C’era una volta una piccola scatola bianca e rossa dai contorni neri. Questa piccola scatola conteneva le dolci litanie e i sogni onnipotenti dell’infanzia, dove realtà e fantasia si mischiavano con lo stesso semplice candore. In questo caso la semplicità non era mancanza di articolazione: il mondo bambino è talmente complesso da contenere in sé ogni germe possibile, in una sorta di caos primordiale incubato che può venir definito semplice soltanto perché non conosce artefici e accetta la propria molteplicità. Come due fanciulli che giocano a nascondino, Jack e Meg White non vogliono proprio uscire dalla piccola scatola bianca e rossa dai contorni neri. In compenso ci hanno fatto uscire un elefante (Elephant, il loro ultimo lavoro in uscita a fine marzo). Quella “little box” per i White Stripes rappresenta il proprio universo musicale, il luogo creativo dal quale sono scaturiti anche The White Stripes, De Stijl e White Blood Cells. Il loro è un mondo che non vuole contaminarsi con le sovrastrutture dell’età adulta (e del mercato musicale) che ti costringono a diventare ciò che non sei invertendo le regole del gioco; e così, nello scrigno magico è possibile trovare un pachiderma color scarlatto che barrisce potenti riff rock’n’roll come There’s No Home For You Here o che sussurra vulnerabilità puerili come Cold, Cold Night.
A vederli questi due ragazzi ben torniti, entrambi dalla pelle di porcellana e dai capelli corvini, paiono davvero fratello e sorella persi nel bel mezzo di un qualche trastullo giovanile (se siano in realtà marito e moglie non ci è dato di sapere per tutta l’intervista). Per la verità “the big brother” è il più loquace, quello che tiene in piedi la conversazione mentre gli sporadici interventi di Meg, che parla solo se viene direttamente interpellata, si snodano in una serie di velocissime frasi abbandonate a metà (spesso è Jack a venirle in aiuto riprendendo il filo del discorso) scandite con una voce così flebile e delicata da apparire veramente quella di certe filastrocche infantili. Come da copione vestono come sulle cover dei loro dischi, fumano una sigaretta dopo l’altra e Meg tiene diritta innanzi a sé una bella bottiglia di whisky; davvero non male per un duo rock’n’roll che dice di essere ispirato dalla forma di caramella e lecca lecca.
“L’infanzia è il nostro luogo ideale perché rappresenta la purezza, la possibilità di essere se stessi senza maschere. Ammetto che forse è un modo un po’ semplicistico per avvicinarsi all’onestà d’intenti, ma per noi funziona perché ci permette di essere veri come il blues. Sono stati l’essenzialità e la spiritualità di questa musica ad avermi avvicinato al songwriting. Meg comunque è la vera parte bambina della band, quella più emotiva, istintiva, minimale, primitiva”, esordisce Jack. “È vero, e si vede dal modo in cui suono la batteria. Pur rispettando i virtuosi dello strumento io amo i ritmi basilari, ridotti all’osso, semplici e sostanziali come il battito di un cuore calmo o impaurito”, cinguetta Meg.
Per registrare il loro ultimo album il duo di Detroit si è recato fino ai Toe Rag Studios di Londra, immergendosi totalmente in un’atmosfera vintage costruita da strumenti vecchi almeno di trentacinque anni. “Volevamo suonare con strumentazioni che esprimessero l’anima della creatività e che ci portassero alle radici del rock. Non ci interessa la tecnologia che rendendo il parto di un brano troppo facile ne ruba l’anima. Abbiamo la necessità di confinarci nella difficoltà di un processo che per sua natura ci costringe a confrontarci con le nostre parti più nascoste e a sviscerarle, ma almeno se alla fine il disco viene apprezzato sappiamo che ciò riguarda un qualcosa di molto intimo e non il perfetto funzionamento di un computer di ultima generazione.”
Elephant ha richiesto in realtà soltanto dieci giorni di lavorazione, un budget di soli 6mila dollari ed è stato registrato assolutamente senza nessun effetto speciale. “È una questione di semplicità che per noi è garanzia di onestà. Dopo il successo di White Blood Cells abbiamo ricevuto moltissime offerte per nuovi contratti, ma abbiamo preferito restare con la nostra vecchia etichetta, con la libertà creativa di sempre e senza il desiderio di fare cose fantasmagoriche soltanto perché avevamo avuto successo. Questo desiderio di semplicità diventa anche la discriminante dei nostri gusti musicali: rispettiamo qualsiasi genere purché non sia frutto di artefazione come certi prodotti confezionati che vanno di moda adesso.”
Ad osservare i volti paciosi di Jack e Meg viene da chiedersi come facciano, dopo il travolgente riscontro del loro passato lavoro, a non sentire la pressione di un ambiente avido e frenetico come quello del music-biz e a mantenersi incontaminati rispetto alle lusinghe della popolarità. “Siamo coscienti di essere diventati un’entità pubblica e siamo orgogliosi che la nostra musica piaccia a milioni di persone e in effetti questo ci causa qualche ansia in più, ma non va comunque ad intaccare la nostra essenza. Possiamo prenderci il lusso di essere noi stessi perché abbiamo fatto una discreta gavetta, non siamo il frutto di una qualche furba operazione di marketing e per cui, prima di vendere milioni di copie, avevamo già un’identità ben consolidata. Il nostro rapporto con la musica è profondo e radicato; il disco è soltanto la risultante necessaria di questa relazione.”
Eppure a vederli sulle copertine delle riviste specializzate di mezzo mondo in compagnia di altri gruppi famosi quali The Strokes sembrerebbero diventati parte di quel fenomeno che vede il revival rock’n’roll diffondersi nei quattro angoli del pianeta. “Noi e gruppi come gli Strokes non siamo diventati multiplatino come certe band di Seattle per cui non credo si possa parlare di fenomeno; il grunge forse lo è stato e per questo è stato fagocitato dalle multinazionali. Le band del nuovo rock non hanno lo stesso potenziale commerciale, appartengono ad aree geografiche diverse per cui l’hype è più che altro creato dai media. I White Stripes, ad esempio, sono largamente ancorati alla scena di Detroit e io stesso ho suonato in molti altri gruppi dell’area prima di unirmi a Meg. Noi viviamo ancora lì, nelle nostre vecchie case, con i nostri roommates e facciamo ancora la stessa identica vita. Forse l’unico parallelismo che si può fare con Seattle è quello che dopo il nostro successo Detroit si è riempita di talent scout che cercano i nuovi White Stripes come là cercavano in nuovi Nirvana. Per il resto siamo molto felici di aver attirato l’interesse mediatico sulla nostra città che pullula di gruppi di talento e di aver regalato loro indirettamente una certa visibilità”, spiega Jack.
Di Detroit, città sopravvissuta al gran decadimento dell’industria tradizionale iniziato intorno alla tarda metà degli anni 70, i White Stripes hanno la forza di chi vuole farcela da solo, quel “do it yourself” che nei primi anni 80 era anche stato il motto del movimento hardcore. “Siamo cresciuti in un quartiere meticcio, pieno di neri e messicani. I nostri compagni di scuola ascoltavano molto hip-hop e non per niente Eminem è di Detroit. Io però non sono mai riuscito ad apprezzare quel tipo di espressione, come neanche sono mai stato totalmente catturato dalla furia anarchica degli MC5. A me piacciono le regole”, dice Jack.
Strano sentir parlare di regole colui che tanto accento ha messo sull’importanza della libertà creativa. “Libertà e regole non sono due concetti contradditori; per me la libertà ha senso nel momento in cui ci si pone dei limiti”, precisa il chitarrista. “Per questo ho concepito l’idea della ‘piccola scatola’ che rappresenta un po’ il nostro piccolo mondo. È la limitatezza dei confini che definisce l’identità di una cosa. Noi siamo i White Stripes, con la nostra peculiarità, perché ci siamo posti certe norme come non usare la slide guitar, non utilizzare il basso, non proporre cover, non utilizzare altri musicisti, il che ci aiuta anche ad essere più fluidi nelle decisioni da prendere. Queste costrizioni ci impongono di mantenere un approccio onesto con la nostra musica, ad esempio a non utilizzare altri strumenti anche se ne avremmo la possibilità, e a dare il meglio. Le grandi canzoni sono sempre state scritte quando gli autori si trovavano in uno stato di confinamento dettato dalla povertà, dalla malattia, dalla sofferenza e così via e ciò non ha mai impedito loro di diventare popolari. Io credo nel potere della censura perché essa forza gli artisti a creare trovando un modo diverso per esprimere quello che vogliono dire, li forza a spingersi oltre ai propri limiti oggettivi sfruttando il soggettivo e l’intuizione. Quando hai troppa libertà semplicemente ti perdi o diventi scontato, come sta accadendo alla scena elettronica sostenuta dalle infinite possibilità tecnologiche. Attraverso le limitazioni invece sei obbligato a trovare le risorse dentro te stesso diventando più introspettivo. Non per nulla molte religioni e filosofie orientali invitano a gestire la moderazione, la rinuncia e ad esplorare la necessità dei limiti piuttosto che incitare all’anarchia. Anche il punk-rock, che grida alla trasgressione delle norme, è però definito tale rispetto a criteri precisi che lo identificano come stile. Non penso che qualsiasi libera forma di espressione creativa debba essere considerata arte; ci devono essere dei parametri da rispettare e bisogna sapere quando fermarsi. Per questa ragione, non mi fido degli artisti che dicono di essere prolifici nel momento in cui sono felici e si divertono: la tristezza e il dolore sono gabbie potenti che ti aiutano a scoprire nuove potenzialità.”
Considerando che Jack ha davvero le idee chiare, viene da chiedersi quali possano essere le regole fissate per definire il songwriting della band. “Solitamente componiamo i pezzi separatamente al piano o alla chitarra acustica e poi insieme forziamo la canzone ad entrare entro i perimetri della nostra piccola scatola. Non la lasciamo libera di prendere la direzione che crede, ma la costringiamo ad adeguarsi al nostro modello plasmandola. Non partiamo mai dal concetto di come l’album dovrebbe essere, ma piuttosto rispettiamo un’altra nostra regola che è quella del numero tre: nei brani ci devono essere sempre tre elementi intercambiabili tra loro come chitarra, voce, batteria, oppure chitarra, voce, piano, o ancora voce, piano e batteria, mentre esteticamente e visivamente adoperiamo sempre il rosso, il bianco e il nero. Sono tinte scelte all’inizio, per non doverci preoccupare ogni volta di cosa indossare e come apparire; è una sorta di uniforme come quella del college che delinea un tratto distintivo ed evita che si formi competizione.”
Mr. White pare essere conservatore sotto molti punti di vista. Elephant è dedicato volutamente a “The Death Of The Sweetheart”. “È un omaggio al ritorno del romanticismo non inteso come atteggiamento stucchevole, ma come forma di rispetto reciproco e dei ruoli diversi che madre natura ha assegnato all’uomo e alla donna, ora distrutti dal bombardamento mediatico e dall’uso strumentale che questo fa della sessualità.”
Anche se Jack White sostiene di non essere religioso, almeno non nel senso dogmatico e tradizionale del termine, un vago concetto taoista dello yin e dello yang permea la maggior parte del suoi discorsi e forse per questo ha deciso di formare una band con il suo alterego femminile. “Le nostre canzoni parlano molto delle relazioni e del rapporto uomo-donna non inteso soltanto come interscambio tra due persone, ma anche come flusso tra la parte maschile e femminile della stessa persona. Il femminile e il maschile di me e Meg definiscono la polarizzazione che caratterizza la musica dei White Stripes creando una corrente, una tensione positiva. È in realtà il solito principio degli opposti. Molto spesso, quando scrivo, mi identifico in un carattere muliebre, altre volte in uno infantile. Quando abbiamo dato vita a questo progetto volevamo davvero riprodurre in musica una sorta di sguardo innocente e bambino sul mondo, modulato dal fatto che siamo di sesso diverso. Direi che le tematiche riguardanti l’infanzia e i rapporti sono quelle che ci ispirano maggiormente e che rendono la nostra musica quella che è.”
In effetti in Elephant troviamo la virilità di affondi grezzi e la leggiadria di melodie che paiono cantilene, il calore viscerale del rock e l’introspezione più delicata del folk, la rudezza spigolosa del garage e la circolarità morbida della psichedelia. “Questo gioco degli opposti non è il risultato di uno studio preconcetto, quanto di un approccio individuale ai brani. Abbiamo lavorato ad ogni canzone singolarmente, come se fossero lati A di un 45 giri, perché non ci piace la totale omogeneità di un disco; adoriamo invece creare anfratti, angolature, nuove prospettive, pur continuando ad utilizzare gli stessi elementi.”
Affabili nei modi, morbidi nell’aspetto ma rigidi e intransigenti riguardo alle modalità di lavoro e all’approccio nei confronti del mondo musicale, i White Stripes sono veramente come una grande caramella colorata e soffice nell’aspetto, ma dal nocciolo duro, di cioccolato all’interno, nero come il loro amore per il blues.