Il 2008 è un anno importante per me e Tuck” spiega Patti dal palco del Blue Note prima di concludere uno dei sei concerti (tutti sold out) tenuti dal duo californiano nel celebre jazz club milanese il mese scorso. “Nel 1988 è uscito il nostro album di debutto Tears Of Joy” continua la prosperosa vocalist di colore “dieci anni prima, nel 1978, io e Tuck ci siamo incontrati a San Francisco nel corso di un’audizione; oggi siamo nuovamente qui per farvi felici. Aprite i vostri cuori e, se volete sapere per quanto tempo continueremo ad amarvi, noi diciamo… Time After Time”.
Quando attaccano la loro formidabile versione del classico di Cyndi Lauper (di fronte alla quale impallidisce persino la magistrale cover di Miles Davis su You’re Under Arrest del 1985) T&P incantano anche lo scettico. Quel brano, inciso per la prima volta proprio nel 1988, rimane il più efficace e suggestivo manifesto artistico-sentimentale della deliziosa coppia panna & cioccolato del Northern California.
Quella di T&P è una formula sonora originale e piena di fascino, una specie di pozione (acustica) magica nella quale convivono in modo naturale generi musicali diversi (jazz, rock, folk, blues, funk e reggae) che paiono inchinarsi di fronte alla chitarra di Tuck Andress e all’ugola (e al debordante feeling) di Patti Cathcart. Un idioma artistico che risulta capace di fondere in modo mirabile il chitarrismo futurista di Tuck (imprevedibile mix tra Wes Montgomery e Jimi Hendrix) e la commovente espressività di Patti (ideale anello di congiunzione tra Sarah Vaughan e Laura Nyro). La loro intesa, umana e creativa, è fantastica: persino la minima nuance dell’una è accompagnata (e sottolineata) alla perfezione dall’altro e persino i suoni sono studiati nel dettaglio. La Gibson L5 di Tuck (con gli speciali pick up Bartolini) produce un sound cristallino che può, un secondo dopo, diventare pieno e compatto così come la sua impareggiabile, personalissima tecnica chitarristica è in grado di trasformare la sei corde in un’orchestra, un ensemble percussivo, uno strumento lirico. Dal canto suo, la voce di Patti ha tutto: calore emotivo e colori timbrici, abilità tecnica, versatilità stilistica, passione ed espressività. Il risultato è sensazionale: le due (pur spiccate) personalità diventano una sola cosa, assai più talentuosa, affascinante e consistente della somma dei singoli.
“Ricordo ancora il nostro incontro del 1978” mi spiega Patti quando registriamo uno dei miei RockFiles negli studi di LifeGate Radio. “Stavamo provando un brano di Horace Silver per big band. Quel chitarrista timido, in un angolo, mi aveva colpito da subito”.
“Il mio mito è sempre stato Jimi Hendrix” interviene Tuck “ma il suo modo di suonare era davvero alieno… inarrivabile. Per questo ho pensato che Wes Montgomery e altri grandi chitarristi jazz fossero più facili da emulare. Così ho iniziato a sviluppare il mio stile che ha cominciato però a definirsi nel momento in cui io e Patti abbiamo formato il nostro duo. Non avevo mai, prima d’allora, accompagnato una voce femminile: non ho più smesso”.
“Sono nata a San Francisco e cresciuta (anche artisticamente) insieme ai colorati figli dei fiori, in piena Summer Of Love” racconta la Cathcart. “Ho assistito a centinaia di concerti al Fillmore e alla Avalon Ballroom, ho conosciuto Janis Joplin, Jerry Garcia, Grace Slick e tutte le band psichedeliche della Baia. Una volta, il giorno del mio compleanno, Jimi Hendrix durante un concerto mi ha chiamata Foxy Lady… Ho iniziato a far musica ancora prima di sapere parlare” continua. “Patricia, ma tu canti sempre?, chiedeva spesso mia madre. In realtà, ho suonato il violino per più di dieci anni sino a che, un giorno, il mio professore del liceo mi ha seriamente incoraggiata a cantare. È stata invece la mamma a farmi appassionare alla tradizione della black music: tutte le grandi regine di blues, jazz e soul – da Mahalia Jackson a Ella Fitzgerald, da Bessie Smith a Sarah Vaughan e Aretha Franklin – erano sue beniamine. Quindi sono arrivate le prime esperienze professionali: come vocalist di T-Bone Walker, prima, e come fondatrice dei Kingfish poi, il gruppo in cui militava Bob Weir, quando non suonava con i Grateful Dead”.
“Dopo due o tre mesi con quella band per la quale avevamo effettuato l’audizione” ricorda Tuck “io e Patti abbiamo iniziato a suonare insieme. Ricordo le ore passate sul divano ad ascoltare i dischi in cui Ella Fitzgerald era accompagnata dalla chitarra di Joe Pass”.
Io, Tuck & Patti, li conosco da vent’anni: proprio dal fatidico 1988, anno di pubblicazione di Tears Of Joy. Sono sempre gli stessi (a parte un po’ di rughe qua e là, i riccioli di Tuck completamente imbiancati e qualche chilo in più che rende ancor più burroso il fisico di Patti): dolcissimi, disponibili, colti e brillanti. Too nice to be true, direbbero i loro connazionali, se non che, loro due, sono proprio veri…
Alcuni amici a San Francisco, già da metà anni 80, mi decantavano le doti eccezionali di questo duo chitarra-voce che si esibiva quasi ogni settimana nel lussuosissimo Fairmont Hotel di Nob Hill. “Ma solo poche volte alla Venetian Room” specifica scherzosamente Patti. “Su quel palco erano salite Ella Fitzgerald, Billie Holiday e altre luminose stelle del jazz. Noi, più spesso, suonavamo nella saletta di fronte, la New Orleans Room, più piccola e modesta”.
Credo, nel mio piccolo, di aver concretamente contribuito al loro successo italico; se non altro perché, all’epoca, ho trasmesso motivazioni e convinzione all’amico Stefano Zappaterra che, in quegli anni, gestiva per la PolyGram il bellissimo catalogo della Windham Hill Records, la prestigiosa etichetta di Palo Alto diventata famosa per aver proposto new age strumentale di altissima qualità.
“Questi fanno jazz” mi aveva detto allora Zappaterra “cosa c’entrano con la new age?”.
“Non molto” avevo ribattuto io “ma ti posso garantire che sono degli autentici fenomeni”.
Stefano si era convinto e così il primo album di Tuck & Patti (grazie anche all’azzeccata promozione di Time After Time) ha venduto in Italia più di 30 mila copie e ha fatto diventare il duo della Bay Area un oggetto di culto anche da noi. Il resto è storia.
“Da quel giorno del 1978” ricorda Patti “ho tratto una lezione: che nella vita è importante essere attenti. Non fossimo stati concentrati, l’uno nei confronti dell’altra, io e Tuck oggi saremmo probabilmente due realtà separate. Forse, in quella canzone (Out Of The Night Came You) c’era qualcosa di profetico. Il testo recita testualmente: esco nella notte e m’imbatto in te. Trent’anni dopo, siamo sempre qui”. Già, ancora qui con un disco nuovo che trasmette il loro amore per la musica americana degli anni 30 e 40. “È una delle nostre, tante passioni comuni” dice Tuck. “Avremmo potuto fare quattro album con questo repertorio… Per noi è facile, naturale, suonare e cantare Duke Ellington, Count Basie o le canzoni rese celebri da Ella Fitzgerald, Frank Sinatra, Billie Holiday”.
Così com’è sempre facile e naturale trasformare qualsiasi brano che a loro piace (dai Beatles a Bob Marley, da Joni Mitchell a Jimi Hendrix) in una cover originalissima. “Faccio fatica” spiega Tuck “a farmi venire in mente un brano che volevamo fare e che non siamo riusciti a rendere in modo efficace. A volte, è solo questione di tempo”.
Vederli da vicino quando eseguono la medley hendrixiana Castles Made Of Sand / Little Wing è sempre una grandissima emozione: la voce di Patti fa vibrare le corde dell’anima nello stesso momento in cui le corde (di metallo) della L5 di Tuck sorprendono e affascinano. Poi, insieme, ti seducono, ti rapiscono, ti fanno sognare: persino lo spirito di Jimi Hendrix sembra, a un certo punto, fare capolino sopra di loro, approvando il tutto con un sorriso.
“Dal 1978” confermano “le nostre vite sono completamente cambiate. È stato un dono divino. A volte non ci rendiamo conto che sono già passati trent’anni… Speriamo di poterne avere davanti a noi altri trenta così”.