Valeria Saggese e la lingua segreta della musica napoletana
Un incontro con l’autrice del libro di Minimum Fax dedicato alla parlesia
Che la musica si nutra di segreti, di enigmi e circoli chiusi è cosa nota. Meno noti sono quegli ambienti misteriosi, ombrosi e umidi, nei quali si creano linguaggi iniziatici, codici cifrati che solo a una lettura superficiale si chiamano slang. Chi segue le vicende della musica napoletana conosce benissimo il fenomeno della parlesia: un gergo per musicanti, o meglio ancora “la lingua segreta della musica napoletana”. È il sottotitolo di Parlesia, il nuovo libro di Valeria Saggese edito da Minimum Fax. Appunimm’ ‘a parlesia direttamente con lei.
Non sei napoletana ma salernitana. Agli occhi di un profano potrebbe sembrare un dettaglio di poco conto, ma nell’ottica del tuo libro è determinante. Una non napoletana che si addentra nelle origini della lingua segreta: è stato facile?
Fin da bambina sapevo quale fosse la mia città di nascita, ma ancora di più ero cosciente che definirmi di un luogo e basta era per me troppo limitante. Mia madre è di origine lucana, mio padre ha lavorato per 40 anni a Napoli, da adolescente i miei genitori mi accompagnavano spesso a Roma per le lezioni di danza, città in cui poi mi sono trasferita. Ho studiato in Spagna, in Australia e poi ho scelto Londra come città per farmi le ossa. Salerno negli ultimi anni la vivo molto di più, c’è la famiglia, ma gli amici cari e il lavoro sono ovunque. In tutto questo andirivieni Napoli c’è stata sempre nei miei giorni, con il suo teatro, con la sua musica, con la rabbia e con gli amori. A casa di mio nonno ascoltavo le canzoni classiche napoletane e con “Santa lucia luntana, Munasterio ‘e Santa Chiara ed Era de maggio” ci sono cresciuta. Sono sempre stata una grande appassionata della lingua napoletana, e non ti nascondo che quando leggo il napoletano scritto malissimo ci soffro molto. Dunque, per rispondere alla tua domanda, addentrarmi nei vicoli di Napoli e nei luoghi più nascosti non è stato difficile, ma semplicemente una meravigliosa riscoperta.
La storia ci dice che questo gergo nacque all’inizio dell’Ottocento in ambienti malavitosi e si estese poi ad altri ambiti, fino a toccare quello della musica. Diventa così una “lingua iniziatica”. Perché, dove e quando i musicisti ne facevano uso?
Più che in ambienti malavitosi, questo gergo è da considerarsi in una prima fase un gergo di piazza utilizzato dai vagabondi, dagli ambulanti, insomma da chi faceva una vita da lavoratore ambulante, tra questi c’erano persone che vivevano ai margini della società. Poi, nell’800 assume le caratteristiche di un gergo di mestiere, quello dei musicisti erranti, i posteggiatori. La malavita aveva il suo gergo e ha preso la sua strada.
Nella seconda metà del ‘900 i musicisti che frequentavano i club americani la impararono e la usavano soprattutto per non farsi intercettare dalle donne e soprattutto da chi doveva pagarli (capitava che le paghe saltassero…). Questo è avvenuto normalmente anche nei jazz club fino a pochi anni fa. Il jazzista come il posteggiatore è un lavoro precario e spesso mal pagato…
Una chiave importante del tuo lavoro è nelle numerose interviste. Hai trovato ampia disponibilità da parte di tutti o c’è ancora qualcuno che è restio a rivelare i segreti della parlesia?
In realtà, mi sono convinta a scrivere questo libro solo dopo aver contattato diversi musicisti per sapere loro cosa ne pensassero. Se si fossero opposti non lo avrei scritto. La mia fortuna sta nella profonda conoscenza e nell’amicizia che ho con molti di loro. Con la maggior parte non ci sono state delle vere e proprie interviste, ma telefonate, incontri, cene, e vita vissuta di tanti anni.
Questo fenomeno, che non è solo linguistico ma anche sociologico, culturale in senso lato, è stato studiato poco, come dimostra anche la limitata bibliografia. Minimum Fax però ha creduto nella tua idea: è il momento storico migliore per tirare fuori dall’ombra la parlesia?
A Minimum Fax è piaciuta l’idea ma soprattutto la storia. Il direttore editoriale ha chiaramente affermato che se fosse stato solo un saggio linguistico teorico non avrebbe sposato il progetto, anche se parlava di Napoli.
C’è stato un momento in cui, grazie alla fama di Pino Daniele e dei musicisti che hanno suonato con lui, la parlesia ha avuto una certa notorietà: ha mai perso la sua natura di lingua segreta?
Negli anni ’80 la parlesia era diventata una moda e chiaramente iniziò a perdere la sua funzione primaria. Oggi i giovani riprendono qualche parola per conservare la tradizione ma pochi sono quelli che utilizzano qualche termine per non farsi capire. Tony Esposito fu il primo a usare parole del loro gergo carbonaro in Breakfast dell’album Rosso napoletano. Poi arrivò Pino che fece tanta ricerca musicale e linguistica. Miscelava inglese, parlesia, napoletano, spagnolo… era tutto un viaggio sonoro. Fu anche accusato di essere lo sdoganatore del linguaggio segreto, invece dobbiamo molto a lui e agli altri artisti che l’hanno utilizzato in musica. Non è stato uno sdoganamento ma una legittimazione. Quando una cosa si legittima significa che esiste ed è importante. Se i musicisti stessi non avessero portato in superficie la parlesia attraverso le canzoni e usandola in famiglia, sono certa che si sarebbe persa e non avremmo mai conosciuto questo lato di un mondo culturale unico e irripetibile.
La fase memorabile del rock napoletano, dagli Osanna al Cervello passando per Jenny Sorrenti e il Balletto di Bronzo, ha rigettato la parlesia per rivolgersi all’Italia e in alcuni casi anche al mondo: come mai questo rifiuto?
Mi aspettavo una domanda sul rock prog, so quanto tu sia appassionato… Come testimonia Lino Vairetti degli Osanna nel libro, loro erano affascinati dalla musica oltre Manica, dal rock, e non guardavano a casa loro. Evitavano anche il napoletano, figuriamoci la parlesia. Solo più tardi hanno posto attenzione anche alle radici.
Uno slang nello slang: la parlesia delle donne. Che caratteristiche ha avuto la sua declinazione femminile?
Ho definito la parlesia “linguaggio cameratesco” perché ci sono tante parole che fanno riferimento alle donne. I musicisti parlavano in gergo per non farsi capire da chi dovesse pagarli, ma anche per non farsi capire dalle donne. Apprezzamenti goliardici che a volte scantonavano, per cui avevo bisogno di conoscere il punto di vista di varie musiciste per capire se questo atteggiamento maschile potesse infastidire. Così, partendo da Fausta Vetere della NCCP fino ad arrivare a Maria Pia De Vito, ho dedicato una parte del libro a questo argomento. Ne è venuto fuori che quasi nessuna si è mai veramente sentita offesa, anzi molte di noi (io la parlo da 20 anni) la usiamo, se capita.
E oggi? Nell’epoca del digitale, del postumano, della liquidità, si usa ancora la parlesia?
La vecchia generazione, se capita, usa ancora alcune parole mentre alcuni giovani musicisti la stanno usando nelle canzoni come arricchimento linguistico e recupero della tradizione. Sono soprattutto i giovani cantautori e cantautrici. I rapper e i trapper hanno, invece, i loro slang.