore arioso che contrasta con la sinistra atmosfera da monti Appalachi della colonna sonora di Un tranquillo week-end di paura.?La title track è il sommesso e nudo commiato finale di un sequenza avvolta da un alone antico e magico.
Grazie all’eco, ai riverberi naturali, agli effetti ambientali e al gioco delle distanze degli strumenti rese grazie al posizionamento non ortodosso dei microfoni, il valore delle composizioni acquista l’aspetto simbolico di un viaggio fra passato e presente. Se i Low Anthem oggi rappresentano un tentativo di evoluzione del suono analogico in contrasto con l’epoca digitale lo devono anche all’arte del disseppellimento e all’indubbia capacità di rinnovare la tradizione. Perché Smart Flesh è nato dall’esperienza di un collettivo in una factory post industriale esce nel 2011, ma il canovaccio è quello dei Basement Tapes. Anno di grazia 1967.
04/02/2011
THE LOW ANTHEM
Smart Flesh (Bella Union)