Lei la chiama «Organic Moonshine Roots Music». Roots, perché è musica delle radici, un miscuglio felicemente ibrido di folk, blues, soul e country. Suoni fuori moda, vibrazioni d’altri tempi. Organica, nel senso di naturale, non artificiale, genuina. Il contrario di quel che propone il mercato del pop. E infine Moonshine, come il whisky che si distillava illegalmente nel Tennessee. Perché è roba forte, non edulcorata.
Valerie June sa quello che vuole. Lo sapeva in passato, mentre incideva tre dischi «sul campo, un po’ come ai tempi di Alan Lomax». Lo sa oggi, che affida la sua musica alle mani esperte di due produttori come Dan Auerbach dei Black Keys e Kevin Augunas. Pushin’ Against A Stone è il suo esordio con una vera etichetta discografica ed è destinato a farne circolare il nome fra gli appassionati di musica americana. Non è perfetto. Non è pienamente maturo. A volte è leggero e ammiccante. Ma ha il carattere ruspante della musica rurale, il piglio del blues inurbato, il tono intimistico del vecchio cantautorato, la comunicativa del vecchio folk.
Ma più di ogni altra cosa, ha la voce di Valerie. Indisciplinata, acuta, penetrante come quella di una blueswoman anni ’40. Oppure dolce ed eterea, quasi infantile. O ancora, profonda ed emotiva come quella di una cantante soul. Lei difende con orgoglio la sua voce: «Quando i fonici mi dicono che certe note che prendo non sono piacevoli da sentire, dico loro che non fa niente: l’importante è che siano reali». E aggiunge che è uno strumento così duttile perché ogni volta cerca di tradurre in suoni le voci che sente nella testa e che le suggeriscono le canzoni da interpretare. E così nel country blues punteggiato da fiati leggeri Workin’ Woman Blues si cala nei panni di una donna lavoratrice «che sgobba come un uomo da tutta una vita», nella fatalista Twined & Twisted è una ragazza che lascia il mondo che conosce e vaga per l’America in cerca diversità. In You Can’t Be Told racconta la storia (vera) di un amico con un cancro al fegato che sul letto di morte le raccomanda di vivere la vita con calma e saggezza», in Shotgun mette in scena un blues impalpabile e sepolcrale cantato da una donna tradita che ammazza il suo amante. E in Tennessee Time canta un bell’inno old time alla sua terra natale: «Houston è una città tosta, New York non fa per me, passo attraverso le città senza requie, New Orleans è un casino […] Ora so quel che un tempo non sapevo: quando tornerò in Tennessee non mi muoverò più».
Sì, perché Pushin’ Against A Stone è figlio del Tennessee, di una terra dove si sono intrecciati i destini di stili musicali bianchi e neri, la Stato di Memphis e di Nashville. Si sente. Valerie si misura col country blues, che però anima con punteggiature di fiati. Si accompagna alla chitarra acustica come una vecchia storyteller raddoppiando la voce. Evoca il soul anni ’60. E recupera l’antica Trials, Troubles, Tribulations dal repertorio di E.C. Ball dopo avere scoperto che piaceva anche a Auerbach, il cui ruolo è stato fondamentale. Valerie è una cantastorie prima che una musicista e la mano dei produttori si sente nella varietà degli arrangiamenti. Registrato fra Europa e Stati Uniti, Pushin’ Against A Stone non è mosso da alcuna ansia purista, ma è animato dalla volontà di fare musica nel 2013 con lo stesso spirito col quale la si faceva nel 1933, con l’aiuto di un cast che cambia di canzone in canzone e comprende Booker T. Jones all’organo, Jimbo Mathus alla chitarra, Richard Swift alla batteria, oltre allo stesso Auerbach.
Il finale è affidato a una ballata intitolata On My Way, la cui strofa ricorda quella di Friend Of The Devil dei Grateful Dead con un assolo poetico di violino e coretti a bocca chiusa alla Knockin’ On Heaven’s Door. «Ho scritto il pezzo in California con Booker T. Jones e lì abbiamo registrato le voci, il mio ukulele e il suo organo. Gli ho detto che la volevo incidere e lui ha risposto che avrei potuto farlo solo se avessi trovato un violinista e un contrabbassista adatto. Con tutti i posti al mondo, li ho scovati a Budapest. La violinista si chiama Luca Kézdy: lei, ungherese, nel giro di una ventina di minuti è riuscita a suonare in perfetto stile bluegrass. Non è pazzesco?». Quando c’è di mezzo la musica, nemmeno il Danubio sembra distante dal Mississippi.