21/03/2007

Tool

10.000 giorni alla fine del mondo

Un celebre canale televisivo americano all news ha sintetizzato arbitrariamente tutta la propria autorevolezza con lo slogan “sarai il primo a sapere”. Una frase ad effetto, sicuramente, che trascura un elemento di base: sapere, sì, ma cosa? Quale verità? Ottenuta e/o elaborata con quali strumenti? Lo slogan – astutamente – non lo dice, ma sottintende: la loro verità, cioè quella di chi rimpolpa i contenuti che attraversano il tubo catodico. Alcuni pensatori e/o artisti illuminati stanno conducendo, qua e là nel mondo, una personale e individualissima battaglia volta a emancipare le menti. Lo scopo è quello di indicare una via perseguibile, anche se faticosa: usare la testa per comprendere e, di conseguenza, costruire la propria verità imparando a scegliere quale strada seguire anziché diventare succubi di scelte altrui. E, soprattutto, allenarsi a capire dov’è che si sta lavorando per arrivare alla verità oggettiva.

Questo metodo di ricerca & sviluppo intellettuale non riguarda solo il mondo dell’informazione ma anche, ad esempio, la musica e quindi le emozioni che la stessa suscita. Esistono, nel variegato panorama musicale internazionale, tante forme di espressione quante sono le band – note ed emergenti – in attività. E l’ascolto della musica, grazie a un’offerta ricchissima, diventa una pratica di selezione: l’ascoltatore attinge qua e là, definendo e aggiornando giorno dopo giorno un repertorio di brani importanti. Ma capita anche di identificarsi profondamente in un artista o in gruppo, sposandone al 100% lo stile, le scelte, il percorso.

I Tool hanno il potere di trascinare chi li ascolta all’interno del loro mondo, come in un viaggio cavernoso e angosciato che si fa carico dei destini dell’universo – a partire dalla sofferenza del singolo – ed esplorando i lati più oscuri, sensibili e dolenti della natura umana. La loro capacità di immergersi nel profondo è tale che chi li ascolta può essere immediatamente respinto o, all’opposto, risucchiato da tutto quello che fanno, suonano, cantano, mostrano (anche attraverso i loro sconcertanti video ideati e diretti dal chitarrista Adam Jones, vedi box in questa pagina). Perché il loro modo di procedere diventa una guida. Non solo la mappa ma anche il metodo di consultazione della mappa stessa, che ha l’obiettivo di cercare una o più verità, attendibili e condivisibili.

Esiste un’unica verità? I Tool rispondono a questa domanda facendo emergere alcune laceranti verità.

Il curriculum di questo quartetto comprende un numero esiguo di album (Undertow del 1993, Aenima del 1996 e Lateralus del 2001 che esordì con un bel primo posto nelle classifiche di vendita americane, vedi box a pagina 71), che nel corso di 13 anni hanno segnato un’evoluzione musicale costante e sorprendente. Se agli inizi l’influenza più evidente era quella grunge, nel corso del tempo sono stati annessi elementi via via più abrasivi e violenti, spostando lo stile prima verso l’alternative metal e poi verso il prog metal. Tutto questo con una lucidità e una coerenza comune a poche band.

 

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Dopo un’assenza durata quasi un lustro i Tool tornano a far sentire la loro voce e a mostrare (metaforicamente) vene e arterie con un nuovo album 10,000 Days, che riprende il discorso che si era interrotto con Lateralus, aggiungendo novità, variazioni, sorprese. “Ogni nuovo lavoro è una sfida con se stessi, un confrontarsi continuo con stati d’animo che variano” ci ha detto il batterista del gruppo Danny Carey, che abbiamo incontrato durante la presentazione mondiale del nuovo disco. “Passi attraverso momenti di tristezza, gioia, incertezza o paura. Cerchiamo di dare tutto il meglio e potremmo continuare a lavorare sulle canzoni all’infinito, ma a un certo punto ci fermiamo, dicendo: questa è la nostra musica adesso. Da un punto di vista sonoro, credo 10,000 Days sia il nostro album migliore. Anche per quanto riguarda gli arrangiamenti. I testi nascono da un senso di urgenza: il pericolo incombe sul mondo intero, la confusione impedisce alla gente di avere chiarezza mentale, autonomia di pensiero, lucidità. Quello che non viene compreso davvero finisce per diventare potenzialmente pericoloso e, quindi, si trasforma in qualcosa di mostruoso, terribile. Noi parliamo di tutto ciò”.

Uno degli aspetti più rilevanti del modo di suonare dei Tool è che spesso i ruoli si confondono oppure vengono addirittura scambiati. Questa pratica non è casuale e, al contempo, non nasce neanche da una fredda riflessione razionale, quanto piuttosto dal desiderio di esprimersi superando le consuetudini. E anche dall’ascolto delle personalità musicali degli elementi del gruppo. Per quanto l’ambito in cui si muovono i Tool sia il variopinto universo rock, non è detto che un chitarrista debba necessariamente scalpitare per poter piazzare un assolo da qualche parte. Così come non è detto che un cantante debba essere l’elemento di primo piano. Per tutte queste ragioni la musica dei Tool suona diversa rispetto a qualsiasi altra cosa. L’approccio alla chitarra di Adam Jones – che, come accennavamo in precedenza, si occupa anche dell’immagine del gruppo, ha una vasta esperienza come designer e ha partecipato, tra le altre cose, alla progettazione degli effetti speciali Terminator 2 – sembra quello di un bassista, sia come modalità esecutive sia come evidenza nelle canzoni, mentre Justin Chancellor, che è il bassista, all’opposto acquista posizioni di primo piano ed emerge con forza, come se imbracciasse la chitarra. Il glabro Maynard James Keenan, voce e portatore sano di angosce infinite, non viene meno al proprio ruolo di cantante ma spesso indulge nella creazione di tappeti sonori, incarico solitamente – ovvero nella maggioranza delle band – affidato a tastiere o computer. Forse l’unico che resta al proprio posto è Danny Carey…

“La funzione di Adam e Justin è strettamente collegata a sviluppi melodici e armonici della nostra musica” conferma Carey. “Si scambiano tranquillamente i ruoli, non gli strumenti, e questo è quanto di meno pop si possa trovare sul mercato, no? Io ovviamente lavoro più sulla dinamica, sull’apporto energico alla musica. Ma di solito quello che faccio continua a cambiare prima che un pezzo venga ritenuto chiuso. L’ingresso della voce chiude le fasi creative e di registrazione. È a questo punto che, di solito, le parti di batteria cominciano a cambiare a volte totalmente, legandosi in modo forte al cantato, enfatizzandolo, sostenendolo, irrobustendone la presenza. Viaggiamo musicalmente insieme, Maynard e io. Quindi a un certo punto chi ascolta sente che la chitarra ha lasciato il ruolo di leader al basso e il basso affida il sostegno strutturale dei pezzi alla chitarra. La voce si concentra sulle atmosfere e sui fondali musicali… solo la batteria resta la batteria. The drum still have to be the drum! D’altra parte è uno strumento antichissimo, quasi primitivo, profondamente legato alla fisicità di chi lo suona”.

Un elemento di (semi) novità di 10,000 Days che in passato era stato avvicinato – ma non esplorato in profondità – è quello etnico, presente in più di una canzone (come Lost Keys (Blame Hofmann) e Right In Two). Neanche a dirlo, non si tratta di inclusioni volute per dare o alimentare toni esotici, ma di una forma di infestazione – a volte squisitamente rilassante o ipnotica – che serpeggia all’interno dei brani fino a quando gli strumenti tradizionali non intervengono a riportare tutto alla normale, consueta, gorgogliante aggressività. In Right In Two, ad esempio, le tablas vengono annientate dall’ingresso della batteria e quella che era una ballad in odore di Alice In Chains diventa, piano piano, un contenitore di ossessioni sino a sfociare in una furibonda conclusione. “È uno dei modi che abbiamo di costruire le canzoni” dice Carey “accostiamo all’interno dello stesso pezzo tante atmosfere o umori diversi, passando da fasi delicate e introspettive a fasi potentissime. È un lavoro sui contrasti di stile, di emozioni, anche di volumi. Abbiamo un controllo assoluto su tutto ciò che stiamo suonando, ma cerchiamo di preservare la spontaneità… Intendo dire che il controllo non si traduce mai in un inaridimento dell’ispirazione iniziale”.

 

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I Tool sono una vera band, nella quale i ruoli sono distribuiti con intelligenza e consapevolezza. Nessuno tende a emergere o a sovrastare gli altri. Quattro musicisti, quattro leader: è il gruppo ad essere leader. Per questa ragione ascoltando 10,000 Days diventa evidente da una parte quanto sia forte e consolidato il dialogo tra Carey, Jones, Chancellor e Keenan, e dall’altra quanto sia importante la ricerca orientata sia al sound, sia alla coesione e all’intesa tra musicisti, per arrivare a vette espressive sempre più elevate: “Come gruppo abbiamo raggiunto un elevato livello di maturità nello sviluppare le idee in modo partecipe e collettivo. Questo non significa che lavorando ai pezzi manchino i momenti di sconforto, tutt’altro. Ma si alternano a gioia ed esaltazione. Nel corso del tour di Lateralus sviluppammo molte piccole idee, soprattutto durante il soundcheck. Abbiamo conservato questo materiale. Al ritorno a casa ci siamo temporaneamente dedicati ad altri progetti oppure abbiamo semplicemente suonato con degli amici. Quindi ci siamo ritrovati tutti e quattro, portando tutte le recenti esperienze nonché le idee e gli spunti elaborati durante il tour. Agli inizi si trattava quasi esclusivamente di jam session dal sapore psichedelico, dove riprendevamo possesso delle idee portandole nel nostro presente musicale. Ore e ore a suonare insieme. Dopodiché abbiamo individuato i momenti migliori delle lunghe jam e – di comune accordo – abbiamo fatto delle scelte”.

Il tour di 10,000 Days partirà prima dell’estate e toccherà l’Italia nella seconda metà di giugno. Nel frattempo, per chi, oltre alla musica dei Tool, ama l’arte di Adam Jones, suggeriamo la visione dei video che accompagnano i brani Parabola e Schism, entrambi tratti da Lateralus, da poco pubblicati su dvd. Un ulteriore esempio di come sia possibile seguire un percorso estremamente personale e sincero, e allo stesso tempo attirare nutrite schiere di ascoltatori in tutto il mondo.

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