21/06/2016

Un solo colpo per Paolo Gresta

Il giornalista romano e il suo ‘One Shot Band’, dedicato ai ‘figli unici’ del rock
A volte con un solo disco si può entrare nella storia, come pionieri di un intero genere, beautiful losers o chimere da collezionismo. Fatto sta che Paolo Gresta alle one shot band, ai gruppi da un solo colpo – ovvero un solo disco all’attivo poi via, scomparsi, mutati, esiliati – ha dedicato un intero libro. Si chiama One Shot Band. Gruppi, artisti, visionari e sognatori con idee (spesso) geniali e un solo disco alle spalle, edito da Arcana.
 
Più che una storia o un’analisi cronologica, One Shot Band è un testo piacevolmente “non sistematico”, nel quale individui 45 gruppi con un solo disco alle spalle. In base a quali criteri hai orientato la selezione?
Inizialmente ho pensato alla mera bellezza del disco, sono partito dagli artisti “one shot” più famosi come ad esempio Sex Pistols o Jeff Buckley. Ma mi sono reso conto che non scoprivo niente di nuovo, per cui ho cominciato a scavare e lentamente sono venuti fuori decine e decine di artisti e dischi fantastici. Quindi, oltre alla qualità della musica, mi sono orientato anche sull’importanza storica che alcune opere avevano avuto, come quelle di Germs, Monks, Young Marble Giants o La’s. Infine, non volendo scrivere un libro “sistematico”, come giustamente dici tu, ho cominciato a cercare storie curiose, interessanti e stuzzicanti riguardo singoli componenti del gruppo o legate alla band intera. I 45 artisti che ho inserito nel libro credo rispecchino tutti e tre i parametri che ho scelto.
 
Il grosso del libro è dedicato a nomi anni 60/70, un paradosso se pensiamo che si tratta dell’epoca classica, quella delle grandi opportunità discografiche…
Sì, un paradosso ma anche una conseguenza ovvia. In quei due decenni le etichette pubblicavano praticamente qualsiasi cosa gli passasse tra le mani e quindi chiunque poteva avere l’opportunità di avere il proprio disco nei negozi. Alcuni dei gruppi che ho scelto facevano parte di scuderie discografiche di livello mondiale. I Koobas, ad esempio, sono stati un gruppo eccezionale, ma la sfiga volle che fossero di Liverpool, aprissero i concerti dei Beatles e avessero il loro stesso manager. Oltre ad aver registrato il loro album omonimo a Abbey Road e con lo stesso ingegnere del suono degli scarafaggi, ossia Geoff Emerick. Insomma, tutti potevano pubblicare qualcosa, ma le circostanze legate alla scomparsa delle one shot band sono state davvero innumerevoli! Pensa che per Music to Eat della Hampton Grease Band, la Columbia Records sborsò 75.000 dollari di anticipo (nel 1971!) per la registrazione e la promozione di un album d’esordio, per giunta doppio. Salvo poi non supportarlo minimamente, facendolo finire addirittura nel reparto dei “comedy album” dei negozi, accanto a Don Rickles e Bill Cosby!
 
C’erano anche altri motivi dietro la scomparsa dopo il primo disco?
Sì, principalmente due: lo staff che girava intorno al gruppo che spesso si rivelò totalmente inadeguato e i musicisti che altrettanto spesso si facevano del male da soli. Robin H. Spurgin, ad esempio, produttore del disco dei J.K. & Co., permise alla band di far uscire come singolo di lancio un pezzo di soli 36 secondi! Le radio, ovviamente, lo boicottarono. I Clear Light invece, che come produttore avevano sua maestà Paul Rothchild (Doors, Love e molti altri), siccome erano stanchi di prendere ordini da lui, durante la registrazione di un’esibizione in tv decisero di scambiarsi gli strumenti gli uni con gli altri, sembrando quindi degli incapaci. Ovviamente alcune realtà sparivano per la morte prematura di qualcuno dei componenti, come Derby Crash dei Germs o Jack Vigliatura e Bill White dei For Squirrels. Altre invece per scelte precise da parte degli artisti di voler intraprendere una carriera solista come Jonathan Richman dei Modern Lovers o smettere del tutto con la musica, come Danny Kortchmar dei Clear Light.
  
Facciamo qualche nome per solleticare i curiosi. Partiamo dal piccolo Canada, luogo ideale per setacciare un po’ di figli unici come Jack London & The Sparrows.
Il classico gruppo che non dice niente e che poi, quando riveli essere la prima incarnazione degli Steppenwolf, tira fuori il boato di meraviglia! Esperti esclusi, ovviamente. Poi ci sono i John’s Children, gente che si fece spedire dalla NASA 20 amplificatori mostruosi con cui volevano essere più rumorosi degli Who. Ci riuscirono. Ma Pete Townshend non la prese bene e siccome i JC suonavano di spalla a Daltrey e soci in un tour del ’67 in Germania, tornati in patria vennero scaricati. Pensare che lì dentro ci suonava un certo Marc Bolan… I Dark, invece, stamparono solo 64 copie di Round the Edges, uno dei dischi più rari della storia e quindi dal valore immenso. Personaggio (a suo modo) romantico è stato il frontman degli Unknowns Bruce Joyner, che divenne leggendario nei primi ’80 per essere quello che aveva mangiato cristalli di cloruro a 4 anni, perso un occhio a 6 ed essere finito in un incidente a 19, dove si fratturò gambe, braccia, costole e spina dorsale. Ma era ancora in piedi! Andy Allison dei John’s Children, invece, ha un record. Durante un tour in Inghilterra riuscì a fratturarsi il cranio, slogarsi la mandibola, procurarsi una distorsione alla caviglia, rompersi tre costole e danneggiare alcuni tendini. Alla fine si assicurò contro sé stesso per 250mila sterline! Mentre forse sono in pochi a sapere che i violentissimi Germs, per un breve periodo, hanno avuto alla batteria una ragazza che si faceva chiamare “Dottie Danger”, nick dietro al quale si nascondeva la futura pop star Belinda Carlisle!
 
Non potevi non dedicare un capitolo ai leggendari Monks, che molti di noi hanno scoperto grazie a Julian Cope, che fa partire il kraut rock proprio con questi pazzi…
Black Monk Time ha in sé tutti i criteri di selezione del libro. È un disco fondamentale perché praticamente anticipa di una decina d’anni quello che sarà poi il punk. È indubbiamente un album splendido, pieno di storture e acrobazie timbriche, con una scrittura allucinata e geniale. E poi ha una storia stramba e particolarissima, come erano i Monks stessi: 5 militari americani di stanza a Francoforte che facevano proto-punk nei club tedeschi o dell’est asiatico, rischiando spesso di prendere un sacco di botte per la loro posizione critica nei confronti della guerra del Vietnam. Per di più, il disco uscì nel 1966 in Germania, ma negli Stati Uniti e nel Regno Unito arrivò solo nel febbraio 1997, 31 anni dopo. La Polydor insomma si era fatta bene i suoi calcoli e sapeva perfettamente che il mondo non era per niente pronto per la musica dei Monks.
 
C’è spazio anche per due figure di primo piano, apparentemente non one shot: Sonny Bono e Skip Spence.
Due album solisti, l’uno diversissimo dall’altro. Quello di Bono stride da morire con il resto della sua fortunatissima carriera: l’ho scelto proprio perché orrendo e quindi, in qualche modo, mi divertiva parlarne. Skip Spence invece scrisse Oar in un ospedale psichiatrico, sotto torazina. Venne fuori un capolavoro di psych-folk ancora oggi con pochi eguali. Questi due album sono stati anche il pretesto per ricordare tanti episodi legati alla vita dei due artisti. Come quando Sonny, proprietario di un ristorante italiano, si stufò di stare dietro alla burocrazia americana e decise di candidarsi a sindaco di Palm Springs per migliorare le cose, vincendo poi le elezioni! Oppure quando Skip inseguì i suoi compagni di band con un’ascia in un hotel di New York, strafatto di roba.
 
One shot band equivale spesso a progressive, come i Dark di Round The Edges.
Uno dei dischi più rari della storia della musica. I Dark infatti ne stamparono solo 64 copie, che oggi valgono una fortuna. Inoltre, l’edizione originale del ’72 aveva la particolarità che tutte le copertine erano state fatte a mano dal cantante/chitarrista/produttore Steve Giles, che aveva sviluppato e poi incollato la foto di Frances Hamerton, la figlia del parroco locale con cui aveva una piccola tresca, sul fronte del disco. Ma al di là di questo, Round the Edges è molto interessante per le sonorità assai aggressive e per lo splendido utilizzo del fuzz che si può ascoltare per tutti i 38 minuti dell’album.
 
L’Italia è rappresentata da una band romana amata dai cultori, ovvero il Buon Vecchio Charlie. E pensare che l’ottima performance di chitarra era di un certo Richard Benson…
Mi ha colpito proprio questo. Se nomini questo gruppo dei primi anni ’70, sono in pochissimi a ricordarsene. Viceversa, se pensi a Benson ti vengono subito in mente i suoi concerti dietro a una rete metallica di protezione e i polli crudi e la verdura che il pubblico gli tira addosso. Insomma, oggi è una vera icona trash, ma nel 1971 era voce e chitarra di un progetto molto interessante, all’interno del quale ricopriva anche il ruolo di autore. Inoltre era affiancato da gente del calibro di Luigi Calabrò, Alessandro Centofanti, Paolo Damiani… Ricordiamolo com’era, verrebbe da dire!
 
Hai codificato alcune dinamiche del periodo d’oro, ma negli anni successivi, dal post punk ad oggi, per quali motivi ci troviamo di fronte a fenomeni one shot?
Negli anni ’80 Mtv ha riscritto le regole del music business, per cui tutte le major sono corse a cercare il singolo da milioni di copie da lanciare in televisione, producendo di contro dischi scadenti. Non a caso, quel decennio è il più ricco di meteore in assoluto. Dai ’90 in poi, invece, si è affermata la filosofia del DIY di Washington che dura fino ad oggi, con migliaia di gruppi che si registrano, si promuovono e gestiscono tutto il loro lavoro. Stiamo vivendo un’epoca in cui le band non ambiscono più a pubblicare per le grandi etichette del passato, ma anzi le evitano per paura di vedere stravolta la loro musica. Tra l’altro, con lo strumento del crowdfunding chiunque ha la possibilità di stamparsi il suo disco e venderlo online. I fenomeni one shot, oggi, sono molto più legati al mainstream che alla musica indie: le major spremono finché possono il cantante del momento e poi, semplicemente, passano ad un altro. Gli indipendenti non hanno questo tipo di pressione: pur tra mille difficoltà possono produrre musica all’infinito, contando soprattutto su una comunità online che non si tira indietro quando c’è bisogno di dare una mano.
 
Verso la fine spunta inatteso un Mark Hollis…
Esattamente come è spuntato davanti a me all’improvviso, durante le mie ricerche. La maggior parte delle persone associa i Talk Talk ai singoli It’s my Life e Such a Shame, ignorando invece l’ultima parte di carriera della band di Hollis durante la quale piantarono i semi di quello che sarebbe diventato il post rock. Hollis cominciò questo processo con Laughing Stock del 1991 e poi lo concluse con il suo disco solista omonimo, nel ’98. Non conoscevo l’album e ascoltandolo mi ha davvero emozionato: forse il più bello che ho inserito nel libro. Un lavoro lo-fi toccante e profondo fatto di voce, pianoforte e chitarra acustica, con Mark ispiratissimo. Ovviamente passò quasi del tutto inascoltato, in quegli anni.
 
Con l’avvento del cd, l’emersione di nuove opportunità tecnologiche e il boom delle ristampe, l’uscita di dischi postumi (mi vengono in mente il secondo Spring o il Biglietto per L’Inferno del Tempo della semina) ha affievolito il primato di molte one shot band…
Infatti per alcune di esse non ho considerato reunion o raccolte uscite a distanza di decenni dallo scioglimento. Non tutti sono come Michael Jordan, che dopo il baseball torna al basket e ricomincia a vincere. Però è stato proprio grazie alla tecnologia, nel senso di YouTube, che ho potuto ascoltare e scoprire decine e decine di gruppi completamente scomparsi, che contavano poche centinaia di visualizzazioni. E non ci dimentichiamo della cassetta, che sta incredibilmente tornando di moda. Fu proprio grazie al disco di Kè, ascoltato per la prima volta su nastro, che mi è venuta l’idea di questo libro. “Fa strano” sapere di ventenni che decidono di stampare il disco d’esordio su cassetta! Ma allo stesso tempo è emozionante. Magari un giorno quell’album diventerà un cimelio prezioso per i collezionisti di tutto il mondo.
 
 

 

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