03/02/2011

THE MULE

Intervista a Ian Paice

Fa un certo effetto vedere Ian Paice, il leggendario batterista dei Deep Purple, il papà della moderna batteria hard rock, tenere fra le mani l’album Electric Ladyland di Jimi Hendrix, mentre osserva gli autografi dei bassisti Noel Redding e Jack Casady e del suo “collega” Mitch Mitchell. Un Deep Purple, l’unico della formazione originaria a essere sempre stato presente in tutte le incarnazioni della band, e Jimi Hendrix: due colonne del grande tempio del rock che sembra s’incontrino.
In visita al Museo Pan (Palazzo delle Arti) di Napoli alla prima edizione della mostra Rock! ideata dall’Associazione Culturale MFL Comunicazione di Michelangelo Iossa, accompagnato da Adam Fosso della tribute band dei Purple The Stage e dal batterista e collaboratore Paiste e Ludwig Paolo Sburlati, Paice si sofferma nella sezione “American Dreams: il rock a stelle e strisce” – una delle cinque aree dell’esposizione – realizzata con il contributo del Consolato generale degli Stati Uniti a Napoli. «Quando una forma d’arte persiste per un lungo periodo, diventa automaticamente parte della vita quotidiana», dice il drummer di Nottingham, guardando alle pareti le locandine d’epoca dei concerti di grandi architetti del rock come Chuck Berry, Ray Charles, Bo Diddley. «Il rock non è solo un genere musicale, ma è qualcosa di più, un movimento che abbraccia tutte le arti e che ha avuto la forza di cambiare anche la società, i suoi usi e costumi».
Sono passati esattamente 60 anni da quando un diciannovenne Ike Turner compose quello che per molti – compresa la Rock’n’Roll Hall Of Fame – è il primo brano rock’n’roll della storia, Rocket 88, registrato da Sam Phillips per la Sun Records e cantato da Jackie Brenston And His Delta Cats. Allora in tanti erano convinti che il rock, come un raffreddore, sarebbe passato nel giro di poche settimane…
«Invece fortunatamente non è stato così. Il rock, da quando è esploso agli inizi degli anni 50, ha rappresentato l’unico grande cambiamento nella musica popolare dai tempi della nascita del jazz della fine dell’Ottocento. I mutamenti registrati dalla nascita del jazz e l’esplosione del rock sono stati così grandi che da allora davvero poche cose sono cambiate. Anche i dischi di hip-hop presentano ancora la ritmica propria del rock. La straordinaria forza del rock è che arriva in maniera semplice e diretta alla gente».
Il rock che era nato a seguito di un corto circuito fra generazioni, come strumento di combattimento e rottura dei figli verso i padri, oggi è paradossalmente la musica dei potenti della terra: Clinton e Blair per esempio hanno più volte rivendicato l’appartenenza a questo mondo.
«Inevitabile. Cinquant’anni fa i ragazzi ascoltavano questa musica nelle loro stanze. Oggi quegli adolescenti sono le persone che governano il mondo. Quella musica che per loro era eccitante e importante, oggi potrebbe avere anche un ruolo nelle loro decisioni. Una cosa è certa però: l’epoca d’oro del rock è ormai tramontata. Ma fortunatamente la sua energia vive ancora oggi».
L’epoca d’oro ha visto i Deep Purple tra i grandi monarchi e anche in più decadi.
«Negli anni 50 negli States si sono costruite le fondamenta del rock, grazie ad artisti come Chuck Berry, Elvis Presley, Little Richard, Johnny Cash, Jerry Lee Lewis e a jazzisti come Gene Krupa, ma è nell’Inghilterra degli anni 60 che il rock acquista una nuova forma e soprattutto una nuova consapevolezza di sé. Noi, con tanti altri, abbiamo dato un grosso contributo».
Hai citato Gene Krupa, batterista dell’orchestra di Benny Goodman. È stato un tuo punto di riferimento?
«Da piccolo ascoltavo molto jazz grazie a mio padre. Krupa è stato il mio maestro. Contribuì a cambiare l’immagine dei batteristi, creando per primo pezzi dove gli assoli di batteria erano un tutt’uno con la melodia. Il brano Sing Sing Sing credo sia il primo pezzo registrato che contiene un assolo di batteria».
Nell’Inghilterra degli anni 60-70 eri in ottima compagnia, c’erano altri grandi batteristi come Keith Moon degli Who, Ginger Baker dei Cream, Ringo Starr dei Beatles, Jim Capaldi dei Traffic: che ricordi hai di loro?
«Keith Moon era un clown, un eclettico, teneva il palco come pochi, roteando le bacchette, alzando le braccia, ma non era solo questo, nel suo drumming c’era tanta, tanta sostanza. Jim Capaldi era anche un ottimo compositore e lo dimostrano i pezzi che ha firmato con Steve Winwood. Ginger Baker ha portato nuova linfa vitale – grazie alla sua estrazione jazzistica – al drumming inglese: è stato un innovatore. I Cream dal vivo erano eccezionali. Ringo aveva un feel unico che emerge dai dischi dei Beatles. Quella di Ringo non è stata fortuna come qualcuno asserisce, ma talento».
Veniamo a John Bonahm, che con te ha scritto le coordinate dell’hard rock.
«Conoscevo Bonzo da prima che entrasse negli Zeppelin. Lo vidi suonare la prima volta in un piccolo club. Quando attaccò lui, gli altri membri della band svanirono. Mai vista e udita una cosa del genere e non perché suonasse a volume alto, semplicemente perché aveva una grinta, una tribalità e un fisico unici. Purtroppo esistevano due Bonham, quello sobrio che era una persona eccezionale, buona, e quello sbronzo, violento e poco incline ai rapporti con gli altri. Ma il suo drumming in Stairway To Heaven è qualcosa di soprannaturale, semplicemente di un altro pianeta. Quello che ha fatto lui alla batteria non lo farà mai nessuno».
Tu rispetto a Bonham sei più “leggero”, ma più tecnico e veloce.
«Non sono fisicamente potente come lui, così ho colmato il gap con la tecnica e la velocità, sviluppando alla fine comunque un sound potente. Il mio dono è la velocità».
Da qui l’utilizzo frequente dei piatti e del charleston laddove i tuoi colleghi prediligevano i tom e la cassa.
«Sì, ho provato a cercare soluzioni armoniche differenti, l’ho fatto con i Deep Purple ma anche con i Whitesnake… e come Bonzo non ho mai usato la doppia cassa».
Il tuo drumming in levare in Black Night o l’intro di Fireball, per non parlare dei fraseggi sui charleston in Smoke On The Water hanno fatto scuola. Hai suonato con tante le stelle del firmamento rock: con Paul McCartney e David Gilmour in Run Devil Run dell’ex Beatles, o con Gary Moore: come ci si sente a essere uno dei più grandi batteristi della storia? Il motore ritmico forse del live più importante di sempre, Made In Japan, punto di partenza di una nuova era del rock? Lars Ulrich dei Metallica ha più volte affermato di aver iniziato a suonare la batteria, perché rapito dal tuo stile.
«È una bella responsabilità. Ma vivo il tutto con grande serenità. La cosa più importante è divertirsi. Non mi sono mai preso troppo sul serio, vivo il rock, la musica, come un gioco».
Con i Deep Purple hai pubblicato 18 album in studio e più di 20 dischi live: qual è il tuo lp preferito?
«Il doppio Made In Japan. Dentro c’è tutta la nostra energia live e la nostra creatività. Lo registrammo il 15, 16 e 17 agosto del 1972, i primi due giorni a Osaka, mentre il terzo al Budokan di Tokyo. Eravamo in uno stato di grazia che fortunatamente è stato catturato per sempre tra i solchi».
E la canzone preferita?
«Living Wreck da In Rock che era tutto un bel disco, e Dealer da Come Taste The Band».
Da poco con i Purple hai finito una lunga tournée: ora che farete?
«A marzo rientreremo in studio. Butteremo giù un po’ di idee nuove e inizieremo a lavorare alla registrazione del nuovo disco ad aprile. In estate poi saremo di nuovo on the road».
Vieni spesso in Italia?
«Sì, ho molti amici. La prima volta che venni era a Roma nel 1970 e mi rubarono tutti i piatti che avevo con me. Da allora è andata decisamente meglio».

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