Londra, 23 luglio 2011. Camden Square.
Sono più o meno le 4 del pomeriggio.
Nell’appartamento al numero 30 c’è uno strano silenzio.
Eppure, sino a qualche ora prima, i vicini si sono lamentati: qualcuno, in tarda serata, si è messo a suonare batteria e percussioni.
Andrew Morris, un ragazzone nero che lavora per la Island Records, riesce però a tranquillizzare tutti: la calma torna presto in Camden Square.
Morris è la guardia del corpo della cantante che abita in quel loft, la stravagante rockstar inglese Amy Winehouse. È stato lui a convincere Amy (appassionata di percussioni) a smettere. Basta fare casino: la gente, a quell’ora, vuole solo dormire. E anche lui, Morris, a quell’ora vorrebbe andare a dormire: ma con Amy non sempre è possibile farlo… Bisogna stare in guardia. Anche quando la ragazza, come nelle ultime due o tre settimane, dà l’impressione di essere tranquilla. Il giorno prima, ad esempio, Miss Winehouse è stata felice di incontrare sua madre Janis.
«I love you mum», le ha detto dopo averla baciata.
Lo stesso giorno, è stata visitata dal suo medico personale che l’ha trovata in buone condizioni.
Secondo i genitori, Amy è sobria: per il momento, niente alcol.
Anche crack ed eroina sembrano appartenere al passato e alle spalle è stato buttato pure lo shock emotivo di quello sciagurato concerto a Belgrado del 18 giugno. Lì, al Kalemegdan Park, la Winehouse è salita sul palco completamente ubriaca, fuori di sé. I primi due brani (Back To Black e You Know I’m No Good), pur biascicati, li ha per così dire portati a casa. Poi, il delirio.
Amy, traballante, si è messa le mani sulla faccia quasi in segno di vergogna. Poi si è stretta le braccia attorno allo stomaco come se stesse soffrendo, ha gettato via il microfono, si è tolta una scarpa, ha abbracciato disperatamente il suo chitarrista, è entrata e uscita dal palco almeno due volte. Non sa neppure in che città si trovi, non ricorda i nomi dei musicisti né i testi delle canzoni che, eseguite in modo grottesco, risultano irriconoscibili.
Il pubblico, prima incredulo e poi inviperito, inizia a fischiarla e a rumoreggiare. Qualcuno si mette a gettarle cartacce addosso. Addirittura, un fan deluso le butta in faccia il suo cappello da cowboy.
Amy, per altro, ha onorato il contratto: è rimasta on stage 70 minuti ma poi ha (saggiamente) deciso di rinunciare al cachet. E anche al resto delle date europee: tournée cancellata. C’è chi dice che, nei giorni successivi, la Winehouse abbia più volte cercato di contattare il celebre Dr. Drew, la star della radio americana esperto nel recupero di tossicodipendenti (meglio se celebri).
Pare cercasse aiuto. Aiuto deve averlo cercato anche l’ultima notte, dopo aver smesso di suonare le percussioni. Ma, al momento, nessuno ha idea di come siano andate esattamente le cose. Si sa solo che Andrew Morris, alle 10 del mattino, è andato in camera da letto e ha trovato Amy addormentata.
Neppure 6 ore dopo, la ragazza non respirava più.
Morris, in preda al panico, ha chiamato il pronto soccorso.
Alle 16:05 un’ambulanza si è fermata di fronte al numero 30 di Camden Square. I paramedici, dopo una rapida visita, non hanno avuto dubbi: la cantante che diceva «no, no, no» al rehab è morta.
Amy Jade Winehouse non aveva ancora compiuto 28 anni.
«Credo proprio che mi unirò al club», ha detto a un’amica qualche tempo prima. Il club cui si riferiva era, ovviamente, quello famigerato della J27, la combinazione preferita delle rockstar maledette: Robert Johnson, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison. E ora, anche Amy Jade.
I genitori (il padre Mitch, taxista, e la madre Janis, che lavora in una farmacia, separati da quando la figlia aveva 9 anni) sono categorici: Amy non beveva più. Anzi, proprio l’astinenza da alcol (dicono) può averla uccisa.
Una cosa è certa: la polizia non rileva in casa alcuna traccia di droga o di aggeggi da tossici.
Ma un certo Tony Azzopardi racconta un’altra storia.
Lui è uno spacciatore della zona nord di Londra. Ha 56 anni e ha conosciuto la Winehouse attraverso il suo ex marito, Blake Fielder-Civil, che molti sostengono essere colui che ha introdotto Amy alle droghe pesanti.
«La Winehouse mi ha telefonato venerdì sera», ha dichiarato Azzopardi, «voleva crack ed eroina».
Secondo lui, quella notte intorno a mezzanotte, è passato a prenderla in taxi, all’Old Eagle pub. Una mezz’oretta prima, qualcuno ha avvistato Amy in un altro bar nei dintorni, il Good Mixer. I due vanno in taxi verso West Hampstead per incontrare un pusher locale.
«Mi ha dato 1200 sterline in contanti per 30 grammi di crack e una dose analoga di eroina», spiega.
Poi, dopo essersi fatto lasciare ad Archway, Azzopardi lascia la Winehouse al suo destino.
Solo due giorni prima, alla Camden Roundhouse, Amy era salita sul palco insieme alla sua figlioccia adottiva, la giovanissima Dionne Bromfield duettando su Mama Said, un pezzo che ricorda i brani dei girl group tanto amati dalla Winehouse che, non a caso, ha riportato in auge l’acconciatura alla Ronnie Spector.
Sembrava contenta. Ma, come cantava in una delle sue canzoni più celebri, Amy sapeva di «non potersi fidare di se stessa, di rappresentare un problema, di non essere brava».
Chi l’ha conosciuta anche solo professionalmente ricorda la sua evidentissima fragilità. «Continuava ad abbracciarmi», ricorda la famosa giornalista americana Daphne Barack, «sembrava avere la vulnerabilità sentimentale e l’equilibrio emotivo di un’adolescente».
La Barack ha firmato un libro e un documentario intitolati Saving Amy. Già, chi avrebbe potuto salvare Amy? Certamente, solo chi voleva davvero bene a Amy Jade e non a Miss Winehouse. Ma, soprattutto, chi aveva capito che lei era una persona malata e che doveva essere curata. Forse Reg Traviss, il suo fidanzato? O Mitch e Janis, i suoi genitori?
Già, ma dov’erano quando lei aveva bisogno di loro?
30/08/2011