06/07/2011

tUnE-yArDs

Una tribù che urla

Faceva la burattinaia in una compagnia offbeat del Vermont. Uno spettacolo raccontava le avventure di un ippopotamo che vive in una vasca da bagno appesa a un albero. Un altro era basato sui testi di un intellettuale ebreo nella Germania nazista. Le capitava di dovere accompagnare le scene canticchiando. «È stato allora che mi sono accorta che mi piaceva cantare. Così ho deciso di diventare musicista. Spero che la gente ascolti le mie canzoni col rapimento solitamente riservato alle rappresentazioni teatrali. E poi io sono una che pensa alla musica in modo visivo: se non la vedo girare nella stanza, se non riesco a immaginarla in 3D, vuol dire che non è valida». La sua è valida, eccome. Gira per la stanza mossa da una forza inesauribile. Non stupisce che il suo nuovo album somigli a una street performance, a un teatrino “contro” dalla vitalità irrefrenabile.
Lei si chiama Merrill Garbus, il suo progetto musicale tUnE-yArDs, scritto così, alternando minuscole e maiuscole. È uno dei personaggi più interessanti usciti dal sottobosco musicale americano negli ultimi tempi. Una forza della natura. Costruisce canzoni a strati intrecciando in modo creativo tracce vocali, ukulele, sassofoni, vecchie tastiere. Che è poi simile a quello che fa dal vivo, usando una loop machine. Canto sconquassante, sassofoni che barriscono, ritmi africaneggianti. Originale? Senza dubbio. Intenso? Come poca altra musica “indipendente” in circolazione.

Nel nuovo album w h o k i l l – altro vezzo grammaticale – Merrill Garbus reinventa tUnE-yArDs trasportando il progetto dalla camera dove fu inciso l’esordio BiRd-BrAiNs in un vero studio di registrazione. Aveva una visione di quel che il disco sarebbe stato? «Magari. Sono andata avanti a piccoli passi. Il cambiamento era inevitabile: mi premeva espandere lo spazio sonoro e registrare con mezzi migliori. Però non volevo che l’album avesse un sound da studio stantio, perfettino e vacuo. Il fonico Eli Crews mi ha offerto il contesto giusto per combattere quel tipo di aridità e rendere le canzoni vive. Il bassista Nate Brenner mi ha aiutata ad espandere il suono interpretando quel che avevo in testa».
BiRd-BrAiNs aveva il fascino del documento casalingo, lo spirito naïf del disco spoglio e imperfetto. Era il piccolo mondo di Merrill: un ukulele, qualche rumore d’ambiente, canzoni che sembravano ninnananne, ninnananne che sembravano canzoni. Tutto inciso su un registratore vocale. Essenzialità folk e sensibilità pop compresse in un’audiocassetta, il formato della primissima edizione. Una specie di registrazione sul campo: solo che il campo non era da qualche che parte nel Mississippi negli anni 30, ma in una casa di Montreal nei Duemila. La musica sembrava giungere da un posto remoto. Tutto il contrario di w h o k i l l che ti sbatte in faccia la contemporaneità cumulando suoni, segni, voci. Merrill è arrivata al nuovo sound durante i concerti dove usa un pedale del loop che le permette di costruire il suono strato su strato davanti al pubblico, in tempo reale. E difatti w h o k i l l possiede il senso d’eccitazione dell’evento che prende forma sul momento. «Lo spero proprio: volevo espandere, non snaturare tUnE-yArDs. Il pedale del loop? Ci vuole un po’ di dimestichezza per usarlo. Devi fare pratica. Ciò nonostante, faccio ancora errori. Uso un Boss RC-2. Premi una volta, inizi a registrare. Due volte, selezioni la fine del loop. Tre volte, registri su te stessa. Le possibilità sono infinite, specie adesso che sul palco di pedali del loop ne ho due. E poi, oltre a Nate, ora porto in tour i sassofonisti Matt Nelson e Kasey Knudsen». Un salto in avanti per una ragazza, classe 1979, che da piccola pensava che essere musicista fosse uncool: voleva prendere le distanze dalla madre che suonava il pianoforte e dal padre che ascoltava country.
Il nuovo album esalta un altro elemento sostanziale della musica di Garbus: la natura viscerale. L’abbandono al ritmo e al canto. La tribalità, se piace il termine. «La musica deve colpire in modo fisico. Le canzoni puoi imbellettarle finché vuoi, ma alla fine devi riuscire a toccare le persone nella loro umanità. Tribale, dici? La parola mi piace se indica gente che fa festa assieme, se evoca un’esperienza di comunanza nel ritmo, nel ballo, nella gioia. Ma non è vero che ho studiato canto in Africa, come scrivono. Quand’ero studentessa ho fatto un’esperienza di scambio culturale in Kenya e ho studiato la musica Taarab: tutto qui. Del resto oggi abbiamo un accesso alla musica africana inimmaginabile ai tempi di Graceland di Paul Simon. Ho ascoltato molta musica degli Aka della Repubblica Centrafricana, ma non laggiù, erano cd che sentivo a Montreal. Avevo danneggiato la voce, o almeno così credevo, e perciò facevo molto yodeling. È stata la mia amica Katherine Peacock (dei Mussaver, nda) a dirmi che avrei dovuto prestare ascolto al particolare stile di yodeling dei pigmei dell’Africa Centrale».
Ecco, la voce. Quella di Merrill Garbus è fuori dal comune. Non è da virtuosa, non in senso tradizionale. Ma ha una vitalità quasi maniacale. Il “colore” è scuro, maschile. È sfrontata e sovversiva. È un grido di guerra gioioso e giocoso, è piena di soul, hip-hop e un pizzico di jazz, versante Nina Simone. «Una volta ho ascoltato la sua Sugar In My Bowl un pomeriggio intero: era l’esatta descrizione della mia tristezza. La voce di Nina Simone è unica, bassa e maschile, inusuale per la tradizione della musica popolare. Eppure si è fatta strada: un’ispirazione, per una come me». Di recente Merrill ha cantato coi Roomful Of Teeth, un ensemble che studia tecniche vocali provenienti da ogni parte del globo. E ora, dice, le piacerebbe studiare con maestri coreani e siciliani.
E poi c’è la questione dell’ukulele, uno degli strumenti usati da Merrill che sta vivendo un inatteso revival. Lei usa un modello tenore con pick up Schatten. «È più facile della chitarra: 4 corde invece di 6. È meno intimidente e mi permette di concentrarmi sulla scrittura. E poi l’ukulele non ha la storia importante della chitarra, puoi farci quel che vuoi. È strano e misterioso».

I dati sono del maggio 2011. Secondo le analisi condotte da 24/7 Wall St basandosi sulle rilevazioni dell’Fbi, la sesta città più pericolosa d’America sarebbe Oakland, California. Proprio lì si è trasferita Merrill Garbus proveniente dalla più rassicurante Montreal, dopo essere cresciuta nel New England. Uno shock culturale che ha ispirato i testi di w h o k i l l, un lavoro mosso da una prepotente urgenza espressiva e da un anelito di libertà «che spero faccia sentire più forte chi lo ascolta». È un disco urbano, affilato, pieno di immagini violente. Un disco caricato a molla di tensione: le canzoni sono il modo in cui Garbus ha reagito alla paura strisciante avvertita in California. Eppure la musicista non rende evidente il proprio pensiero. Non è una cantautrice politica: si considera un tramite per storie come quella di Gangsta, che s’interroga sul destino di un ragazzo che cerca di sopravvivere in un quartiere pericoloso. O Riotriot, che inizia con una fantasia sessuale di una ragazza sul poliziotto che arresta il fratello, in uno scenario metropolitano che fa somigliare Oakland a un territorio di guerra. Con una frase elusiva e memorabile: «Nella violenza c’è un tipo di libertà che non comprendo». Doorstep è l’urlo di disperazione di una donna cui hanno ammazzato l’uomo sull’uscio di casa e si chiude con la delusione di chi ha «creduto nell’amore e nella comprensione» e ha «tentato di essere una donna pacifica». Non ci sono vie d’uscita in w h o k i l l. «Il disco non sarebbe uscito così se fossi rimasta in Canada», commenta Merrill. «Oakland l’ha influenzato pesantemente. Sparatorie, rapine, paura. Entrare a far parte di quel mondo mi ha scossa e ispirata. Però predicare non m’interessa: voglio sollevare domande». Il livello sociale s’interseca con quello personale in una galleria di personaggi abbozzati che «rappresentano mie fantasie sulle vite degli altri, tentativi di capire i punti di vista di persone che non conosco». In tutto ciò gioca un ruolo la coscienza dell’identità sessuale: w h o k i l l è un disco molto femminile, ma in modo inusuale e non sexy. «La gente mi scambia per un maschio: forse il genere sessuale non è un fattore importante per chi mi ascolta. Però è vero che la mia musica non sarebbe così se non fossi donna. M’interessa dare voce a chi voce non ha».

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