Umbria Jazz secondo Francesco Rondolini
La ricostruzione storica del celebre festival nel nuovo libro Morlacchi
“Un sogno iniziato nel 1973”. Così comincia la presentazione di Umbria Jazz sul sito del celebre festival, da tempo una delle rassegne musicali più note, attrattive e autorevoli al mondo. Questo sogno, divenuto rapidamente realtà e cresciuto anno dopo anno con la partecipazione di tutte le personalità del jazz – e non solo – è oggetto di una attenta e dettagliata ricostruzione da parte di Francesco Rondolini. Il Festival di Umbria Jazz. Una ricostruzione storica (Morlacchi) è l’occasione per immergersi nella nascita e nell’affermazione del festival diretto da Carlo Pagnotta. Ne parliamo con l’autore.
Sono tante, tantissime, le considerazioni, le riflessioni e le domande da fare in merito ad Umbria Jazz, la mole del tuo libro lo dimostra. Due cose però vorrei sottolinearle subito. La prima riguarda la scelta di fondo cronologica: la tua ricostruzione si ferma al 1987, come mai?
Mi fermo al 1987 perché è l’anno della grande contaminazione tra il mondo del pop/rock e quello del jazz, il grande incontro artistico/musicale tra Gil Evans e Sting voluto fortemente dal direttore Carlo Pagnotta. Quel concerto, tenutosi allo stadio Renato Curi di Perugia, a tutt’oggi rimane una pietra miliare del festival umbro. Inoltre in quell’edizione c’è stato il grande ritorno di Miles Davis e già solo questo potrebbe bastare per dare il giusto blasone a un cartellone già di per sé straordinario. In ultimo le notti di San Francesco al Prato con la Gil Evans Orchestra che suonava fino alle prime luci dell’alba in una cornice – quella della chiesa di San Francesco appunto – estremamente suggestiva. Da lì in poi il festival proseguirà sempre con ospiti internazionali di primo livello, ma forse il 1987 rimane un anno irripetibile. Comunque vi posso anticipare che non finisce qua…
Attenderemo, allora… Il secondo elemento da sottolineare è la letteratura in materia. Al di là degli articoli e delle interviste, che hai riportato in una ricchissima bibliografia, esistono già quattro libri su UJ. In cosa si differenzia il tuo?
Gli ottimi libri che già parlano del Festival sono prevalentemente fotografici e raccontano gli anni della kermesse umbra in maniera sostanzialmente diversa dalla mia. Ho voluto fare un racconto storico-filologico quanto più dettagliato possibile. Tant’è che l’ultima parte del libro, che può apparire didascalica, in realtà è stata molto complessa nella ricerca in quanto ho cercato di ricostruire tutti gli ensemble che hanno suonato negli anni che racconto nel testo. Un lavoro veramente difficoltoso, te lo assicuro.
Umbria Jazz è sinonimo di Carlo Pagnotta, il suo ideatore. Lo spirito del festival che il patron aveva in mente nel 1973, alla prima edizione, è rimasto lo stesso?
Qua potremmo aprire un dibattito infinito. È chiaro che le atmosfere degli anni Settanta sono state uniche e non sono in alcun modo replicabili. L’Umbria Jazz dei primi anni è quasi puramente jazz. Nel corso del tempo, giocoforza, sono stati invitati artisti che non erano propriamente ascrivibili al mondo del jazz, facendo così storcere il naso ai critici più duri e puri. Ogni decennio ha le sue mode, le sue tendenze i suoi costumi che inevitabilmente influenzano la società che cambia e muta in base a ciò. Umbria Jazz si è evoluta stando sempre al passo con i tempi senza mai rinnegare il suo spirito primario che è quello del jazz. Anche oggi, che il mercato della musica dal vivo è profondamente cambiato, la manifestazione perugina rimane ancorata alle proprie radici culturali e musicali. Gli artisti jazz ci sono e ci saranno sempre. Concludo dicendo che lo spirito che muove il festival è sempre lo stesso, ha solamente tolto i pantaloni a zampa e le gonne gitane svolazzanti per mettersi la cravatta, ma alla fine sempre di jazz e i suoi derivati stiamo parlando.
Accanto a lui non si può non menzionare Alberto Alberti: qual è stato il suo ruolo?
Alberto Alberti è stato una figura fondamentale per Umbria Jazz. Era lui che aveva i contatti con i grandi artisti jazz d’oltreoceano. Ti cito le parole di Pagnotta, nell’intervista esclusiva all’interno del mio libro, per farti capire che tipo di rapporto aveva Alberti con un divo come Miles Davis: «aveva un grande rapporto con Alberto Alberti. Una sera eravamo a Bologna, Miles aveva ripreso da poco a suonare, ma era il periodo che non voleva mai uscire dalla sua camera da letto. Avevamo una suite all’hotel Baglioni. Io dissi ad Alberto: «Albe’ guarda che ci dobbiamo muovere che sennò la spigola ce la vendono!», e subito Miles: «Spigola?!». E venne a cena».
Nelle foto dei primi UJ non si può non notare il pubblico tipicamente anni ’70. All’epoca il festival era la versione jazz di Parco Lambro o aveva già una sua identità?
Il pubblico era di quella tipologia. C’è da dire due cose però. La prima è che molti jazzofili sono stati attirati dalle sirene del jazz sin dalla prima edizione, perché la formula dei concerti all’aperto, nei luoghi più suggestivi dell’Umbria, con un cast che comprendeva il gotha del jazz mondiale e ad ingresso gratuito, ha fatto ingolosire tutti gli appassionati. In secondo luogo le legioni del rock erano rimaste orfane di alcuni grandi raduni e siccome in Umbria i concerti non si pagavano, molti giovani hippy si sono riversati nel cuore verde d’Italia creando non pochi problemi di ordine pubblico. Molti hanno definito l’UJ degli anni Settanta una piccola Woodstock. Come non dargli torto.
Alla fine degli anni di piombo il festival viene sospeso e riprenderà nel 1982: con quali novità?
Gli anni Settanta sono terminati. Le proteste di piazza hanno perso la loro spinta propulsiva e ci sia avvia in un nuovo decennio fatto di benessere e di edonismo sfrenato. Il Festival riapre con una formula differente: non più tutto gratuito e itinerante, ma con molti concerti a pagamento e inoltre il festival diviene “Perugiacentrico” e non più spalmato nei vari borghi umbri.
Come evidenzi spesso, UJ non è un semplice festival. La collaborazione degli enti locali, lo sviluppo del turismo, il dialogo con le istituzioni lo ha reso qualcosa di più. Quando, nella sua storia, UJ ha avuto la percezione che qualcosa stava cambiando?
Io credo sin dai suoi albori, perché il richiamo di gente è stato veramente massivo. La lungimiranza degli enti locali, in accordo con Pagnotta e Alberti, di creare questo festival itinerante nei luoghi più significativi e pregni di storia della regione, ha decretato sin da subito una sicura e longeva riuscita. Il rilancio all’inizio degli anni Ottanta ha avuto subito un notevole successo, anche grazie a quegli anni Settanta così controversi, così complicati, così violenti e sporchi, ma che hanno costruito delle fondamenta solide su cui ripartire con uno slancio non indifferente.
La cronistoria 73-87 è una lunghissima sequenza di giganti del jazz, dai Weather Report a Gil Evans. Hanno partecipato praticamente tutti. Stando ai dati e alle voci che hai raccolto, quali sono stati gli artisti o i gruppi che hanno meglio contribuito alla costruzione dell’identità di UJ?
Come detto prima, le notti magiche di San Francesco al Prato con la Gil Evans Orchestra sono state un qualcosa – per chi le ha vissute – veramente di unico. Miles Davis è stato ospite per ben tre edizioni. Un giovane, ma già spigoloso Keith Jarrett in piazza nel 1974… Una cosa che però mi preme ricordare sono le jam session notturne nei piccoli club. Fuori dall’ufficialità del Festival gente comune, appassionati di musica, musicisti amatoriali si mischiano con gli artisti visti un attimo prima sui palchi della kermesse, creando live unici e improvvisati fino alle prime luci dell’alba tra sudore e fiumi di birra. Quelle jam davano un sapore unico e romantico al Festival. Oggi mi pare si sia persa quella sana abitudine ed è un vero peccato, ma il futuro è tutto da scrivere. Chissà che non tornino…